Oggi non
ci troviamo di fronte a uno scontro di civiltà,
ma a uno scontro di intolleranze, secondo Ramin Jahanbegloo.
E cos’è l’intolleranza? “Anzitutto
l’incapacità o l’indisponibilità
a vivere qualcosa di diverso”. “Dobbiamo
incoraggiare le forze d’opposizione a aderire
ai valori della moderazione, della tolleranza e della
non violenza”, chiede questo giovane e coraggioso
professore dell’Università di Teheran,
membro del comitato scientifico di Reset Doc. Un uomo
che è stato appena arrestato, in Iran, per le
sue idee pacifiche, liberali e democratiche.
Il “dialogo tra le civiltà” è
divenuta una delle espressioni chiave, nel discorso
mondiale sulla globalizzazione culturale e sulla risoluzione
di conflitti internazionali. Tuttavia la scomparsa degli
stereotipi tradizionali che vigevano lungo le linee
ideologiche della Guerra Fredda ha dato vita a un nuovo
schema di confronto, visibile al di sotto dell’idea
dello scontro di civiltà. Questa nuova forma
di frizione ideologica potrebbe senz’altro trasformarsi
in un vero e proprio conflitto, specialmente se si fornirà
una dimensione religiosa agli atti di violenza, così
potenzialmente dando il là a tutta una sequenza
di eventi che potrebbero eludere la razionalità
politica. Dai tempi del conflitto tra impero persiano
achemenide e le città-stato dell’antica
Grecia, gli scontri di civiltà hanno rappresentato
un tema importante e molto familiare nella storia mondiale.
Tuttavia, se l’energia rilasciata nello scontro
di due civiltà potesse venire incanalata nella
giusta direzione, i contatti tra due differenti culture
potrebbero fornire un’opportunità d’oro
per la nascita di una costruttiva autoriflessione. La
gente sarebbe in grado di esaminare il proprio inquadramento
culturale alla luce di un altro, e se un esperimento
di questo tipo riuscirà, non solo si eviterà
il conflitto, ma si creerà anche l’opportunità
di ampliare gli orizzonti intellettuali di una cultura.
Non è infatti difficile trovare esempi storici
del modo in cui uno scontro di civiltà ha condotto
ad un dialogo di più alto livello. L’esempio
e il paradigma di Al-Andalus è particolarmente
pertinente al tema del nostro incontro, il dialogo tra
le culture. Ciò che era notevole nella vita religiosa
e culturale della Spagna islamica è che, nel
loro intenso e ricco dialogo, ebrei, cristiani e musulmani
non miravano tanto a convertirsi l’un l’altro
alle rispettive fedi. Cercavano piuttosto di approfondire
la loro comprensione e di convincersi della verità
delle proprie fedi. Penso che siamo tutti d’accordo
che al cuore dell’esperienza di Cordoba non sta
l’intolleranza, ma un’aspirazione all’universale
e un rispetto per la diversità. L’Europa
si oscurava al tramonto, e intanto Cordoba, la città
più grande e la sede dell’impero dei Mori
musulmani in Spagna, risplendeva di lampade pubbliche.
Gli europei si bagnavano in fiumi e laghi, e i cittadini
di Cordoba usufruivano di più di un migliaio
di bagni. L’Europa era invasa dagli insetti, mentre
nella Spagna musulmana la gente si cambiava la biancheria
ogni giorno. Gli europei camminavano nel fango, mentre
le strade di Cordoba erano pavimentate. I palazzi europei
avevano buchi per il fumo sui tetti, mentre l’architettura
araba di Cordoba era squisita.
La nobiltà europea non sapeva scrivere neanche
il proprio nome, mentre i bambini di Cordoba andavano
a scuola. I monaci d’Europa non sapevano leggere
il servizio battesimale. Gli insegnanti di Cordoba crearono
una biblioteca con più di due milioni di libri,
su tutti gli argomenti della vita umana. E’ una
piccola pagina della storia europea, che gli studiosi
europei, nei loro libri, scelgono di ignorare completamente
o di menzionare solo di sfuggita. In quest’epoca
in cui è l’Occidente a dominare il mondo,
spesso sentiamo ricordare quanto l’Europa sia
e sia stata civile, democratica, umana, tollerante e
illuminata rispetto ai barbari, primitivi, violenti
e “medievali” musulmani. Per tutto il Medio
Evo ebrei e musulmani hanno preso in prestito molto
gli uni dagli altri, nel campo della filosofia, della
scienza, del misticismo e della legge. Per esempio,
Maimonide venne profondamente influenzato dai nostri
filosofi musulmani, mentre molti oggi, nel mondo islamico,
lo leggono come un pensatore arabo.
Un esempio eccezionale della cooperazione religiosa
fu la moschea di Cordoba, che il venerdì veniva
usata dai predicatori musulmani, il sabato dalla comunità
ebraica, e la domenica dai cristiani. Quella era veramente
una società aperta, creata da un’atmosfera
di solidarietà senza discriminazione religiosa.
Nella Spagna musulmana, per un periodo di quasi ottocento
anni, esisté una società in cui musulmani,
ebrei e cristiani vissero insieme in pacifica coesistenza,
condividendo conoscenza, cultura e comprensione. Uno
dei problemi fondamentali che si incontrano più
di frequente in una situazione di dialogo è la
tendenza a paragonare gli ideali della propria fede
con le pratiche dell’altro, e viceversa. Si usa
questo approccio anzitutto per sminuire e degradare
l’altro. Un approccio di questo tipo non solo
impedisce la comprensione e la conversazione genuina
al di là dei confini religiosi, ma conduce anche
alla glorificazione gratuita della propria fede e dei
testi sacri. In realtà, il vero problema comincia
quando entrambe le parti cominciano a credere che un
equilibrio sia impossibile e che uno scontro sia inevitabile.
Quando succede, finiscono di ascoltarsi l’uno
con l’altro, si deumanizzano l’un l’latro
e rendono il clash sempre più probabile. A meno
che, e fino a che, le tre fedi abramitiche non scopriranno
un nuovo paradigma di vita religiosa che onori la diversità
come parte della religiosità umana, saranno destinate
a competere, e le civiltà saranno in conflitto.
Questo nuovo paradigma non può essere insegnato,
ma può essere scoperto. E il modo di scoprirlo
è osare tuffarsi in una profonda esperienza interreligiosa
con le tradizioni contemplative del mondo.
L’aspetto contemplativo della religione conduce
sempre ad un senso di umiltà. La grande mistica
di ogni fede comprendeva che Dio era più grande
di ogni fede. Immergendo la gente nelle tradizioni contemplative
dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam,
e coltivando l’umiltà spirituale che alimenta
un paradigma di santa diversità e mutuo rispetto
(opposta alla mera tolleranza) il mondo può andare
oltre lo scontro di civiltà e verso una nuova
era di dialogo globale e di pacifica cooperazione interspirituale.
Oggi non viviamo uno scontro di civiltà, quanto
piuttosto uno scontro di intolleranze. L’intolleranza
è anzitutto l’incapacità o l’indisponibilità
a vivere qualcosa di diverso. L’intolleranza di
quanti sono diversi da noi è ovviamente prevalente,
nelle nostre società moderne. Non si tratta solo
di intolleranza morale o politica, ma dell’intolleranza
verso chiunque sia diverso da noi. Dal tragico evento
dell’11/9 c’è stato un numero sempre
crescente di attacchi razzisti verso musulmani, sikh
o chiunque altro avesse radici mediorientali o asiatiche.
Oltre a ciò, i commenti superficiali che politici
e media hanno riservato all’Islam e ai musulmani
hanno alimentato nel mondo le fiamme dell’odio
e della paura tra le diverse comunità di credenti.
Ma l’intolleranza verso i musulmani va a braccetto
con la demonizzazione dell’Occidente operata dai
fondamentalisti musulmani.
Mentre molti musulmani riconoscono il sostegno e la
sensibilità della maggior parte degli occidentali,
alcuni musulmani continuano a imbarazzarci con la ristrettezza
della loro visione e la grossolanità dei loro
sentimenti verso l’Occidente. L’agenda sembra
essere la stessa in entrambi i campi: promuovere un
conflitto generalizzato tra il mondo islamico e l’Occidente.
Ma chi ha il dovere maggiore di fermare questo scontro
di intolleranze commesso nel nome dell’Islam e
della civiltà occidentale? La risposta, ovviamente,
è: i musulmani e i non-musulmani che sono contrari
a una raffigurazione superficiale e apocalittica di
un mondo diviso. Ogni soluzione a un odierno scontro
di intolleranze deve lottare contro il folle nazionalismo,
l’odio tribale e l’intolleranza religiosa
ed etnica, e deve incoraggiare le forze d’opposizione
a aderire ai valori della moderazione, della tolleranza
e della non violenza. E’ difficile riconciliare
l’idea del dialogo tra le culture con la teoria
contemporanea che la non violenza sia semplicemente
una strategia di convenienza.
La non violenza non è una maglietta che oggi
s’indossa e domani si toglie. Praticare la non
violenza è diventata una necessità pratica
nelle relazioni internazionali. Dal momento che ci viene
richiesto di creare un’intera cultura di non violenza
intorno a noi, dobbiamo creare una cultura di non violenza
e di tolleranza intorno a noi per praticare il dialogo.
L’ingiunzione ad essere tolleranti e non violenti
vuol dire soltanto, e senza dubbio, che dovremmo esercitare
tolleranza e non violenza se e quando ci confrontiamo
con idee o azioni che disapproviamo o addirittura consideriamo
odiose, allo stesso modo in cui il principio della libertà
di espressione ha senso solo se è applicato anche
a quanti dicono cose per noi sbagliate. Perché
ovviamente non c’è particolare impedimento
o merito, e non richiede neanche uno speciale sforzo
spirituale, il tollerare ciò che consideriamo
buono e giusto e ciò che si accorda con le nostre
idiosincrasie, e non c’è merito particolare
neppure nel tollerare ciò che coincide con le
nostre opinioni. E ancora, come l’intera storia
prova abbondantemente, non possiamo e non dovremmo tollerare
l’inumano.
Tollerare l’inumano porta solo più inumano.
Colui che accetta passivamente l’inumano ne è
tanto coinvolto quanto chi aiuta a perpetrarlo. Il dialogo
non violento è il modo migliore per protestare
contro l’inumano senza esserne indifferenti. Il
che vuol dire che se il dialogo interculturale dev’essere
autenticamente se stesso, dev’essere accompagnato,
sostenuto e messo alla prova da una tolleranza dialogica.
Differendo da una tolleranza dialettica, in cui ogni
voce è bloccata all’interno di punti di
vista prestabiliti, e differendo da una tolleranza eclettica,
una tolleranza dialogica comporta sia il sé-altro
sia il sé-sé. Il sé incontra qualcuno
che è sia altro sia sé. Il che ricorda
una bella poesia di T. S. Eliot pubblicata nei Quattro
Quartetti, dove il personaggio di un poeta-filosofo
sente dentro di sé la voce di un’altra
persona e dice: “Benché noi non lo fossimo.
Io ero ancora lo stesso. Conoscere me stesso eppure
essere qualcun altro”. Quel qualcun altro che
c’è e non c’è, come la voce
di un’altra cultura o di un’altra religione,
viene a chiederci di essere aperti alle possibilità
del pensiero dell’altro, così come alla
voce del dialogo stesso. Questa attitudine all’apertura
suggerisce che quanti prendono parte a un dialogo devono
credere che le visioni del mondo di ciascuno sono in
grado di essere comprese. In altre parole, non potrebbe
esserci alcun dialogo interculturale tra culture che
costituiscono camere di significato chiuse ermeticamente.
Al contrario, devono assumere che le loro visioni del
mondo siano orizzonti aperti. Toshihiko Izutsu usa l’espressione
“fusioni di orizzonti” per descrivere il
modo in cui il contatto tra due opposti inquadramenti
culturali possono finire per raggiungere una nuova prospettiva
sul mondo, oltre e al di là delle loro attuali
visioni del mondo.
Se qui stiamo parlando in termini di princìpi
e di spirito, questo commento non varrebbe solo a livello
di cultura ma anche di civiltà, e certamente
ciò che chiediamo oggi è questa fusione
di orizzonti – la chiave con cui trasformare lo
scontro di civiltà in un dialogo di civiltà.
Se venissero fatti degli sforzi in tutto il mondo, tra
tutte le culture, per raggiungere una “fusione
di orizzonti”, allora alla fine otterremmo una
globalizzazione nel vero senso della parola. Perciò,
l’obiettivo di un dialogo tra le culture non è
la creazione di un mondo dal pensiero e dalla cultura
uniforme, ma, idealmente, l’esatto opposto. Il
dialogo culturale non dovrebbe essere niente di meno
di un meccanismo che arricchisca l’individualità
e la visione del mondo delle persone, siano esse americane
o di una comunità islamica. Ogni cultura tende
a possedere un inquadramento che determina la forma
di base del comportamento, dei pensieri, e delle emozioni
delle persone che appartengono a quella cultura.
La comprensione dialogica richiede che membri di culture
diverse si impegnino attivamente l’un l’altro
in un dialogo reale, ascoltino cosa hanno da dire gli
altri, e raggiungano accordi parziali sul significato
delle prospettive comunicate. Questo significa, ed è
importante, che si interrogano le altre culture, e non
che le si evita. Interrogare in modo critico rimane
parte del processo del dialogo interculturale. Ma venire
a conoscenza di ciò che non si sa dovrebbe ricordarci
della saggezza di Socrate. Sebbene l’interrogare
socratico fosse motivato dalla sua ammissione di ignoranza,
permetteva anche la critica dei valori e delle fedi
dei suoi interlocutori, sottolineandone l’inconsistenza.
Indicando i limiti della conoscenza di Teeteto, Socrate
crede che il giovane possa diventare più gentile
con i suoi colleghi. Allo stesso modo, quando ritraiamo
il dialogo interculturale come un interrogare senza
fine, i partecipanti si incoraggiano l’un l’altro
a vivere le proprie visioni culturali come aperte alla
revisione. Una conversazione interculturale, anche con
un “altro” inflessibile, offre a chi parla
i vantaggi sia della scoperta-del-sé sia della
possibilità di imparare un altro aspetto di una
verità più grande e più complessa.
L’obiettivo non è giungere necessariamente
a un accordo tra persone con opinioni fondamentalmente
diverse. Lo scopo è raggiungere un senso di empatia
e solidarietà per il mondo. Non possiamo più
predicare qualsiasi forma di omogeneizzazione culturale,
né propugnare una visione di differenza radicale.
Il mondo è diverso ed è importante rispettare
la diversità. Ma né le leggi internazionali
né le istituzioni internazionali sono sufficienti
ad assicurare la pace e il dialogo nel nostro mondo
contemporaneo. Abbiamo bisogno di coltivare una coesistenza
dialogica, che è possibile solo quando sussiste
interesse nell’ascolto e nella comprensione del
punto di vista dell’altro, e rispetto per ciò
che esso considera vitale per la sua identità
culturale. Queste sono le premesse di base e gli obiettivi
principali di un dialogo non violento tra culture. Ma
abbiamo bisogno anche di capire che nel mondo di oggi
la spirale dell’odio e della violenza costituisce
un’enorme minaccia non solo alla pace internazionale
ma anche al destino dell’uomo. E’ tempo
di realizzare che ci troviamo nel pieno di un grande
rivolgimento. La democratizzazione dell’intolleranza
è diventata la regola del comportamento sociale.
Paradossalmente, la nozione di tolleranza predicata
da tutte le religioni e culture è diventata intolleranza
all’interno dei confini della politica particolaristica.
Dobbiamo pensare al di là di questa sovradeterminata
dicotomia di “West” e “Rest”,
che sembra suggerire che il “resto del mondo”
non ha nulla da dire a proposito dell’Occidente.
Un’affermazione simile negherebbe l’essenza
pluralistica della civiltà occidentale. Se l’Occidente
comincia ad agire come i Talebani, ignorando il fatto
che al suo interno include una diversità di vedute
e culture, finirà per tradire le sue radici liberali
e gli obiettivi democratici. Tuttavia, c’è
una possibilità di coesistere in un mondo sempre
più intollerante. Possiamo partire dalla premessa
che la dignità umana è troppo grande per
essere imprigionata in una cultura. In altre parole,
ogni cultura alimenta e sviluppa una certa dimensione
della dignità umana, e il progresso verrà
sempre da un dialogo tra culture. Così, se l’Occidente
chiede all’Islam di eliminare le sue intolleranze,
ha il dovere di fare altrettanto con le sue. I musulmani
hanno bisogno dell’Occidente per trovare un equilibrio
tra democrazia e responsabilità, e l’Occidente
può imparare dal senso di comunità dell’Islam.
Mahatma Gandhi, una figura considerevole per i nostri
tempi, ha combattuto tutta la vita contro l’intolleranza.
Ogni sua azione mirava a creare armonia tra culture
e individui. Gandhi ha saputo esprimere meglio di tutti
il senso di questo dialogo tra culture e di questo scambio
di idee, quando ha detto: “Non voglio che la mia
casa abbia muri su tutti i suoi lati e che le finestre
siano tappate. Voglio che le culture di tutti i paesi
soffino nella mia casa il più liberamente possibile.
Che sfida rappresentano queste parole per quanti lottano
contro lo scontro delle intolleranze. Se il mondo sta
cercando una via per uscire dallo scontro di intolleranze,
il modo migliore è difendere la libertà
di espressione dell’uno senza mancare di rispetto
alle opinioni degli altri. La vera natura del dialogo
consiste nell’abilità di vedere se stessi
nella prospettiva dell’altro. E’ certamente
vero che esistono forze, all’interno di ogni cultura,
che ostacolano questo impegno. C’è il pericolo
di leggere, nelle altre culture e nelle altre religioni,
qualcosa che in realtà non c’è.
Ma questo è il rischio di ogni dialogo. Se c’è
una decostruzione da compiere per entrare veramente
in dialogo con le altre culture, essa deve cercare di
epurare gli aspetti violenti e distruttivi della nostra
stessa cultura e della nostra stessa coscienza.
La questione rilevante non concerne cosa dovremmo credere,
ma cosa dovremmo fare delle nostre fedi. Questo era
la missione di grandi figure storiche come Mahatma Gandhi,
Martin Luther King Jr. e Abdul Ghaffar Khan. Voglio
cogliere l’occasione per onorare l’eredità
di Abdul Ghaffar Khan, meglio noto come Badshah Khan,
che morì a Peshawar nel 1988 all’età
di novantotto anni. Badshah Khan non è più
tra la sua gente, ma le sue lunghe sofferenze al servizio
dei Pathans rimarranno una grande fonte di ispirazione.
La profonda fede di Abdul Ghaffar Khan nella verità
e nell’efficacia della non violenza veniva dalla
sua profonda esperienza di fedele musulmano. La sua
vita testimonia concretamente che essere un non violento
e essere un musulmano sono cose perfettamente compatibili.
“Il mondo d’oggi va verso una direzione
piuttosto strana”, Abdul Ghaffar Khan disse nel
1985: “Vedete che il mondo sta andando verso la
distruzione e la violenza. E la caratteristica della
violenza è di creare odio e paura tra le persone.
Io credo nella non violenza e dico che la pace o la
tranquillità non scenderanno tra le genti del
mondo finché non verrà praticata la non
violenza, perché la non violenza è amore
e infonde coraggio nella gente”. L’eredità
di
Abdul Ghaffar Khan potrebbe essere d’aiuto a tutti
noi oggi, nel tentativo di vincere gli scontri di intolleranza
tra l’Islam e l’Occidente, e tra i musulmani
e gli Indù nel subcontinente. La sua vita, tutta
spesa a costruire ponti, è un’affermazione
chiara e trasparente del fatto che dialogo, pace e coesistenza
sono possibili al di là dello scontro di civiltà.
Traduzione di Daniele Castellani Perelli
Questo testo è stato letto dall’autore
in occasione della conferenza Al di là
di Orientalismo e Occidentalismo, organizzata
da Reset-Dialogues on Civilizations e tenutasi al Cairo,
in Egitto, dal 4 al 6 marzo 2006.
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