Questo
articolo è la seconda parte di una ricognizione
sui partiti della sinistra dell’America Latina.
La prima parte è apparsa sul numero 295 di Caffè
Europa con il titolo
La sinistra europea e il rinnovamento d’oltre
oceano
Il 2006 vedrà numerosi appuntamenti elettorali
in America Latina, fgra cui segnaliamo le elezioni presidenziali
e legislative di Columbia, Perù ed Ecuador, tra
i grandi paesi, e quelle di Haiti, Repubblica Dominicana,
El Salvador e Nicaragua, tra le più piccole nazioni
dell’America Centrale e del Caribe.
In ordine cronologico si deve, peraltro, cominciare
dall’elezione, sospesa nei suoi esiti, del Presidente
del Costarica.
Costarica, bipartitismo perfetto
La proclamazione ha dovuto attendere un mese dalla
data delle elezioni. Soltanto alle 14.55 del 6 marzo
2006 il Tribunal Supremo delle Elezioni ha proclamato
eletto il Presidente Oscar Arias e i due Vice-Presidenti
del Partito di Liberazione Nazionale (affiliato all’Internazionale
Socialista) per avere conseguito 664.551 voti su un
totale di 1.623.992 voti validi, superando di poco il
40% dei voti validi e precisamente il 40,92% contro
i 646.382 voti pari al 39,80% accreditati ad Otton Solis
di Azione Cittadina.
In Costarica il ballottaggio è previsto soltanto
se nessun candidato raggiunge il 40% di voti validi
ed in un primo momento il testa a testa con poche migliaia
di voti di differenza aveva costretto ad una verifica
di tutte le schede.
La verifica chiesta da Solis, perché non convinto
dei 3250 voti di differenza, ha comportato invece 18.169
voti di differenza ed il passaggio di Solis dal 40,29%,
che gli avrebbe assicurato l’elezione, in caso
di riconteggio a suo favore, al 39,80%, cioè
alla necessità, comunque, di un ballottaggio.
L’interesse delle elezioni costaricensi consiste
nel fatto che ambedue i candidati erano, comunque, espressione
di sinistra o centro-sinistra, divisi sull’Accordo
di Libero Scambio dell’America Centrale, opposto
vivacemente da Solis, che inoltre vuol fare saltare
il bipartitismo “perfetto” costaricense.
Perfetto in quanto i socialdemocratici e i socialcristiani
si alternano alla Presidenza per esplicito accordo.
Haiti, un ballottaggio pieno di dubbi
In febbraio, il giorno 7, si è tenuto il primo
turno delle legislative e delle presidenziali di Haiti.
René Préval, già presidente nel
periodo 1990-1995, della sinistra, erede di Aristide,
il controverso Presidente haitiano è eletto al
primo turno con il 51,5% dei voti. Le contemporanee
legislative hanno permesso di assegnare soltanto un
seggio su 99 alla Camera e nessuno al Senato.
Il 21 aprile, al ballottaggio per confermare o meno
anche in Parlamento la maggioranza di sinistra, il conteggio
dei voti si è rivelato complesso a causa della
elevatissima frammentazione politica, tanto che la Commissione
Elettorale provvisoria non pubblicherà i risultati
prima del 7 maggio. Alla data di chiusura di questo
articolo erano noti risultati provvisori soltanto per
il Senato in 9 dipartimenti su 10. Il partito Lepswa
(la speranza in creolo) del Presidente Préval
non avrà la maggioranza in nessuna delle due
camere, tuttavia l’affermazione della sinistra
appare netta per il successo di Fusion e di OPL, collegate
all’Internazionale socialista e del partito Fanmi
(la famiglia in creolo) Lavalas dell’ex Presidente
Aristide, ma è troppo presto per prevedere un’intesa
pluripartitica in un paese dominato dalla logica delle
fazioni (alle presidenziali si erano presentati candidati
in numero superiore a qualche decina).
L’ondata riformista progressista ha, comunque,
conosciuto una battuta di arresto nel poco sviluppato
Salvador ($ 4.800 Pil pro-capite con il 36.1% della
popolazione sotto la soglia di povertà). La destra
progredisce sia alle elezioni legislative, che municipali.
La maggioranza nella capitale San Salvador è
rimasta, per una incollatura, della sinistra.
In aprile l’avvenimento più importante
è stato il primo turno dell’elezione presidenziale
peruviana, accompagnato dalle legislative.
Perù, il ritratto delle contraddizioni
Il Perù riassume tutta la problematica del rinnovamento
latino-americano, nel senso di riduzione dell’influenza
della destra e dei conservatori, ma anche delle sue
contraddizioni, ondeggiando tra un riformismo, più
o meno radicale, ed un populismo nazional-rivoluzionario,
che rischia di essere inghiottito dalla demagogia.
Rovesciando tutti i pronostici che davano certo il ballottaggio
tra Ollanta Humala e la candidata del centro-destra
Lourdes Flores, il ballottaggio il 18 maggio è,
invece, tra Humala e Alan Garcia, già presidente
del Perù tra il 1985 e il 1990, leader dello
storico partito della sinistra indigenista l’APRA,
fondato nel 1924 da Haya de la Torre, come movimento
internazionalista e nel 1930 come partito politico peruviano.
L’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana)
è una costante del panorama politico peruviano,
molto instabile, basti pensare alle esperienze fatte
con il “socialismo militare” di Velasco
Alvarado e le delusioni sofferte con il mancato rinnovamento
di Alberto Fujimori, el chino (in realtà giapponese),
e la delusione di Alejandro Toledano, che pure prima
di Morales avrebbe potuto incarnare il riscatto degli
indigeni. Toledano è uno dei pochi leader sud
americani, insieme ad Uribe della Columbia, a favore
dell’ALCA, il trattato di libero scambio, che
andrà a firmare malgrado i risultati del primo
turno.
Ollanta Humala è in testa con circa il 30,7%
dei voti ma Garcia la tallona con il 24,3%. Decisiva
al ballottaggio sarà la destra, se cioè
convergerà su Humala o su Garcia.
Destra peruviana tra Scilla e Cariddi
Per la destra è scegliere tra Scilla e Cariddi,
tra la padella e la brace.
L’APRA è sempre stata la bestia nera della
destra e dei comunisti, ma le proposte di nazionalizzazione
di Humala possono rendere perplessi i milioni di peruviani,
che hanno scommesso sulle privatizzazioni e le liberalizzazioni
ed hanno beneficiato della crescita economica degli
ultimi due anni (PIL +6,7% con inflazione al 1% annuo).
Alan Garcia e Lourdes Flores erano già candidati
contro Toledano nelle elezioni del 8 aprile-3 giugno
2001, con le stesse percentuali ad un dipresso (rispettivamente
25,8% e 24,3%) di quelle scorse (24,3% e 23,6%): in
quella occasione l’elettorato della Flores si
divise tra Toledano e Garcia.
Il miglior risultato di Garcia rispetto ai sondaggi
ed alle prime proiezioni, basate sul voto cittadino,
è dovuto al fatto che l’APRA è un
partito strutturato, con sezioni disseminate in tutto
il Paese. Con lo spoglio dei voti della selva e della
serra, la foresta e la montagna, Garcia è arrivato
secondo con un certo, per quanto esiguo, margine.
L’APRA è un partito che nelle elezioni
legislative ha conseguito un rispettabile 19,7% ed in
quelle del 2006 il 20,1%. Tanto per un confronto, una
percentuale superiore a quella dei DS al Senato nelle
recenti elezioni politiche italiane.
Fujimori dalla prigione cilena, in attesa di estradizione,
ha cercato di intervenire nelle elezioni attraverso
una sua candidata Marta Chavez (Alianza por el Futuro),
che non è andata oltre il 6%.
Il colonnello che piace ai poveri
Ollanta Humala è la novità delle elezioni:
colonnello a riposo, malgrado abbia appena 44 anni,
è il beniamino dei poveri delle bidonville (ranchitos).
Nasce da una famiglia molto politicizzata a partire
dal padre Isaac, uno dei teorici dell’etnocacerismo,
dal nome del generale Caceres, una sorta di ideologia
nazional-razzista basata sulla superiorità della
razza andina, erede degli Inca. Come militare si era
distinto nella repressione della guerriglia e nella
rivolta dell’ottobre 2000 contro i brogli di Fujimori
nelle elezioni presidenziali di quell’anno. Per
autodefinizione non è né di destra, né
di sinistra, perché lui “viene dal basso”.
In base a criteri europei sarebbe difficile collocarlo
a sinistra, ma in America Latina basta essere per la
nazionalizzazione delle risorse naturali, contro l’ALCA,
per l’intervento statale in economia e smarcarsi
dagli Stati Uniti, se non proprio confrontarsi con loro,
per diventare un campione della sinistra.
Con 48 milioni di peruviani sotto la soglia di povertà
è facile ottenere consenso promettendo una politica
attiva ed una sovvenzione di stato per mantenere prezzi
politici dei beni di prima necessità.
Ollanta è un militare come Chavez e un indigenista,
come Evo Morales e perciò ha captato subito le
simpatie della sinistra, una sinistra latino-americana
per la quale essere antigringos è la cartina
di tornasole ed una sinistra europea, per la quale l’esotismo
fa aggio sul rigore ideologico.
Imparando da Allende
Alan Rouquié, già analista dei regimi
militari latino-americani, scrive in America Latina:
introduzione all’Occidente estremo, che la
scelta di governare da posizioni di centro-sinistra
è «una lezione dell’esperienza di
Salvador Allende, in Cile, dove una sinistra minoritaria,
che ha voluto passare in forza, è stata rovesciata
dal Colpo di Stato del 1973» (Le Monde, 14 aprile
2006, pag. 20).
La scelta di centro-sinistra è quella cilena,
uruguaiana e brasiliana, ma si può dire lo stesso
di Chavez?
Per Rouquié ci sono punti in comune tra la democrazia
plebiscitaria bolivarista ed il peronismo di Kirchner,
ma sarebbe sbagliato usare il termine populismo in senso
peggiorativo.
In quei paesi, ma anche in Bolivia e forse in Perù,
una maggioranza popolare si crea intorno ad un carisma
personale del capo. Si sono novità rispetto al
caudillismo tradizionale, spesso basato sulla forza
più che sul consenso e sulla rottura delle istituzioni
democratiche.
Tuttavia siamo sempre nell’ambito di ideologie
confuse dove destra e sinistra si incontrano, condite
da demagogia e richiamo a valori del passato, sia pure
glorioso, con una forte componente nazionalista, che
ha bisogno di un nemico esterno, che necessariamente
non si limita agli Usa.
Proprio le campagne elettorali di Morales in Bolivia
e di Humala in Perù hanno riportato in luce il
contenzioso della guerra del Pacifico (1879-1884), vinta
al secolo dal Cile contro le forze coalizzate di Bolivia
e Perù, privando la prima dello sbocco al mare
e della ricca regione mineraria di Antofagasta ed il
secondo di due province meridionali della regione di
Taraparacá.
C’è da preoccuparsi e da dar ragione al
lustrascarpe di Valparaiso, personaggio del romanzo
di Roberto Ampuero, per cui dietro ogni mistero c’erano
agenti peruviani o boliviani, che tramavano per derubare
il Cile della sua vittoria.
Ortega il sandinista ci riprova
Tra Columbia e Venezuela c’è un altro
contenzioso territoriale aperto, che può servire
da pretesto per mascherare un intervento americano.
Il 3 dicembre ci sono nuovamente elezioni presidenziali
in Venezuela, che seguono di poco quelle brasiliane
del 1 ottobre, quelle ecuadoriane del 15 dello stesso
mese ed infine quelle del 5 novembre del Nicaragua,
con l’ex presidente sandinista Daniel Ortega che
ritenta di tornare al potere, con il Fronte Sandinista
di Liberazione Nazionale.
Per gli Usa si profila una serie di sconfitte e possono
sperare soltanto nella rielezione di Alvaro Uribe in
Columbia, che ha già vinto le legislative lo
scorso 12 marzo, sia pure con un tasso di astensione
vicino al 60%.
Le speranze suscitate dalla prima elezione di Uribe
sono via via scemate di fronte ad una realtà
del paese dove domina la violenza e che ha il triste
privilegio di ospitare gli ultimi fuochi guerriglieri
di America Latina, alimentati maggioritariamente dalle
Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e in minore
misura dall’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale).
La minaccia dei gruppi armati
A differenza dell’Irlanda e della Spagna, dove
un dialogo con Ira e Eta è stato impostato, si
conta solo sulla vittoria militare. La Columbia è
un paese dove una candidata alla Presidenza, Ingrid
Betancourt, è tuttora prigioniera delle Farc,
che con quel sequestro hanno eliminato dalla scena politica
una delle poche personalità democratiche e fuori
dal gioco della corruzione.
Tra i sostenitori di Uribe si contano le formazioni
paramilitari dell’Auc (Autodifese Unite di Columbia),
in gara con le Farc per i sequestri.
Nel lontano 1984 con la Presidenza Betancourt si erano
conclusi gli accordi di La Uribe, che prevedevano il
cessato il fuoco ed un inserimento politico delle Farc
attraverso un partito, l’Unione Patriottica. In
un certo senso sul modello irlandese e basco di un braccio
politico legale, che esplorasse la possibilità
di una pacificazione.
I paramilitari hanno posto fine all’esperienza
facendo più di tremila morti tra i quadri ed
i militanti dell’Unione Patriottica (Le Monde
Diplomatique, aprile 2004, M. Lemaine, pag. 12).
Da allora lo scenario che si designa è soltanto
la soluzione militare.
La guerriglia è in posizione di difesa e riduzione
dal danno, ma non è più un’opzione
politica vincente in nessun paese in America Latina,
neppure in Columbia, dove i poveri sono sempre più
miserabili, mentre prosperano l’oligarchia ed
i narco-trafficanti.
Dopo Cuba, soltanto in Nicaragua formazioni di lotta
armata hanno vinto in America Latina, ma in Nicaragua
grazie ad un sostegno internazionale importante, alla
delegittimazione dell’Amministrazione Bush per
lo scandalo Iran-Contras e la scelta sandinista di accettare
la via democratica per la conquista del potere e di
avvicinarsi al socialismo internazionale ed europeo.
Il Fronte Sandinista è, infatti, membro di pieno
diritto dell’Internazionale Socialista.
Paesi in cerca di stabilità.
L’Ecuador è il paese politicamente più
instabile: nove presidenti della Repubblica in nove
anni. Candidati che suscitano entusiasmo, come l’ultimo
presidente, Gutierrez Barbua, visti come salvatori da
masse di elettori che dopo poco li cacciano a furor
di popolo.
Nella Repubblica Dominicana il confronto è aperto
nel centro-sinistra con le elezioni legislative. Il
Partito di Liberazione Dominicana del Presidente Leonel
Fernández spera di porre fine al predominio del
partito rivale, il Partito Rivoluzionario Dominicano,
vincitore delle legislative del 2002. Nel 2004 Leonel
Fernández vinse con il 57,1% contro il 33,6%
di Mejiá Dominguez del Prd. Nel 1996 e nel 2000
lo scontro con alterni risultati contrappose sempre
questi due partiti, che nascono dallo stesso filone:
il Pld è una scissione del Prd, unico partito,
quest’ultimo affiliato all’Internazionale
Socialista. Per contrastare il progetto del Pld, il
Partito Riformista SocialCristiano (l’erede politico
del tre volte presidente conservatore Balaguer), il
Partito Rivoluzionario Dominicano ed il Partito Verde
di Unità Democratica presenteranno candidature
uniche nelle 27 province e nel distretto federale.
Se i processi elettorali si concludessero, a parte
la Columbia ed il Salvador, con una vittoria delle sinistre
(il plurale è d’obbligo), queste governerebbero
l’80% degli abitanti del sub-continente: un fatto
senza precedenti.
Nel 2005, per la prima volta nella storia dell’Organizzazione
degli Stati Americani, agli Usa non è riuscito
di imporre un loro candidato alla Segreteria Generale.
Così è stato eletto Josè Miguel
Insulza, un socialista cileno.
La crescita economica appare più durevole: 5,9%
nel 2004, 4,0% nel 2005 e 4% previsti per quest’anno.
Crescita e disuguaglianze si accompagnano a questo è
il dramma dell’America Latina e della sua sinistra.
Le strade della crescita economica
Due opzioni di fondo sono aperte, quelle brasiliane
di Lula (che è anche quella del Cile e dell’Uruguay)
improntata all’equilibrio di bilancio e quella
venezuelana di Chavez nazional-populista, cui si è
allineato Evo Morales con il decreto di nazionalizzazione
delle risorse energetiche dei primi di maggio del 2006.
Nel primo caso la crescita è collegata all’arrivo
degli investimenti stranieri e ad una competizione virtuosa
in un mercato globale. Nel secondo si distribuisce subito
la ricchezza, approfittando della congiuntura favorevole
di prezzi del petrolio e delle materie prime.
Nel primo caso si punta all’integrazione latino-americana
nel Mercosur, piuttosto che opporsi soltanto all’Alca,
nel secondo si preconizzano nazionalizzazioni e chiusura
dei mercati. Quest’ultima scelta apre contraddizioni
interlatinoamericane, come nel caso boliviano. Argentina
e Brasile sono praticamente gli unici acquirenti del
gas boliviano e la brasiliana Petrobras ha infatti investito
1,5 miliardi di dollari in Bolivia e pesa per il 15%
del suo Pil. .Importanti investimenti sono stati realizzati,
anche dalla spagnola Repsol Ypf, che ha chiesto un intervento
politico diplomatico del governo del socialista Zapatero.
Per evitare uno scontro che indebolirebbe il fronte
progressista si sono incontrati nella città di
Puerto Iguazù, in Argentina , Kirchner,Lula,
Morales e Chavez.
Uno sguardo europeo
L’interesse dell’Europa e delle sue forze
progressiste è che vinca la prima sinistra, anche
per costituire un asse antiegemonico nelle istituzioni
internazionali dall’Onu all’Omc, passando
per il Fmi. Questa è una prospettiva interessante,
ma ha bisogno di scelte politiche più chiare
e di rappresentare per l’America Latina, un’alternativa
alla dominazione nord-americana.
Discorsi da fare ragionando in termini economici e
politici, cosa più difficile e meno attrattiva
che organizzare manifestazioni chiassose e colorate
con bandiere e banderuole inneggianti agli zapatisti
ed ai bolivariani, ai cocaleros ed alla teologia della
liberazione.
Come si è visto, l’Internazionale Socialista,
importante sia in Europa che in America Latina, è
teoricamente l’unica forza politica in grado di
capitalizzare il rinnovamento riformista latino-americano
per una nuova politica euro-latinoamericana. Molto teoricamente
per una serie di ragioni. La presenza dell’Internazionale
Socialista è estesa, ma è assente in Paesi
chiave come il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela
(in quest’ultimo paese dopo la crisi di Azione
Democratica di Carlos Andres Perez).
Tuttavia, la ragione principale è un’altra,
cioè che l’America Latina (che, detto per
inciso, per rispetto ai suoi popoli dovremmo cominciare
a chiamare America indiolatina) non appare essere una
delle preoccupazioni del Pse e del Gruppo Socialista
del Parlamento Europeo, cioè delle uniche organizzazioni
del movimento socialista, che dispongono, direttamente
o indirettamente attraverso i grandi partiti europei
membri, dei mezzi per intervenire.
Aprire il fronte latino-americano tuttavia è
argomento di frizione con gli Stati Uniti e dopo la
guerra in Iraq si è molto cauti nel deteriorare
le relazioni euro-atlantiche.
Per ragioni storiche la Spagna potrebbe essere la capofila,
ma il Psoe non potrebbe contare su un altro partito
che il Psf, neppure sui Ds, l’altro partito di
una nazione fortemente presente con la propria dipendenza
nell’America indiolatina.
Questo partito sarà giocoforza incentrato sulle
questioni interne, a causa della vittoria fragile dell’Unione,
ed anche se non vi fosse questo fattore, la progettata
unificazione con la Margherita ne sarebbe di ostacolo.
I partiti latino-americani già affiliati all’Internazionale
Democratico Cristiana sono spesso i competitori nazionali
di quelli dell’Internazionale Socialista e la
Margherita è per un netto miglioramento delle
relazioni euro-atlantiche.
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