300 - 02.06.06


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Riformismi dell’Estremo Occidente

Felice Besostri



Questo articolo è la seconda parte di una ricognizione sui partiti della sinistra dell’America Latina. La prima parte è apparsa sul numero 295 di Caffè Europa con il titolo La sinistra europea e il rinnovamento d’oltre oceano

Il 2006 vedrà numerosi appuntamenti elettorali in America Latina, fgra cui segnaliamo le elezioni presidenziali e legislative di Columbia, Perù ed Ecuador, tra i grandi paesi, e quelle di Haiti, Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua, tra le più piccole nazioni dell’America Centrale e del Caribe.
In ordine cronologico si deve, peraltro, cominciare dall’elezione, sospesa nei suoi esiti, del Presidente del Costarica.


Costarica, bipartitismo perfetto

La proclamazione ha dovuto attendere un mese dalla data delle elezioni. Soltanto alle 14.55 del 6 marzo 2006 il Tribunal Supremo delle Elezioni ha proclamato eletto il Presidente Oscar Arias e i due Vice-Presidenti del Partito di Liberazione Nazionale (affiliato all’Internazionale Socialista) per avere conseguito 664.551 voti su un totale di 1.623.992 voti validi, superando di poco il 40% dei voti validi e precisamente il 40,92% contro i 646.382 voti pari al 39,80% accreditati ad Otton Solis di Azione Cittadina.
In Costarica il ballottaggio è previsto soltanto se nessun candidato raggiunge il 40% di voti validi ed in un primo momento il testa a testa con poche migliaia di voti di differenza aveva costretto ad una verifica di tutte le schede.
La verifica chiesta da Solis, perché non convinto dei 3250 voti di differenza, ha comportato invece 18.169 voti di differenza ed il passaggio di Solis dal 40,29%, che gli avrebbe assicurato l’elezione, in caso di riconteggio a suo favore, al 39,80%, cioè alla necessità, comunque, di un ballottaggio.
L’interesse delle elezioni costaricensi consiste nel fatto che ambedue i candidati erano, comunque, espressione di sinistra o centro-sinistra, divisi sull’Accordo di Libero Scambio dell’America Centrale, opposto vivacemente da Solis, che inoltre vuol fare saltare il bipartitismo “perfetto” costaricense. Perfetto in quanto i socialdemocratici e i socialcristiani si alternano alla Presidenza per esplicito accordo.


Haiti, un ballottaggio pieno di dubbi

In febbraio, il giorno 7, si è tenuto il primo turno delle legislative e delle presidenziali di Haiti. René Préval, già presidente nel periodo 1990-1995, della sinistra, erede di Aristide, il controverso Presidente haitiano è eletto al primo turno con il 51,5% dei voti. Le contemporanee legislative hanno permesso di assegnare soltanto un seggio su 99 alla Camera e nessuno al Senato.

Il 21 aprile, al ballottaggio per confermare o meno anche in Parlamento la maggioranza di sinistra, il conteggio dei voti si è rivelato complesso a causa della elevatissima frammentazione politica, tanto che la Commissione Elettorale provvisoria non pubblicherà i risultati prima del 7 maggio. Alla data di chiusura di questo articolo erano noti risultati provvisori soltanto per il Senato in 9 dipartimenti su 10. Il partito Lepswa (la speranza in creolo) del Presidente Préval non avrà la maggioranza in nessuna delle due camere, tuttavia l’affermazione della sinistra appare netta per il successo di Fusion e di OPL, collegate all’Internazionale socialista e del partito Fanmi (la famiglia in creolo) Lavalas dell’ex Presidente Aristide, ma è troppo presto per prevedere un’intesa pluripartitica in un paese dominato dalla logica delle fazioni (alle presidenziali si erano presentati candidati in numero superiore a qualche decina).


L’ondata riformista progressista ha, comunque, conosciuto una battuta di arresto nel poco sviluppato Salvador ($ 4.800 Pil pro-capite con il 36.1% della popolazione sotto la soglia di povertà). La destra progredisce sia alle elezioni legislative, che municipali. La maggioranza nella capitale San Salvador è rimasta, per una incollatura, della sinistra.
In aprile l’avvenimento più importante è stato il primo turno dell’elezione presidenziale peruviana, accompagnato dalle legislative.

Perù, il ritratto delle contraddizioni

Il Perù riassume tutta la problematica del rinnovamento latino-americano, nel senso di riduzione dell’influenza della destra e dei conservatori, ma anche delle sue contraddizioni, ondeggiando tra un riformismo, più o meno radicale, ed un populismo nazional-rivoluzionario, che rischia di essere inghiottito dalla demagogia.
Rovesciando tutti i pronostici che davano certo il ballottaggio tra Ollanta Humala e la candidata del centro-destra Lourdes Flores, il ballottaggio il 18 maggio è, invece, tra Humala e Alan Garcia, già presidente del Perù tra il 1985 e il 1990, leader dello storico partito della sinistra indigenista l’APRA, fondato nel 1924 da Haya de la Torre, come movimento internazionalista e nel 1930 come partito politico peruviano.

L’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) è una costante del panorama politico peruviano, molto instabile, basti pensare alle esperienze fatte con il “socialismo militare” di Velasco Alvarado e le delusioni sofferte con il mancato rinnovamento di Alberto Fujimori, el chino (in realtà giapponese), e la delusione di Alejandro Toledano, che pure prima di Morales avrebbe potuto incarnare il riscatto degli indigeni. Toledano è uno dei pochi leader sud americani, insieme ad Uribe della Columbia, a favore dell’ALCA, il trattato di libero scambio, che andrà a firmare malgrado i risultati del primo turno.
Ollanta Humala è in testa con circa il 30,7% dei voti ma Garcia la tallona con il 24,3%. Decisiva al ballottaggio sarà la destra, se cioè convergerà su Humala o su Garcia.

Destra peruviana tra Scilla e Cariddi

Per la destra è scegliere tra Scilla e Cariddi, tra la padella e la brace.
L’APRA è sempre stata la bestia nera della destra e dei comunisti, ma le proposte di nazionalizzazione di Humala possono rendere perplessi i milioni di peruviani, che hanno scommesso sulle privatizzazioni e le liberalizzazioni ed hanno beneficiato della crescita economica degli ultimi due anni (PIL +6,7% con inflazione al 1% annuo).
Alan Garcia e Lourdes Flores erano già candidati contro Toledano nelle elezioni del 8 aprile-3 giugno 2001, con le stesse percentuali ad un dipresso (rispettivamente 25,8% e 24,3%) di quelle scorse (24,3% e 23,6%): in quella occasione l’elettorato della Flores si divise tra Toledano e Garcia.

Il miglior risultato di Garcia rispetto ai sondaggi ed alle prime proiezioni, basate sul voto cittadino, è dovuto al fatto che l’APRA è un partito strutturato, con sezioni disseminate in tutto il Paese. Con lo spoglio dei voti della selva e della serra, la foresta e la montagna, Garcia è arrivato secondo con un certo, per quanto esiguo, margine.
L’APRA è un partito che nelle elezioni legislative ha conseguito un rispettabile 19,7% ed in quelle del 2006 il 20,1%. Tanto per un confronto, una percentuale superiore a quella dei DS al Senato nelle recenti elezioni politiche italiane.
Fujimori dalla prigione cilena, in attesa di estradizione, ha cercato di intervenire nelle elezioni attraverso una sua candidata Marta Chavez (Alianza por el Futuro), che non è andata oltre il 6%.

Il colonnello che piace ai poveri

Ollanta Humala è la novità delle elezioni: colonnello a riposo, malgrado abbia appena 44 anni, è il beniamino dei poveri delle bidonville (ranchitos). Nasce da una famiglia molto politicizzata a partire dal padre Isaac, uno dei teorici dell’etnocacerismo, dal nome del generale Caceres, una sorta di ideologia nazional-razzista basata sulla superiorità della razza andina, erede degli Inca. Come militare si era distinto nella repressione della guerriglia e nella rivolta dell’ottobre 2000 contro i brogli di Fujimori nelle elezioni presidenziali di quell’anno. Per autodefinizione non è né di destra, né di sinistra, perché lui “viene dal basso”.
In base a criteri europei sarebbe difficile collocarlo a sinistra, ma in America Latina basta essere per la nazionalizzazione delle risorse naturali, contro l’ALCA, per l’intervento statale in economia e smarcarsi dagli Stati Uniti, se non proprio confrontarsi con loro, per diventare un campione della sinistra.

Con 48 milioni di peruviani sotto la soglia di povertà è facile ottenere consenso promettendo una politica attiva ed una sovvenzione di stato per mantenere prezzi politici dei beni di prima necessità.
Ollanta è un militare come Chavez e un indigenista, come Evo Morales e perciò ha captato subito le simpatie della sinistra, una sinistra latino-americana per la quale essere antigringos è la cartina di tornasole ed una sinistra europea, per la quale l’esotismo fa aggio sul rigore ideologico.

Imparando da Allende

Alan Rouquié, già analista dei regimi militari latino-americani, scrive in America Latina: introduzione all’Occidente estremo, che la scelta di governare da posizioni di centro-sinistra è «una lezione dell’esperienza di Salvador Allende, in Cile, dove una sinistra minoritaria, che ha voluto passare in forza, è stata rovesciata dal Colpo di Stato del 1973» (Le Monde, 14 aprile 2006, pag. 20).
La scelta di centro-sinistra è quella cilena, uruguaiana e brasiliana, ma si può dire lo stesso di Chavez?
Per Rouquié ci sono punti in comune tra la democrazia plebiscitaria bolivarista ed il peronismo di Kirchner, ma sarebbe sbagliato usare il termine populismo in senso peggiorativo.

In quei paesi, ma anche in Bolivia e forse in Perù, una maggioranza popolare si crea intorno ad un carisma personale del capo. Si sono novità rispetto al caudillismo tradizionale, spesso basato sulla forza più che sul consenso e sulla rottura delle istituzioni democratiche.
Tuttavia siamo sempre nell’ambito di ideologie confuse dove destra e sinistra si incontrano, condite da demagogia e richiamo a valori del passato, sia pure glorioso, con una forte componente nazionalista, che ha bisogno di un nemico esterno, che necessariamente non si limita agli Usa.

Proprio le campagne elettorali di Morales in Bolivia e di Humala in Perù hanno riportato in luce il contenzioso della guerra del Pacifico (1879-1884), vinta al secolo dal Cile contro le forze coalizzate di Bolivia e Perù, privando la prima dello sbocco al mare e della ricca regione mineraria di Antofagasta ed il secondo di due province meridionali della regione di Taraparacá.
C’è da preoccuparsi e da dar ragione al lustrascarpe di Valparaiso, personaggio del romanzo di Roberto Ampuero, per cui dietro ogni mistero c’erano agenti peruviani o boliviani, che tramavano per derubare il Cile della sua vittoria.

Ortega il sandinista ci riprova

Tra Columbia e Venezuela c’è un altro contenzioso territoriale aperto, che può servire da pretesto per mascherare un intervento americano.
Il 3 dicembre ci sono nuovamente elezioni presidenziali in Venezuela, che seguono di poco quelle brasiliane del 1 ottobre, quelle ecuadoriane del 15 dello stesso mese ed infine quelle del 5 novembre del Nicaragua, con l’ex presidente sandinista Daniel Ortega che ritenta di tornare al potere, con il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.
Per gli Usa si profila una serie di sconfitte e possono sperare soltanto nella rielezione di Alvaro Uribe in Columbia, che ha già vinto le legislative lo scorso 12 marzo, sia pure con un tasso di astensione vicino al 60%.

Le speranze suscitate dalla prima elezione di Uribe sono via via scemate di fronte ad una realtà del paese dove domina la violenza e che ha il triste privilegio di ospitare gli ultimi fuochi guerriglieri di America Latina, alimentati maggioritariamente dalle Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e in minore misura dall’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale).

La minaccia dei gruppi armati

A differenza dell’Irlanda e della Spagna, dove un dialogo con Ira e Eta è stato impostato, si conta solo sulla vittoria militare. La Columbia è un paese dove una candidata alla Presidenza, Ingrid Betancourt, è tuttora prigioniera delle Farc, che con quel sequestro hanno eliminato dalla scena politica una delle poche personalità democratiche e fuori dal gioco della corruzione.

Tra i sostenitori di Uribe si contano le formazioni paramilitari dell’Auc (Autodifese Unite di Columbia), in gara con le Farc per i sequestri.
Nel lontano 1984 con la Presidenza Betancourt si erano conclusi gli accordi di La Uribe, che prevedevano il cessato il fuoco ed un inserimento politico delle Farc attraverso un partito, l’Unione Patriottica. In un certo senso sul modello irlandese e basco di un braccio politico legale, che esplorasse la possibilità di una pacificazione.

I paramilitari hanno posto fine all’esperienza facendo più di tremila morti tra i quadri ed i militanti dell’Unione Patriottica (Le Monde Diplomatique, aprile 2004, M. Lemaine, pag. 12).
Da allora lo scenario che si designa è soltanto la soluzione militare.
La guerriglia è in posizione di difesa e riduzione dal danno, ma non è più un’opzione politica vincente in nessun paese in America Latina, neppure in Columbia, dove i poveri sono sempre più miserabili, mentre prosperano l’oligarchia ed i narco-trafficanti.

Dopo Cuba, soltanto in Nicaragua formazioni di lotta armata hanno vinto in America Latina, ma in Nicaragua grazie ad un sostegno internazionale importante, alla delegittimazione dell’Amministrazione Bush per lo scandalo Iran-Contras e la scelta sandinista di accettare la via democratica per la conquista del potere e di avvicinarsi al socialismo internazionale ed europeo. Il Fronte Sandinista è, infatti, membro di pieno diritto dell’Internazionale Socialista.

Paesi in cerca di stabilità.

L’Ecuador è il paese politicamente più instabile: nove presidenti della Repubblica in nove anni. Candidati che suscitano entusiasmo, come l’ultimo presidente, Gutierrez Barbua, visti come salvatori da masse di elettori che dopo poco li cacciano a furor di popolo.
Nella Repubblica Dominicana il confronto è aperto nel centro-sinistra con le elezioni legislative. Il Partito di Liberazione Dominicana del Presidente Leonel Fernández spera di porre fine al predominio del partito rivale, il Partito Rivoluzionario Dominicano, vincitore delle legislative del 2002. Nel 2004 Leonel Fernández vinse con il 57,1% contro il 33,6% di Mejiá Dominguez del Prd. Nel 1996 e nel 2000 lo scontro con alterni risultati contrappose sempre questi due partiti, che nascono dallo stesso filone: il Pld è una scissione del Prd, unico partito, quest’ultimo affiliato all’Internazionale Socialista. Per contrastare il progetto del Pld, il Partito Riformista SocialCristiano (l’erede politico del tre volte presidente conservatore Balaguer), il Partito Rivoluzionario Dominicano ed il Partito Verde di Unità Democratica presenteranno candidature uniche nelle 27 province e nel distretto federale.

Se i processi elettorali si concludessero, a parte la Columbia ed il Salvador, con una vittoria delle sinistre (il plurale è d’obbligo), queste governerebbero l’80% degli abitanti del sub-continente: un fatto senza precedenti.
Nel 2005, per la prima volta nella storia dell’Organizzazione degli Stati Americani, agli Usa non è riuscito di imporre un loro candidato alla Segreteria Generale. Così è stato eletto Josè Miguel Insulza, un socialista cileno.
La crescita economica appare più durevole: 5,9% nel 2004, 4,0% nel 2005 e 4% previsti per quest’anno. Crescita e disuguaglianze si accompagnano a questo è il dramma dell’America Latina e della sua sinistra.

Le strade della crescita economica

Due opzioni di fondo sono aperte, quelle brasiliane di Lula (che è anche quella del Cile e dell’Uruguay) improntata all’equilibrio di bilancio e quella venezuelana di Chavez nazional-populista, cui si è allineato Evo Morales con il decreto di nazionalizzazione delle risorse energetiche dei primi di maggio del 2006.

Nel primo caso la crescita è collegata all’arrivo degli investimenti stranieri e ad una competizione virtuosa in un mercato globale. Nel secondo si distribuisce subito la ricchezza, approfittando della congiuntura favorevole di prezzi del petrolio e delle materie prime.
Nel primo caso si punta all’integrazione latino-americana nel Mercosur, piuttosto che opporsi soltanto all’Alca, nel secondo si preconizzano nazionalizzazioni e chiusura dei mercati. Quest’ultima scelta apre contraddizioni interlatinoamericane, come nel caso boliviano. Argentina e Brasile sono praticamente gli unici acquirenti del gas boliviano e la brasiliana Petrobras ha infatti investito 1,5 miliardi di dollari in Bolivia e pesa per il 15% del suo Pil. .Importanti investimenti sono stati realizzati, anche dalla spagnola Repsol Ypf, che ha chiesto un intervento politico diplomatico del governo del socialista Zapatero. Per evitare uno scontro che indebolirebbe il fronte progressista si sono incontrati nella città di Puerto Iguazù, in Argentina , Kirchner,Lula, Morales e Chavez.

Uno sguardo europeo

L’interesse dell’Europa e delle sue forze progressiste è che vinca la prima sinistra, anche per costituire un asse antiegemonico nelle istituzioni internazionali dall’Onu all’Omc, passando per il Fmi. Questa è una prospettiva interessante, ma ha bisogno di scelte politiche più chiare e di rappresentare per l’America Latina, un’alternativa alla dominazione nord-americana.

Discorsi da fare ragionando in termini economici e politici, cosa più difficile e meno attrattiva che organizzare manifestazioni chiassose e colorate con bandiere e banderuole inneggianti agli zapatisti ed ai bolivariani, ai cocaleros ed alla teologia della liberazione.

Come si è visto, l’Internazionale Socialista, importante sia in Europa che in America Latina, è teoricamente l’unica forza politica in grado di capitalizzare il rinnovamento riformista latino-americano per una nuova politica euro-latinoamericana. Molto teoricamente per una serie di ragioni. La presenza dell’Internazionale Socialista è estesa, ma è assente in Paesi chiave come il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela (in quest’ultimo paese dopo la crisi di Azione Democratica di Carlos Andres Perez).

Tuttavia, la ragione principale è un’altra, cioè che l’America Latina (che, detto per inciso, per rispetto ai suoi popoli dovremmo cominciare a chiamare America indiolatina) non appare essere una delle preoccupazioni del Pse e del Gruppo Socialista del Parlamento Europeo, cioè delle uniche organizzazioni del movimento socialista, che dispongono, direttamente o indirettamente attraverso i grandi partiti europei membri, dei mezzi per intervenire.

Aprire il fronte latino-americano tuttavia è argomento di frizione con gli Stati Uniti e dopo la guerra in Iraq si è molto cauti nel deteriorare le relazioni euro-atlantiche.
Per ragioni storiche la Spagna potrebbe essere la capofila, ma il Psoe non potrebbe contare su un altro partito che il Psf, neppure sui Ds, l’altro partito di una nazione fortemente presente con la propria dipendenza nell’America indiolatina.
Questo partito sarà giocoforza incentrato sulle questioni interne, a causa della vittoria fragile dell’Unione, ed anche se non vi fosse questo fattore, la progettata unificazione con la Margherita ne sarebbe di ostacolo.
I partiti latino-americani già affiliati all’Internazionale Democratico Cristiana sono spesso i competitori nazionali di quelli dell’Internazionale Socialista e la Margherita è per un netto miglioramento delle relazioni euro-atlantiche.


 

 

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