Con due nuove
elezioni in Cile e Bolivia si conferma il processo di
democratizzazione in America Latina, con uno spostamento
a sinistra dell’asse politico. Un processo iniziato
nel 2002 con la elezione di Lula alla Presidenza del
Brasile e con la vittoria al primo turno nell’ottobre
2004 di Tabarè Vazquez (già sindaco di
Montevideo) del Fronte Amplio in Uruguay. Si spera che
l’onda progressista sia confermata nelle elezioni
del Costarica e giunga fino al Messico, impegnato nelle
presidenziali a metà anno e che non si concluda
con quelle brasiliane di ottobre. Occorre precisare
che quando, in generale, si parla di onde con determinate
caratteristiche, si tratta di una semplificazione: le
tendenze di voto hanno ragioni nazionali e non continentali
e, nel caso specifico, come argomenteremo, spesso non
ci sono tratti comuni tra i candidati ed i programmi
raggruppati sotto la comune denominazione di “progressisti”,
se non in contrapposizione ai candidati ed ai programmi
dei loro avversari.
In realtà in Cile vi è una continuità
con il Presidente Lagos, già socialista e anch’esso
espresso dalla Concertacìon, la coalizione di
centro-sinistra maggioritaria (PS ch, Ppd, Pdc). Tuttavia
la candidatura della Bachelet non era scontata: vi era
una richiesta democristiana di avvicendamento, ma la
popolarità della candidata socialista ed il risultato
inequivocabile delle primarie, tra la stessa Bachelet
e la democristiana Soledad Alvear, hanno sgomberato
la strada.
Neppure la vittoria era scontata nel caso che la destra
fosse stata in grado di presentare un solo candidato.
Infatti, al primo turno la somma dei voti di Lavin dell’Udi
e di Sebastian Piñera di Rn con il 48.6% superavano
il 45.9% della Bachelet. Al secondo turno la vittoria
è stata, invece, netta con il 53.5% della Bachelet
contro il 46.5% di Piñera, conosciuto per la
sua ricchezza ed il controllo di una televisione, come
il Berlusconi cileno.
L’estrema sinistra radicale, condotta da un Partito
Comunista ai minimi termini, non l’ha appoggiata
al primo turno e le ha sottratto ben il 5.4% dei voti.
Tuttavia nell’America Latina l’elezione
di una donna (i precedenti sono pochi da Violeta Chamorro
e Isabel Peron) rappresenta, comunque, una rottura di
forte significato, che la Bachelet ha accentuato formando
un governo con dieci donne su venti, e con ministeri
di peso quali la Difesa, la Sanità e l’Ambiente.
L’elezione della Bachelet è stata trascinante
anche per le contemporanee legislative: i partiti della
Concertacíon con il 51.8% hanno battuto quelli
dell’Alleanza con il 39% dei voti e l’estrema
sinistra con il 7.5%. Soltanto al Senato la somma dei
partiti alleati ha superato quelli della Presidenta
con il 55.7%. La Bachelet gode di una maggioranza sia
alla Camera dei Deputati (65 seggi su 120) sia al Senato
(20 seggi sui 38 elettivi).
Con la elezione di Michelle Bachelet, figlia di un
generale fatto morire da Pinochet, si chiude definitivamente
il ciclo di ristabilimento della democrazia nel marchio
della Costituzione voluta da Pinochet e tuttora vigente.
Ora è il momento di costruire un Cile non soltanto
democratico, ma anche più giusto e con una distribuzione
del reddito più equa. Lo sviluppo economico cileno
è stato fortissimo, ma il beneficio si è
concentrato nelle mani di pochi.
La Bolivia di Morales e il Brasile di Lula
Altrettanto simbolica la vittoria di Evo Morales (54%)
e del suo Mas (Movimento al Socialismo) in Bolivia,
anche qui una prima volta di un indio, benché
gli autoctoni siano la maggioranza della popolazione:
i due gruppi principali i Quechuas e gli Aymaras da
soli sono il 55%.
Tutto il potere era nelle mani della aristocrazia criolla,
i creoli di discendenza ispanica.
Morales dopo l’investitura democratica ha cercato
quella simbolico-tradizionale con la cerimonia alla
Puerta del Sol. In Bolivia i contadini erano venduti
e comprati con la terra ed usati per umilianti lavori
domestici: il risarcimento per il loro destino rubato
non è completo. Nelle contemporanee elezioni
legislative il Mas con il 53% dei voti ha conquistato
72 seggi su 130, ma resta minoritario al Senato con
12 seggi su 27, di cui 13 del diretto avversario, il
Movimento Poder Democratico y Social del suo avversario
Quiroga.
Morales sarà lo statista che riscatterà
il suo popolo o un Masaniello giunto al potere? Sarà
coerente con le sue promesse di dare dignità
al suo popolo, gli aymarà ed agli altri indigeni?
Ovvero sarà una delusione come Toledano in Perù?
I suoi punti di riferimento continentali sono chiari:
Chavez, Lula, Kirchner e l’immarcescibile Castro,
benché nessuno si proclami marxista, né
si richiami ad una rivoluzione ispirata al modello cubano.
Lo stesso programma di nazionalizzazione delle risorse
minerarie ed energetiche non è una novità,
nel 1952 furono già nazionalizzata da Paz Estensoro,
lo stesso che 33 anni dopo le privatizzò, durante
il suo terzo mandato presidenziale.
Già si intravedono le difficoltà di una
saldatura con il riformismo cileno per ragioni oggettive
e storiche. Oggettive: il riformismo cileno è
alle prese con uno sviluppo distorto, ma pur sempre
uno sviluppo, mentre la Bolivia deve uscire dalla povertà
e dal sottosviluppo. Storiche: con la guerra del Pacifico
il Cile ha privato la Bolivia dell’accesso al
mare.
La ferita non è ancora rimarginata.
Lula, icona carismatica di una sinistra ampia, che comprende
settori della sinistra radicale e alternativa e di quella
istituzionale, dalla componente politica socialdemocratica
alle organizzazioni sindacali europee, si sta fragilizzando
e la sua rielezione nell’ottobre di quest’anno
non è sicura.
Il Brasile è il più grande paese dell’America
Latina con il più grosso Pil e la popolazione
di gran lunga la più numerosa e con finanze in
ordine, tanto che può anticipare la liberazione
dai prestiti dal Fondo Monetario Internazionale per
sottrarsi ai suoi condizionamenti.
Le difficoltà di mantenere contemporaneamente
le promesse elettorali e di non scatenare le reazioni
dei mercati finanziari hanno compromesso l’immagine
di Lula, che per di più è stato investito
da fenomeni corruttivi di dirigenti del suo partito,
in particolare il settore paulista, ed anche di suoi
collaboratori.
Nel Parlamento la sua maggioranza è ristretta
e fragile per i ricatti degli alleati.
Il sistema partitico brasiliano è frammentato
ed instabile, oltre che spregiudicato nelle alleanze,
che possono essere costruite e disfatte senza grandi
problemi di coscienza.
Per esempio il Pdt (Partito Democratico dei Lavoratori),
membro dell’Internazionale Socialista, è
stretto alleato, all’opposizione di Lula, con
il Partito Popolare Socialista, uno degli eredi del
Partito Comunista Brasiliano, conosciuto per il suo
rigido filosovietismo.
Unica eccezione nella storia è stato il glorioso
Partito Socialista Brasiliano, che, però, forse
per questo è stata una formazione rispettabile,
ma minore.
L’eredità del populismo e del corporativismo
(anche il Brasile ha avuto, come l’Argentina,
un regime, quello di Getulio Vargas, ispirato dal fascismo
italiano, sia pure nella versione sociale) è
dura da superare, come la pratica del clientelismo e
della corruzione.
L’Argentina di Kirchner
L’Argentina di Kirchner sta per uscire dalla
crisi di pochi anni fa, in cui si sono bruciate le ricchezze
del paese e la stessa esistenza di una classe media
è stata compromessa. Il risanamento finanziario
è stato spettacolare, anche a spese dei nostri
risparmiatori, che avevano sottoscritto i tango
bonds, tanto che anche l’Argentina, al pari
del Brasile, si è liberata dai prestiti del Fmi.
Una strategia ben diversa dalla antica parola d’ordine
“la deuda no se paga” (i debiti
non si pagano).
Il sistema politico resta, peraltro, molto distante
da quello europeo, che ha attecchito soltanto in Cile.
A prima vista pare strano che un paese così etnicamente
europeo sia distante anni luce dagli schieramenti politici,
cui siamo abituati.
Eppure il Partito Socialista Argentino era dotato di
grandi personalità al momento della sua fondazione,
che ha preceduto quella di partiti socialisti di paesi
europei (sono sufficienti i nomi di Alfredo Palacios
e Juan B. Justo).
All’inizio si pubblicavano riviste socialiste
in francese ed in tedesco: in un certo senso il socialismo
europeo restava la loro patria ideale.
I comunisti sono sempre stati una forza ben organizzata
e con punti di forza nei sindacati, ma irrimediabilmente
sovietici e perciò stranieri.
A sinistra e a destra ha spopolato il peronismo, come
già detto una variante del fascismo corporativo.
Kirchner è peronista, come erano peronisti i
suoi predecessori Duhalde e Menem, oggi suoi avversari.
A distanza di decenni è ancora il peronismo in
tutte le sue tendenze, da quelle moderate a quelle estremiste
(negli anni della lotta armata i peronisti avevano una
loro formazione, i Montoneros), dalle progressiste
alle nazionaliste, che detta i ritmi del cambio politico
e la dialettica interna al peronismo sostituisce la
dialettica tradizionale tra destra e sinistra.
Tuttavia l’Argentina, il Cile e il Brasile, grazie
al loro sviluppo, per quanto ineguale e squilibrato,
e alla struttura produttiva, se coopereranno strettamente,
possono in America Latina svolgere il ruolo che fu della
Germania, della Francia e dell’Italia alle origini
della costruzione europea. Per questo è importante
il rafforzamento del Mercosur, anche come alternativa
all’ALCA, la zona di libero scambio delle Americhe,
ripescato dai cassetti dopo la crisi messicana del 1994.
Questo processo ha bisogno di aiuto e di solidarietà
internazionale, compiti che dovrebbero essere svolti
in primo luogo dall’Europa e dalla sinistra europea.
Segnali di interesse se ne sono visti pochi a sinistra.
La sinistra europea è sempre pronta a criticare
i leader del “terzo mondo” appena paiono
un po’ meno puri e duri di come li aveva immaginati
e desiderati.
Basta confrontare il grado di popolarità attuale
di Lula e del subcomandante zapatista Marcos nel popolo
della sinistra alternativa.
Si spende poco tempo a riflettere sulla differenza tra
cercare di risolvere i problemi di un grande paese e
quella di essere testimonianza in una ristretta parte
del territorio di uno Stato, per di più estraniandosi
dai processi politici: se la sinistra ritornerà
al potere in Messico nel luglio 2006 con Lopez Obrador
(a proposito anche lui già sindaco di una grande
metropoli come Città del Mexico), non sarà
grazie agli zapatisti.
Per fortuna c’è Chavez. Lui è chiaro
e riconoscibile e lucidamente anti Usa, circostanza
che suscita simpatie automatiche, salvo essere delusi
in epoca successiva.
Chavez è, per di più, ricco grazie al
petrolio, cioè per la stessa ragione per cui
le masse popolari europee sono sempre più povere.
Chavez non deve pensare ad una linea innovativa di politica
economica e finanziaria: più petrolio a prezzi
più alti è una formula di tutta semplicità.
Parliamo chiaro: Chavez è stato legittimato democraticamente,
è stato oggetto di oscure e violente manovre
di sovvertimento, contrarie al diritto internazionale
e a quello costituzionale. Tutto ciò su impulso
di una regia estera, facilmente identificabile negli
Stati Uniti (ricordate il Cile di Allende?). Peraltro,
molte delle manovre che hanno impedito la vendita di
mezzi militari dall’Europa al Venezuela avranno,
come il blocco di Cuba, effetti controproducenti.
Più sindacalisti, meno guerriglieri
Per una sinistra, che faccia i conti con il problema
della globalizzazione e della difesa e sviluppo della
democrazia, questo atteggiamento semplificatore di Chavez
non è più sufficiente e a rendere moderna
la sua proposta non basta che il Presidente venezuelano
annunci al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del
2005 che la sua azione si inquadri “nel socialismo
del XXI secolo” (E. Sader, Le Monde Diplomatique,
febbraio 2006).
Difendere l’indipendenza venezuelana è
un dovere internazionale, ma nel contempo una sinistra
democratica, degna di questo nome, non può tacere
di una serie di violazioni dello stato di diritto e
quando si scade nella demagogia antidemocratica, con
qualche punta di antisemitismo e con ammirazione sconfinata
per quel fascista di Giovanni Papini.
Non bastano elezioni (più o meno libere ed ordinate)
per dar vita ad una democrazia: la Palestina con la
vittoria di Hamas è l’ultimo esempio in
tal senso.
La sinistra italiana ed europea dovrebbe in poco tempo
rinunciare ad ogni attrattiva collegata al folklore
e capire che per consolidare la democrazia in America
Latina servono più partiti politici moderni e
sindacati forti, così come un sistema politico
liberato dal caudillismo e dal populismo, non importa
se nazionalista o rivoluzionario.
Servono più sindacalisti che guerriglieri, che
sopravvivono grazie al narcotraffico.
Per qualsivoglia sinistra, che abbia appreso le lezioni
della storia, si deve evitare il fascino della divisa
e della demagogia.
Per sostenere Chavez contro l’esproprio delle
risorse da parte delle multinazionali o contro le manovre
destabilizzatici degli Usa in collegamento con la destra
venezuelana, non c’è bisogno di diventare
bolivaristi scatenati.
Pare che i sud-americani, a una certa sinistra, piacciano
così roboanti e anti-gringos, ci devono far sognare
di patria o morte, di libro e fucile, di socialismo
senza aggettivi: di diventare militanti antimperialisti
per interposta persona.
Padre Girotto, fratello mitra, grazie a questi stereotipi
riuscì ad infiltrare le Brigate Rosse.
Quando metteremo almeno sullo stesso piano un sindacalista
o un difensore dei diritti umani e un guerrigliero,
faremo un passo avanti noi, sinistra europea, e aiuteremo
la sinistra latino-americana, a noi più vicina,
a fare altrettanto, cioè a liberarsi di un passato
in cui demagogia e populismo parolaio aprirono la strada
ai regimi militari dittatoriali.
La sinistra europea dovrebbe iniziare a discutere di
un approccio globale con la sinistra latino americana
per concertare azioni politiche, ma anche istituzionali
dei governi, cui partecipa, e dall’Unione Europea.
L’Internazionale Socialista attualmente ha partiti
membri al potere in Cile e in Uruguay, ma sempre come
soggetti di una coalizione più ampia. I grandi
partiti del Pse hanno una loro politica, che prescinde
dal privilegiare i partiti dell’Internazionale:
il caso Brasiliano è eclatante.
La sinistra radicale europea ha il suo ambito di relazioni
nel Forum Sociale Mondiale e nei movimenti sociali antiliberisti
e naturalmente con quelli che solleticano di più
il suo immaginario: gli zapatisti di Marcos e i bolivariani
di Chavez.
Tutto appare frammentato e casuale senza una riflessione
di fondo e soprattutto organizzata su base paritaria
tra soggetti europei e latino-americani.
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