Il testo
che segue è una risposta all’articolo di
Romano Prodi Il
tassello mancante delle radici cristiane, estratto
della prefazione al libro al libro Europa laica
e puzzle religioso, con interventi di Giuliano
Amato, Peter L. Berger, José Casanova, Bronislaw
Geremek, Nilüfer Göle, Danièle Hervieu-Léger,
Francesco Margiotta Broglio, Bhikhu Parekh, Olivier
Roy, Charles Taylor. A cura di Krzystof Michalski e
Nina zu Fürstenberg, Marsilio – i libri di
Reset, 2005.
L’estratto della prefazione è apparso su
“la Repubblica” il 30 giugno 2005.
Condividiamo molto dell’intervento di Romano
Prodi intitolato Il tassello mancante delle radici
cristiane e apparso su “La Repubblica”
del 30 giugno 2005. Non dissentiamo certo da una frase
quale: “mettere definitivamente fuori gioco i
criteri della politica di potenza di qualcuno o i risentimenti
nazionalistici di altri non consente solo […]
di mantenere la pace entro i confini dell’Unione
europea […], ma pone le premesse perché
l’Europa eserciti un ruolo di pacificazione anche
oltre i propri confini. Mentre curiamo le nostre memorie,
noi siamo in grado di comprendere il dolore e le ingiustizie
che si compiono altrove”. O da un’altra
frase come “va […] riconosciuto il dolore
dell’altro nella sua verità soggettiva,
ma in un contesto storico nuovo che possa consentirgli
di superare il dolore, cambiando cioè la prospettiva
e modificando le premesse che lo hanno causato; è
questo un processo che va condotto […] avendo
come valori guida […] la democrazia, la libertà,
il diritto, la giustizia”.
Proprio perché riconosciamo la verità
di queste affermazioni, ci sembrano tanto più
sorprendenti sia i termini aproblematici con cui Prodi
considera il ruolo storico delle chiese (in sostanza,
poi, del cristianesimo) nella costruzione dell’Europa,
sia la conclusione, altrettanto aproblematica, che il
mancato “riconoscimento esplicito, nel Preambolo
della Costituzione [europea], del ruolo storico del
cristianesimo […] sia davvero un tassello mancante”.
Innanzitutto c’è da chiedersi: “Un
tassello mancante rispetto a che cosa?”. All’idea
di Europa come sovrana nel mondo, superiore a tutti
gli altri popoli e capace di concepire i rapporti interculturali
soltanto come esclusivi o gerarchici? Come soggetto
di colonialismo e di genocidio verso gli altri, pensati
soltanto per opposizione e contrasto a se stessa? Certo
di tutto questo il cristianesimo è un tassello
mancante, in quanto anch’esso o una sua parte
benedisse la violenza armata e praticò quella
culturale e religiosa. Ma è un’altra Europa
che vorremmo contribuire a forgiare, e nuovi modi di
essere europei, impresa che non è possibile senza
una decisa e costante critica delle vecchie forme eurocentriche
di europeità.
È importante inoltre distinguere – nonostante
intrecci e interrelazioni che di fatto esistono –
tra un senso d’identità europea ereditato
in gran parte dalle circostanze storiche e che tutti
noi elaboriamo in maniera collettiva e individuale,
e un progetto europeo che vuole, comunque lo si intenda,
rappresentare una svolta rispetto a un corso tragico
della storia d’Europa stessa (e che proprio per
questo non coincide totalmente nemmeno con le istituzioni
europee esistenti). Il progetto europeo non guarda al
passato, guarda al futuro. Non trova nella storia motivi
di autocelebrazione per gli europei; trova piuttosto
motivi di dolore e di critica. Non è interessato
a definire criteri di esclusione quanto invece a elaborare
strategie di inclusione.
Nella prospettiva di “progetto europeo”,
il richiamo alle “radici giudaico-cristiane”
nel Trattato costituzionale europeo offuscherebbe i
reali conflitti storici di cui è stata fatta
l’Europa. Tacerebbe le responsabilità delle
chiese cristiane nei confronti delle sofferenze degli
ebrei, il fatto che per secoli, e sino a poco tempo
fa, l’identità cristiana si è definita
in ostile contrapposizione a quella ebraica. E proprio
nella celebrazione politically correct di un’“europeità”
“giudaico-cristiana” sarebbe sancita la
“non europeità” di un’altra
religione anch’essa presente in Europa –
l’Islam, che (per tacere dei più vasti
legami e retaggi storici) è la religione di diverse
popolazioni nei Balcani, in Europa, e di una consistente
minoranza che risiede e vive nella stessa Unione Europea,
della quale in molti casi è cittadina a tutti
gli effetti. In questo modo si postulerebbe un’arbitraria
“matrice” europea patrimonio “originario”
degli “uni” a cui gli “altri”
sono pressoché “costretti” a riconoscersi
per essere “europei”, per essere “moderni”.
Tanto più arbitraria in quanto l’esplicita
menzione dei valori cristiano-giudaici cancellerebbe
tutte quelle tradizioni filosofiche, non meno antiche,
non meno europee, che non radicano l’eticità
nel trascendente – oltre ad assegnare di fatto
una coscienza etica di serie B a tutti coloro che non
si riconoscono in nessuna chiesa o religione.
Sarebbe facile richiamare i numerosi casi ed eventi
storici in cui le chiese cristiane, lungi dall’essere
state solo il semenzaio dell’umanesimo, hanno
anch’esse attivamente contribuito a insanguinare
l’Europa e il mondo. Ci basta qui ricordare che
le chiese sono state attive parti in causa in quei conflitti
ideologici ed etnonazionali da cui proprio il progetto
europeo ha indicato una via d’uscita. Naturalmente
auspichiamo anche noi che le diverse religioni possano
dare il loro contributo “quali fattori di integrazione,
di fratellanza, quali elementi culturali che superano
il significato etnico delle patrie”. A differenza
di Prodi, non siamo però così sicure che
“le religioni storicamente presenti in Europa,
in particolare il cristianesimo” (ma anche il
cristianesimo è plurale) realmente siano “oramai
libere dal fondamentalismo” (o dall’integralismo).
Le recenti ingerenze della Chiesa cattolica in Europa
nelle scelte politiche che riguardano tutti, non solo
i cattolici, non fanno che darci ragione, mostrano un
atteggiamento di arrogante interferenza a proposito
di scelte individuali come il matrimonio, la fecondazione
assistita e l’aborto. In ogni caso, proprio per
lasciarsi il passato dietro le spalle e svolgere un
ruolo positivo nella costruzione dell’“Europa
di tutti”, le chiese, come tutti gli attori storici,
non possono esimersi dal riconoscimento sincero e dolente
delle loro responsabilità e complicità.
Proprio lo sforzo di creare un “contesto storico
nuovo” dovrebbe di per sé far recedere
da ogni pretesa di definire, essenzializzandole, l’“europeità”
e le sue presunte radici.
Tutto ciò vale ovviamente anche per l’“Europa”
in quanto tale. Il progetto europeo ha avuto le sue
formulazioni più proficue, ha conosciuto i suoi
slanci maggiori, non nell’orgoglio per i trionfi
della civiltà europea, non nella ricerca di un’“europeità”
comune da contrapporre al resto del mondo, bensì
nell’esilio e nella Resistenza antifascista, nei
campi di concentramento e di prigionia, nella rovina
e nella prostrazione, da sé causate, dell’Europa
stessa, nel dolore e nella colpa per quanto commesso
dalla propria gente, nella volontà di
impedire che quanto successo potesse ripetersi.
In un momento di crisi dell’integrazione europea
come è questo occorre interrogarsi su cosa si
vuole che sia l’“Europa”. Se essa
deve significare la gestione scorrevole ed efficiente
dell’esistente, allora è appropriato, per
sollecitare l’appoggio dei cittadini, celebrare
l’identità europea quale essi già
vivono, con i suoi confini, le sue radici, il suo patrimonio
culturale, i suoi meriti storici, in termini lineari
e aproblematici. Se invece si vuole che essa sia credibilmente
ciò che Prodi indica nel suo intervento, allora
è proprio dalla piena assunzione di responsabilità
che si possono curare le memorie, è proprio dalla
coscienza del peso della storia collettiva, presente
e passata, che si possono trovare la motivazione e la
forza per costruire una nuova comunità politica
e intraprendere un nuovo corso. Può essere in
grado di esercitare “un ruolo di pacificazione
anche oltre i propri confini” solo un’Europa
consapevole del dolore e dell’oppressione che
gli europei e i loro discendenti hanno storicamente
portato al resto del mondo.
*Francesca Lacaita
(Università di Francoforte sul Meno)
Liana Novelli Glaab
(Università di Francoforte sul Meno)
Luisa Passerini
(Università di Torino e Istituto Universitario
Europeo di Firenze)
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