Lo scritto che segue è
un estratto del saggio pubblicato in allegato alla
rivista Reset (n. 84, luglio-agosto
2004) con una introduzione di Giuliano Amato. E' lo
stesso testo che Amato ha citato durante il suo intervento
in Senato nel dibattito del 9 marzo 2005 sulla morte
di Nicola Calipari.
Rapporto Baghdad è il resoconto della partecipazione
a una sessione di studio svolta nella capitale irachena
tra il 5 e il 10 maggio '04 organizzato da Mary Kaldor
e Yahia Said del Center for Global Governance della
London School of Economics. Lo scopo delle giornate
di studio era quello di individuare le cause della
violenza religiosa in Iraq e il possibile ruolo delle
organizzazioni umanitarie nella ricostruzione del
paese.
La traduzione è di Martina Toti.
Vai alla versione integrale del Rapporto
Baghdad
Viaggio a Baghdad
Come perdere la pace: istruzioni per l’uso
Il nuovo governo ad interim guidato da Iyad
Alawi e Aheik Ghazi al-Yawat dovrà lottare
contro qualcosa di più che mancanza di energia
elettrica e salari da pagare ai funzionari statali.
Come ho potuto constatare in un recente viaggio a
Baghdad, l’Iraq ha un urgente bisogno di ricostruzione
- non solo dalle miserie della lunga dittatura di
Saddam Hussein, ma anche dalle fallimentari politiche
di un anno di occupazione da parte dell’amministrazione
della Coalizione guidata dagli Stati Uniti la quale
ha lasciato una scia di demoralizzazione, umiliazione,
e debolezza sia dal punto di vista della sicurezza
che da quello delle infrastrutture economiche.
Tristemente, nella percezione di molti iracheni, gli
Stati Uniti hanno rilevato l’orribile aura di
una dittatura simile a quella di Saddam Hussein. Ciò
significa che il sostegno dato in passato alla Cia
dal Primo Ministro Iyad Alawi sarà un problema,
così come qualunque altro legame che Alawi
e i membri del nuovo governo intrattengono con l’America.
Anche se non potrà cancellare dal suo passato
il sostegno dato alla Cia, Alawi avrà bisogno
di dimostrare la sua indipendenza. Allo stesso tempo
lui e al-Yawar – che ha già mostrato
tutta la sua abilità nel prendere posizioni
anti-americane descrivendo i fatti di Falluja come
un «genocidio» operato dalle forze militari
statunitensi - dovranno rassicurare le autorità
americane per poter continuare a ricevere il loro
sostegno economico e militare. Non sarà facile,
specialmente dal momento che bisognerà smantellare
alcune delle attuali politiche militari, amministrative
ed economiche che la Coalizione ha disposto.
Come si è arrivati in questo «pantano»?
La conflittualità attuale è solo un
fenomeno passeggero o ha radici in problemi più
profondi, che perseguiteranno il nuovo governo ad
interim ed il governo che uscirà dalle elezioni
previste per il gennaio 2005? Queste sono le domande
a cui ho cercato di rispondere durante la mia recente
visita in Iraq. Quello che ho scoperto è stato
l’emergere di un virulento anti-americanismo
alimentato in larga parte dagli errori della Coalizione
stessa. Non solo le sue linee di condotta hanno rinfocolato
le ostilità anti-americane, esse hanno anche
favorito la possibilità che il nuovo governo,
che verrà eletto in Iraq, finisca per presiedere
su uno stato mancato.
Come gli Stati Uniti sono diventati il nemico
Un segno dell’atteggiamento degli iracheni nei
confronti dell’occupazione statunitense era
evidenziato dalla singolare reazione che essi avevano
avuto davanti alle recenti fotografie dei prigionieri.
Le terribili immagini di soldati americani che maltrattavano
prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, che
hanno attirato così tanto l’attenzione
del pubblico americano, hanno suscitato a stento una
qualche reazione in Iraq. Ero a Baghdad a maggio,
poco dopo l’uscita della notizia, ed anche se
le fotografie venivano continuamente mandate da Al
Jazeera – il canale che è di fatto l’unica
fonte di notizie televisive a Baghdad – ero
sconcertato nel rilevare che quelle immagini non stupivano
la maggior parte degli iracheni. Anche se disgustati
da ciò che veniva mostrato - voci di quelle
atrocità avevano circolato a Baghdad per mesi
- molti iracheni, con i quali avevo parlato, si aspettavano
un comportamento del genere da parte di quella che
tanti di loro consideravano una brutale forza d’occupazione.
Questa assenza di stupore la dice lunga sul modo in
cui gli iracheni sono arrivati a giudicare le forze
militari statunitensi - un anno fa liberatrici, oggi
occupanti. Alcuni iracheni hanno descritto quella
statunitense come una continuazione del tipo di oppressione
di cui avevano fatto esperienza sotto la dittatura
di Saddam Hussein. Alcuni la ritenevano anche peggiore.
«Saddam ci torturava e puniva fisicamente»
mi diceva un iracheno della classe media in un inglese
piuttosto chiaro. «Ma non cercava di umiliarci».
Perché l’occupazione statunitense è
così disprezzata dagli iracheni? Lo sdegno
è quasi generale. Lontano dall’essere
limitato a un piccolo gruppo di membri insoddisfatti
del partito Ba’ath, ho sentito esprimere questa
ribollente ostilità anti-americana da religiosi
sciiti, politici sunniti, e cittadini della borghesia
di formazione laica. Si tratta di un’avversione
all’occupazione americana che sembra profondamente
personale.
In un seminario tenuto nel vecchio centro di ricerca
per gli affari internazionali di Saddam Hussein, Bavtal-Hikma
(«La Casa della Saggezza»), una docente
di scienze politiche dell’università
di Baghdad, in un inglese notevolmente articolato,
ha aperto le sue osservazioni, dopo il mio discorso
sul generale aumento della violenza religiosa, con
alcuni pungenti commenti su come l’incapacità
della forza militare statunitense nel chiudere i confini
dell’Iraq abbia reso possibile agli attivisti
islamici radicali di entrare nel paese dall’esterno.
Con un tono di voce crescente, la professoressa, astutamente
acconciata con un taglio di capelli moderno, ha iniziato
ad elencare gli altri problemi causati dalle truppe
americane, finendo con l’accusare gli Stati
Uniti di essere i responsabili della maggior parte
delle rivolte e delle violenze religiose verificatesi
nell’ultimo anno. Dopo la caduta di Saddam Hussein
– diceva - «Noi avevamo grandi aspettative»
riguardo i cambiamenti democratici ed economici che
sarebbero avvenuti, «ci aspettavamo qualcosa
di meglio». Ma adesso, affermava aspramente,
«è peggio». Gli Stati Uniti si
comportano «come i terroristi» che loro
stessi disprezzano.
L’Iraq è, ovviamente, un paese occupato.
Perciò è comprensibile che molti iracheni
non sopportino le truppe d’occupazione e siano
ansiosi di vederle lasciare il paese. Tuttavia, le
forze militari statunitensi sono state in Germania
e in Giappone per anni dopo la seconda guerra mondiale
e molti tedeschi e giapponesi hanno tollerato l’occupazione
con un cupo rancore al peggio, e con profondo apprezzamento,
al meglio. Alcuni soldati statunitensi sposarono allora
donne del posto e portarono le loro mogli a casa.
È improbabile, invece, che ci siano matrimoni
misti a Baghdad.
L’invasione statunitense dell’Iraq ha
proceduto velocemente e, per molti iracheni, l’esperienza
della guerra è stata più difficile dopo
la caduta di Saddam Hussein che prima. Per quanto
sia stato inflessibile e dittatoriale il regime di
Saddam Hussein, i nuovi problemi – l’instabilità
dell’ordine pubblico, lo sciacallaggio, i bombardamenti,
e i costanti segni della presenza militare straniera
- sono tutti aspetti della vita del dopo-Saddam. L’incursione
militare statunitense a Falluja e il bombardamento
di Najaf per stanare le milizie di Muqtada al Sadr
sono state tristi episodi di una guerra di cui molti
iracheni non avevano mai avuto esperienza in precedenza.
In questo senso è comprensibile che tanti di
loro non considerino l’entrata delle truppe
americane come il segnale della fine delle ostilità,
ma, in modo piuttosto paradossale, del loro inizio.
Adesso, gli iracheni stanno aspettando che questa
guerra finisca.
Oltretutto, molti iracheni sono ancora sotto shock
per la fine di Saddam Hussein. «Avremmo potuto
liberarci di lui da soli» si lamentava un ex
funzionario statale, spiegando che gli Stati Uniti
erano stati ingannati da quello che lui definiva il
«mito del potere di Saddam». Secondo il
suo punto di vista, Saddam Hussein, per incutere timore,
voleva che il mondo – e in particolar modo il
popolo iracheno - credesse che lui fosse in possesso
di armi di distruzione di massa. In realtà
diceva il funzionario, Saddam era piuttosto vulnerabile,
come la veloce vittoria delle truppe americane ha
evidenziato. Il funzionario era quasi confuso dal
fatto che l’esercito di Saddam Hussein fosse
crollato così facilmente. Era ancora più
confuso per il fatto che lui e il popolo iracheno
non erano stati coinvolti nella liberazione dell’Iraq.
Quest’ex funzionario, Mowfaq al-Taey, era stato
escluso non solo dalle operazioni per far cadere il
regime di Saddam ma anche dalla ricostruzione dell’Iraq
– e quest’ultima esclusione lo toccava
più profondamente della prima. Nel vecchio
regime era stato uno degli architetti di Saddam, responsabile
del progetto di molti palazzi del rais, di moschee
e di altri imponenti edifici pubblici. È ancora
orgoglioso dei suoi lavori, anche se accusa Saddam
per alcuni arabeschi architettonici aggiunti ai suoi
disegni – come i minareti a forma di lanciarazzi
che vennero aggiunti al suo progetto per l’imponente
moschea «Madre di tutte le battaglie»,
che doveva commemorare la presunta vittoria dell’Iraq
contro gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo.
Oggi al-Taey ha ancora il suo spazioso appartamento
vicino a quello che era il palazzo presidenziale,
nell’attuale zona verde – l’area
protetta, occupata dalle forze della Coalizione, che
ospita il quartier generale del Consiglio di Governo.
Dal momento che non aveva mai acconsentito ad unirsi
al partito Ba’ath, «Non possono sbattermi
fuori», diceva, sostenendo che agli americani
potrebbe fare molto piacere utilizzare i quartieri
progettati da lui per ospitare i funzionari della
Coalizione. Ogni giorno passando per i checkpoint
attraversa le solite strade di Baghdad, camminando
verso il quartier generale di un’organizzazione
irachena per i diritti umani dove lavora come volontario.
Ma il suo talento di architetto non è stato
utilizzato per la ricostruzione dell’Iraq, mentre
imprenditori stranieri sono stati impiegati allo scopo.
L’esperienza di questo architetto iracheno è
paradigmatica dei problemi creati non solo dall’occupazione
in sé, ma anche dalle linee di condotta specifiche
che sono state adottate dagli Stati Uniti nell’amministrare
la ricostruzione dell’Iraq durante quest’ultimo
anno. Alcune di queste sono il risultato di una sostanziale
ignoranza della società irachena, altre sono
dovute al pregiudizio ideologico del governo statunitense.
Si tratta, in ogni caso, di errori catastrofici che
hanno portato non solo a un senso di frustrazione
e umiliazione diffuso tra il popolo iracheno ma anche
a situazioni pericolose riguardo la sicurezza, l’amministrazione,
e l’economia che peseranno sul nuovo governo
del Paese nei mesi a venire, e forse per anni.
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