273 - 12.03.05


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Rapporto Baghdad
Mark Juergensmeyer

Lo scritto che segue è stato pubblicato in allegato alla rivista Reset (n. 84, luglio-agosto 2004), con una introduzione di Giuliano Amato. E' lo stesso testo che Amato ha citato durante il suo intervento in Senato nel dibattito del 9 marzo 2005 sulla morte di Nicola Calipari.
Rapporto Baghdad è il resoconto della partecipazione a una sessione di studio svolta nella capitale irachena tra il 5 e il 10 maggio '04 organizzato da Mary Kaldor e Yahia Said del Center for Global Governance della London School of Economics. Lo scopo delle giornate di studio era quello di individuare le cause della violenza religiosa in Iraq e il possibile ruolo delle organizzazioni umanitarie nella ricostruzione del paese.
La traduzione è di Martina Toti.

 

Viaggio a Baghdad
Come perdere la pace: istruzioni per l’uso

Il nuovo governo ad interim guidato da Iyad Alawi e Aheik Ghazi al-Yawat dovrà lottare contro qualcosa di più che mancanza di energia elettrica e salari da pagare ai funzionari statali. Come ho potuto constatare in un recente viaggio a Baghdad, l’Iraq ha un urgente bisogno di ricostruzione - non solo dalle miserie della lunga dittatura di Saddam Hussein, ma anche dalle fallimentari politiche di un anno di occupazione da parte dell’amministrazione della Coalizione guidata dagli Stati Uniti la quale ha lasciato una scia di demoralizzazione, umiliazione, e debolezza sia dal punto di vista della sicurezza che da quello delle infrastrutture economiche.
Tristemente, nella percezione di molti iracheni, gli Stati Uniti hanno rilevato l’orribile aura di una dittatura simile a quella di Saddam Hussein. Ciò significa che il sostegno dato in passato alla Cia dal Primo Ministro Iyad Alawi sarà un problema, così come qualunque altro legame che Alawi e i membri del nuovo governo intrattengono con l’America.

Anche se non potrà cancellare dal suo passato il sostegno dato alla Cia, Alawi avrà bisogno di dimostrare la sua indipendenza. Allo stesso tempo lui e al-Yawar – che ha già mostrato tutta la sua abilità nel prendere posizioni anti-americane descrivendo i fatti di Falluja come un «genocidio» operato dalle forze militari statunitensi - dovranno rassicurare le autorità americane per poter continuare a ricevere il loro sostegno economico e militare. Non sarà facile, specialmente dal momento che bisognerà smantellare alcune delle attuali politiche militari, amministrative ed economiche che la Coalizione ha disposto.

Come si è arrivati in questo «pantano»? La conflittualità attuale è solo un fenomeno passeggero o ha radici in problemi più profondi, che perseguiteranno il nuovo governo ad interim ed il governo che uscirà dalle elezioni previste per il gennaio 2005? Queste sono le domande a cui ho cercato di rispondere durante la mia recente visita in Iraq. Quello che ho scoperto è stato l’emergere di un virulento anti-americanismo alimentato in larga parte dagli errori della Coalizione stessa. Non solo le sue linee di condotta hanno rinfocolato le ostilità anti-americane, esse hanno anche favorito la possibilità che il nuovo governo, che verrà eletto in Iraq, finisca per presiedere su uno stato mancato.

Come gli Stati Uniti sono diventati il nemico
Un segno dell’atteggiamento degli iracheni nei confronti dell’occupazione statunitense era evidenziato dalla singolare reazione che essi avevano avuto davanti alle recenti fotografie dei prigionieri. Le terribili immagini di soldati americani che maltrattavano prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, che hanno attirato così tanto l’attenzione del pubblico americano, hanno suscitato a stento una qualche reazione in Iraq. Ero a Baghdad a maggio, poco dopo l’uscita della notizia, ed anche se le fotografie venivano continuamente mandate da Al Jazeera – il canale che è di fatto l’unica fonte di notizie televisive a Baghdad – ero sconcertato nel rilevare che quelle immagini non stupivano la maggior parte degli iracheni. Anche se disgustati da ciò che veniva mostrato - voci di quelle atrocità avevano circolato a Baghdad per mesi - molti iracheni, con i quali avevo parlato, si aspettavano un comportamento del genere da parte di quella che tanti di loro consideravano una brutale forza d’occupazione. Questa assenza di stupore la dice lunga sul modo in cui gli iracheni sono arrivati a giudicare le forze militari statunitensi - un anno fa liberatrici, oggi occupanti. Alcuni iracheni hanno descritto quella statunitense come una continuazione del tipo di oppressione di cui avevano fatto esperienza sotto la dittatura di Saddam Hussein. Alcuni la ritenevano anche peggiore.

«Saddam ci torturava e puniva fisicamente» mi diceva un iracheno della classe media in un inglese piuttosto chiaro. «Ma non cercava di umiliarci».
Perché l’occupazione statunitense è così disprezzata dagli iracheni? Lo sdegno è quasi generale. Lontano dall’essere limitato a un piccolo gruppo di membri insoddisfatti del partito Ba’ath, ho sentito esprimere questa ribollente ostilità anti-americana da religiosi sciiti, politici sunniti, e cittadini della borghesia di formazione laica. Si tratta di un’avversione all’occupazione americana che sembra profondamente personale.
In un seminario tenuto nel vecchio centro di ricerca per gli affari internazionali di Saddam Hussein, Bavtal-Hikma («La Casa della Saggezza»), una docente di scienze politiche dell’università di Baghdad, in un inglese notevolmente articolato, ha aperto le sue osservazioni, dopo il mio discorso sul generale aumento della violenza religiosa, con alcuni pungenti commenti su come l’incapacità della forza militare statunitense nel chiudere i confini dell’Iraq abbia reso possibile agli attivisti islamici radicali di entrare nel paese dall’esterno. Con un tono di voce crescente, la professoressa, astutamente acconciata con un taglio di capelli moderno, ha iniziato ad elencare gli altri problemi causati dalle truppe americane, finendo con l’accusare gli Stati Uniti di essere i responsabili della maggior parte delle rivolte e delle violenze religiose verificatesi nell’ultimo anno. Dopo la caduta di Saddam Hussein – diceva - «Noi avevamo grandi aspettative» riguardo i cambiamenti democratici ed economici che sarebbero avvenuti, «ci aspettavamo qualcosa di meglio». Ma adesso, affermava aspramente, «è peggio». Gli Stati Uniti si comportano «come i terroristi» che loro stessi disprezzano.

L’Iraq è, ovviamente, un paese occupato. Perciò è comprensibile che molti iracheni non sopportino le truppe d’occupazione e siano ansiosi di vederle lasciare il paese. Tuttavia, le forze militari statunitensi sono state in Germania e in Giappone per anni dopo la seconda guerra mondiale e molti tedeschi e giapponesi hanno tollerato l’occupazione con un cupo rancore al peggio, e con profondo apprezzamento, al meglio. Alcuni soldati statunitensi sposarono allora donne del posto e portarono le loro mogli a casa. È improbabile, invece, che ci siano matrimoni misti a Baghdad.
L’invasione statunitense dell’Iraq ha proceduto velocemente e, per molti iracheni, l’esperienza della guerra è stata più difficile dopo la caduta di Saddam Hussein che prima. Per quanto sia stato inflessibile e dittatoriale il regime di Saddam Hussein, i nuovi problemi – l’instabilità dell’ordine pubblico, lo sciacallaggio, i bombardamenti, e i costanti segni della presenza militare straniera - sono tutti aspetti della vita del dopo-Saddam. L’incursione militare statunitense a Falluja e il bombardamento di Najaf per stanare le milizie di Muqtada al Sadr sono state tristi episodi di una guerra di cui molti iracheni non avevano mai avuto esperienza in precedenza. In questo senso è comprensibile che tanti di loro non considerino l’entrata delle truppe americane come il segnale della fine delle ostilità, ma, in modo piuttosto paradossale, del loro inizio. Adesso, gli iracheni stanno aspettando che questa guerra finisca.

Oltretutto, molti iracheni sono ancora sotto shock per la fine di Saddam Hussein. «Avremmo potuto liberarci di lui da soli» si lamentava un ex funzionario statale, spiegando che gli Stati Uniti erano stati ingannati da quello che lui definiva il «mito del potere di Saddam». Secondo il suo punto di vista, Saddam Hussein, per incutere timore, voleva che il mondo – e in particolar modo il popolo iracheno - credesse che lui fosse in possesso di armi di distruzione di massa. In realtà diceva il funzionario, Saddam era piuttosto vulnerabile, come la veloce vittoria delle truppe americane ha evidenziato. Il funzionario era quasi confuso dal fatto che l’esercito di Saddam Hussein fosse crollato così facilmente. Era ancora più confuso per il fatto che lui e il popolo iracheno non erano stati coinvolti nella liberazione dell’Iraq.

Quest’ex funzionario, Mowfaq al-Taey, era stato escluso non solo dalle operazioni per far cadere il regime di Saddam ma anche dalla ricostruzione dell’Iraq – e quest’ultima esclusione lo toccava più profondamente della prima. Nel vecchio regime era stato uno degli architetti di Saddam, responsabile del progetto di molti palazzi del rais, di moschee e di altri imponenti edifici pubblici. È ancora orgoglioso dei suoi lavori, anche se accusa Saddam per alcuni arabeschi architettonici aggiunti ai suoi disegni – come i minareti a forma di lanciarazzi che vennero aggiunti al suo progetto per l’imponente moschea «Madre di tutte le battaglie», che doveva commemorare la presunta vittoria dell’Iraq contro gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo. Oggi al-Taey ha ancora il suo spazioso appartamento vicino a quello che era il palazzo presidenziale, nell’attuale zona verde – l’area protetta, occupata dalle forze della Coalizione, che ospita il quartier generale del Consiglio di Governo. Dal momento che non aveva mai acconsentito ad unirsi al partito Ba’ath, «Non possono sbattermi fuori», diceva, sostenendo che agli americani potrebbe fare molto piacere utilizzare i quartieri progettati da lui per ospitare i funzionari della Coalizione. Ogni giorno passando per i checkpoint attraversa le solite strade di Baghdad, camminando verso il quartier generale di un’organizzazione irachena per i diritti umani dove lavora come volontario. Ma il suo talento di architetto non è stato utilizzato per la ricostruzione dell’Iraq, mentre imprenditori stranieri sono stati impiegati allo scopo.

L’esperienza di questo architetto iracheno è paradigmatica dei problemi creati non solo dall’occupazione in sé, ma anche dalle linee di condotta specifiche che sono state adottate dagli Stati Uniti nell’amministrare la ricostruzione dell’Iraq durante quest’ultimo anno. Alcune di queste sono il risultato di una sostanziale ignoranza della società irachena, altre sono dovute al pregiudizio ideologico del governo statunitense. Si tratta, in ogni caso, di errori catastrofici che hanno portato non solo a un senso di frustrazione e umiliazione diffuso tra il popolo iracheno ma anche a situazioni pericolose riguardo la sicurezza, l’amministrazione, e l’economia che peseranno sul nuovo governo del Paese nei mesi a venire, e forse per anni.

Errori nel settore della sicurezza
Uno dei primi errori è stata la scelta statunitense di sciogliere l’ex esercito iracheno e di rifiutare di reintegrarlo nelle nuove forze di sicurezza che sono state create per sostituirlo. Anche se a un piccolo numero di soldati semplici, non inseriti in forze speciali, è stato permesso di fare domanda per entrare nel nuovo esercito e nelle forze di difesa civile, solo una frazione dei 400.000 soldati di Saddam è stata reintegrata e persino a questi soldati è stato richiesto un nuovo addestramento. Non c’è bisogno di dirlo, ci vuole molto tempo per trovare candidati capaci e per assumere e addestrare un nuovo esercito e nuovi corpi per la difesa civile; dopo un anno si è solo all’inizio. Questa scelta ha avuto due terribili conseguenze: l’onnipresenza dell’esercito statunitense nelle strade di Baghdad e delle altre città irachene, e l’emergere di forze di sicurezza private - spesso composte dal vecchio personale militare iracheno rimasto disoccupato - come milizie indipendenti assoldate dai partiti politici, dalle imprese e da privati cittadini. Il vecchio esercito di Saddam era non solo ben addestrato ma notevolmente vario - integrava diversi gruppi sunniti, sciiti e curdi. Ma queste truppe sono state scartate nel tentativo di creare, alla meglio, nuove forze armate, e nel frattempo l’autorità della Coalizione ha dovuto fare affidamento sulle truppe americane per mantenere la sicurezza nel Paese.

Appena si arriva all’aeroporto internazionale di Baghdad ci si trova davanti alla vista carri armati e jeep onnipresenti che hanno finito per essere il simbolo tangibile della presenza militare statunitense. È un aspetto della vita nell’Iraq moderno che aumenta tanto più ci si avvicina all’epicentro del potere americano a Baghdad: la zona verde. Il nostro gruppo risiedeva in un piccolo albergo fuori dalla zona fortemente protetta dove molti americani e altri funzionari della Coalizione vivono e lavorano, ma in un’occasione avevamo deciso di incontrare dei funzionari dell’Autorità Provvisoria della Coalizione e del Consiglio di Governo ed avevamo bisogno di entrare.

Gli americani e gli altri stranieri che lavorano nella zona verde raramente si avventurano fuori, e quando noi abbiamo cercato di entrare siamo dovuti passare attraverso svariati checkpoint militari, tutti gestiti da truppe statunitensi. Di strada verso la zona verde, siamo stati fermati da convogli di soldati americani alla ricerca di ribelli che si riteneva guidassero un’automobile molto simile ad una delle nostre. Molti soldati americani piantonavano l’ingresso della zona verde per controllare i nostri passaporti e il nostro equipaggiamento. Mentre i giovani soldati controllavano le telecamere e ci facevano cancellare dalle foto-camere le fotografie dei checkpoint, abbiamo discusso della loro situazione. I soldati erano stati nella Guardia Nazionale a Seattle e a Riverside, in California, e adesso trascorrevano la notte nel Centro Congressi all’interno della zona verde, con l’obbligo di arrotolare i loro materassi tutte le mattine in modo che quella camera da letto collettiva potesse essere utilizzata durante il giorno per i meeting. Ci hanno mostrato il loro pesante equipaggiamento – circa 26 chilogrammi di materiale a prova di proiettile - e ci hanno espresso la loro apprensione per i mesi a venire, con il terribile caldo estivo alle porte. Sarebbero dovuti tornare a casa un mese prima del nostro incontro, ma la data era stata cambiata all’improvviso, un fatto di cui avevano aspramente risentito. Inoltre erano consapevoli di essere degli obiettivi sensibili, dal momento che si trovavano alla periferia della zona verde e piantonavano i checkpoint, frequentemente presi di mira sia dal fuoco dei mortai che dalle autobomba. Proprio il giorno precedente, c’era stata un’enorme esplosione davanti al cancello adiacente alla zona verde, un attacco suicida con un’autobomba che aveva ucciso sei iracheni incluso l’autista. In quell’occasione, comunque, nessun soldato americano era rimasto ucciso. Ma i soldati sapevano quanto fossero vulnerabili. Dicevano di poter «sentire l’odio» negli occhi degli iracheni che guardavano i convogli di jeep guidati da loro, che tenevano le dita pronte sul grilletto, attraverso le strade di Baghdad. Sentivano di avere quasi dei bersagli dipinti sulle loro schiene.

All’interno della zona verde ci eravamo accordati per incontrare il Ministro della Difesa del Consiglio di Governo. Anche se l’intera area era apparentemente protetta, c’erano guardie militari all’ingresso dell’edificio che temporaneamente ospita il Ministero della Difesa. Si trattava di membri dei nuovi corpi iracheni di difesa civile. Indossavano uniformi pulite e ordinate, e vivaci berretti blu: ci hanno salutato sorridendo mentre entravamo nell’edificio. Ho fatto presente l’incongruenza di questa situazione al Ministro della Difesa, Ali Alawi – un parente di Iyad Alawi, un altro membro del Consiglio di Governo che è stato successivamente designato Primo Ministro del governo ad interim. Come Iyad, Ali Alawi era un iracheno esule, che era stato un uomo d’affari a Londra prima di tornare a Baghdad ed essere nominato nel Consiglio di Governo. Perché, gli ho chiesto, il suo ufficio privato nella zona verde, sicura, è protetto dalle nuove truppe irachene quando i soldati americani sono messi nella posizione provocatoria di pattugliare le strade e gestire i checkpoint?

Alawi ha risposto che i nuovi corpi di difesa non erano ancora pronti a pattugliare le strade. Pressato, ha affermato che c’era un cospicuo gruppo di soldati iracheni - 30.000 - attualmente in addestramento, che sarebbero stati pronti in circa tre mesi. Molti osservatori, comunque, sostengono che il numero delle forze di sicurezza irachene completamente addestrate e attive (esercito, corpi di difesa, guardie di frontiera), a metà aprile 2004, si aggirasse intorno alle 6.000 unità, con diverse altre migliaia in addestramento. Secondo il «New York Times» circa la metà delle truppe irachene si è dimesso nell’arco di sei mesi per protesta contro i salari bassi e le condizioni pericolose. Anche se adesso c’è un numero significativo di poliziotti iracheni in addestramento – 20.000, secondo una relazione del Pentagono del marzo 2004 - ci sono molte meno forze addestrate militarmente. Chiaramente l’impresa di trovare, addestrare, e mantenere al proprio servizio le truppe è impegnativa, e richiederà più tempo di quanto si prevedeva inizialmente. Pur difendendo il principio di sciogliere il vecchio esercito iracheno, Alawi ha comunque ammesso che l’attuale difficoltà nel provvedere alla sicurezza del paese è il risultato di «una certa teoria della sicurezza che non ha avuto alcun risultato». Inoltre, ha affermato che alcune delle vecchie truppe potevano essere ricostituite in nuove forze di sicurezza nel giro di mesi.

Cosa che, tuttavia, non era accaduta, e nell’ultimo anno le truppe degli Stati Uniti e della Coalizione sono stati gli strumenti primari per provvedere alla pubblica sicurezza. Baghdad non è una città molto sicura ad oggi, dati i saccheggi diffusi, le ruberie, i rapimenti, le sparatorie e i bombardamenti dei ribelli. È comprensibile che le autorità della Coalizione vogliano dare una garanzia di sicurezza in modo da dissaduere anche coloro che possono essere tentati di infrangere l’ordine pubblico. Eppure alcuni metodi adottati per dare un senso di sicurezza alla popolazione sembrano aver avuto un effetto opposto.

Sono trasalito, per esempio, nell’immaginare come potevano apparire i continui convogli di tre o più veicoli armati che girano per le strade trafficate del centro di Baghdad. La nostra automobile semplice, senza nessun segno distintivo e senza scorta, sarebbe stata spinta al lato della strada assieme a tutte le altre automobili mentre quei convogli minacciosi avrebbero rimbombato passando oltre. Fissata sul tetto di metallo di ogni jeep ci sarebbe stata una mitragliatrice impugnata da un giovane soldato americano molto nervoso la cui sola protezione, mentre controllava il traffico, sarebbe stata il suo elmetto. Velocemente avrei messo via la telecamera per paura che potesse essere scambiata per un’arma. Il mio pensiero correva a quel giovane soldato vulnerabile che mi faceva venire in mente molti studenti delle mie classi californiane. Allo stesso tempo intuivo l’umiliazione che gli iracheni devono avvertire nel vivere in quello che sembra essere un campo militare. Potevo intuire l’umiliazione facilmente fino a sentirla profondamente mia.

I convogli sembravano essere onnipresenti, e c’erano anche pattuglie a piedi. Una notte, tardi, ho visto un gruppo di circa venti soldati americani che orinavano in mezzo alla strada proprio sotto la finestra della mia stanza d’albergo; per un breve momento mi sono sentito quasi come facessi parte del nemico. Era una sensazione acuita dai molti checkpoint, che avevo visto, dove giovani americani che non parlano l’arabo controllavano i passaporti degli stranieri, come me, e le carte d’identità dei cittadini iracheni. Spesso i soldati gridavano nervosamente ordini in inglese agli automobilisti iracheni come se il solo volume delle loro voci potesse trasmettere il significato delle parole. Era facile capire quanti iracheni potevano sentirsi prigionieri nel loro stesso Paese. L’incursione statunitense a Falluja nell’Aprile 2004 è stata percepita da tanti iracheni non come un tentativo giustificato di sradicare un piccolo gruppo di ribelli anti-americani ma come un’estensione del controllo militare americano dal pugno di ferro, di cui loro avevano già esperienza nella propria quotidianità. I media americani hanno presentato l’incursione a Falluja come una reazione alla ripugnante uccisione di 4 guardie di sicurezza private di nazionalità americana e allo scempio dei loro cadaveri. Come molti iracheni sapevano, invece, la folla accanita, che aveva attaccato l’automobile dei quattro, era infiammata a causa di diversi soldati americani che, per via delle loro dita pruriginose, avevano fatto fuoco sui manifestanti che stavano protestando contro l’uccisione, da parte del governo israeliano, del leader palestinese, lo sceicco Ahmed Yassin. Quindi, anche se pochi iracheni approvavano il modo selvaggio in cui gli uomini della sicurezza erano stati uccisi, condividevano ancora meno l’assalto militare alla città che ne era seguito.

I ribelli di Falluja erano ampiamente appoggiati nell’area sunnita, e diversi religiosi sunniti hanno cercato di aiutarci a capire perché hanno difeso la posizione anti-americana dei ribelli. Erano membri del Consiglio Iracheno dei Religiosi Sunniti, e avevano acconsentito a riceverci nell’opulenta moschea di Baghdad progettata dall’architetto che già avevo incontrato, Mowfaq al-Taey — quella moschea fatta costruire da Saddam Hussein per celebrare la «vittoria» irachena sugli Stati Uniti nella «Madre di tutte le Battaglie», la prima guerra del Golfo. La moschea ha continuato a rappresentare il simbolo del potere politico dei sunniti e il centro della resistenza anti-americana. Due settimane prima della nostra visita, ad esempio, era stata il luogo di incontro per un raduno di duecentomila iracheni contrari all’occupazione statunitense. I religiosi che abbiamo incontrato hanno paragonato la difesa di Falluja da parte dei ribelli alla difesa della casa fatta dal padrone contro un ladro. Secondo i religiosi sunniti, gli americani erano degli estranei che avevano fatto irruzione nella loro casa. Anche se molto è stato detto dai media statunitensi riguardo gli integralisti islamici provenienti da altri paesi arabi – si è parlato, ad esempio, dei violenti attacchi perpetrati dal giordano Musab al-Zarqawi e dai seguaci di Al Quaeda - i religiosi sunniti li ritenevano degli estranei che avevano fatto preda della debolezza dell’Iraq. Le loro azioni, dicevano, erano simili a opportunistiche infezioni che avevano invaso il corpo già devastato dell’Iraq. I religiosi sunniti incolpavano gli Stati Uniti per gli attacchi degli integralisti islamici: gli Stati Uniti non avevano, infatti, saputo controllare sufficientemente i confini iracheni, dicevano, e perciò avevano creato essi stessi quella situazione di diffusa ostilità che aveva incoraggiato lo scoppio delle violenze. Qualsiasi ruolo quegli stranieri avessero giocato a Falluja era quindi il risultato della condotta americana. Piuttosto che dare agli iracheni un senso di sicurezza, secondo i religiosi sunniti, l’assalto militare a Falluja era sembrato piuttosto un’estensione della guerra americana contro l’Iraq – una guerra che molti iracheni sempre più percepivano essere stata combattuta non solo contro il regime di Saddam ma contro il loro popolo. Per questo motivo, anche i tentativi statunitensi di portare a giustizia il fuggitivo religioso sciita Muqtada al-Sadr sono stati così ampiamente condannati in Iraq. Non che al-Sadr godesse di un ampio sostegno: aveva solo un piccolo ma rumoroso manipolo di seguaci. Il suo giornale, che l’amministrazione della Coalizione ha bandito – facendo così precipitare il confronto tra le milizie di al-Sadr e le forze militari statunitensi che sostengono la Coalizione – aveva una diffusione di soli 2.000 lettori. E pur venendo da una celebrata famiglia sciita (suo zio era stato uno dei fondatori del partito sciita Da’awa), Muqtada era considerato, nel migliore dei casi, un attaccabrighe arricchito e, nel peggiore, un farabutto criminale. Molti iracheni con i quali ho parlato lo credevano capace dei crimini di cui veniva accusato, inclusa l’organizzazione dei delitti dei suoi oppositori sciiti. Ciò nonostante, non approvavano l’assalto militare americano contro al-Sadr e le sue milizie. Ho discusso di questo caso con Jala al-Mashda, l’editore del giornale sostenuto dal Partito Democratico Indipendente Iracheno guidato da Adnan Pachachi (ex Ministro degli Esteri iracheno e avversario di Saddam, a cui – si dice - era stata offerta la presidenza del nuovo governo ad interim che lui avrebbe rifiutato). Al-Mashda è un cittadino ben educato, e un osservatore politico laico che è stato un appassionato sostenitore di un Iraq democratico e indipendente. Non aveva alcun legame con al-Sadr e i suoi estremisti militanti, ma non appoggiava l’assalto militare degli Stati Uniti nei loro confronti, specialmente dal momento che aveva implicato incursioni nelle città sacre degli sciiti di Garbala e Najaf. «Perché - l’editore si domandava - gli Stati Uniti non aspettano che il nuovo governo iracheno si sia stabilito per lasciargli il compito di risolvere i problemi di giustizia e ordine pubblico?». A infastidire Al Mashda, come molti altri iracheni con cui ho parlato, era il fatto che le forze militari statunitensi fossero così profondamente coinvolte in questioni di pubblica sicurezza e giustizia che dovrebbero essere, invece, di dominio di autorità irachene indipendenti.

La ragione per cui gli Stati Uniti sono stati così profondamente coinvolti nelle questioni quotidiane della sicurezza, della giustizia e dell’ordine pubblico è stata che non c’era nessun altro che potesse farlo. Pochissimi membri del vecchio esercito iracheno, adesso licenziato e screditato, sono stati riassorbiti dalle nuove forze di difesa irachene. Ma, dal momento che avevano comunque le capacità – e spesso anche le loro vecchie armi – tanti di loro sono stati assunti come guardie private in un paese alla disperata ricerca di una forza di sicurezza qualsiasi. Di fatto ogni partito politico, ogni impresa di grandezza significativa, e ogni organizzazione operante in Iraq hanno creato una propria forza di sicurezza, spesso formata assumendo uomini che erano appartenuti all’ex esercito iracheno. Nel caso dei partiti politici essi mostrano spesso un appassionato senso di lealtà verso la propria ideologia politica e religiosa, come i militari statunitensi hanno scoperto combattendo contro le milizie di Muqtada al-Sadr. Molti di questi eserciti privati si sono formati lo scorso anno. Si tratta di un nuovo fenomeno - Saddam non avrebbe mai permesso a questi eserciti in miniatura di sfidare il proprio monopolio di forza. Ma adesso a causa delle scelte della Coalizione, che ha deciso di non ricostruire velocemente un esercito iracheno che avesse una forza sufficiente a provvedere alla sicurezza domestica, il Paese è stato invaso da questi micro-eserciti. Adesso i tempi sono maturi per lo scoppio di piccole guerre in stile Somalia o Afghanistan tra signori della guerra rivali. Tutto ciò mette ancora più nei guai l’esercito statunitense. La sua costante presenza fa aumentare la rabbia della popolazione e posticipa la data in cui le forze irachene saranno in grado di rimpiazzare quelle statunitensi. Eppure non si può nemmeno lasciare l’Iraq all’improvviso, dal momento che uno sgonfiamento rapido del potere centrale farebbe precipitare il Paese in un olocausto di anarchia militare, causato da una pletora di milizie indipendenti.

Gli errori nel settore dell’amministrazione
Un’altra serie di errori provocati dalle scelte della Coalizione in Iraq nel settore dell’amministrazione presenta delle somiglianza con la serie di errori commessi nel campo della sicurezza: gli Stati Uniti hanno, infatti, assunto il ruolo dell’amministrazione di governo proprio come hanno fatto con la difesa militare.

Questa scelta ha avuto l’effetto di incidere negativamente sullo status di molti esponenti della classe media irachena e di escluderli da un ruolo attivo nella ricostruzione dell’Iraq. La decisione più problematica è stata presa subito dopo la nomina di Paul Bremer a governatore dell’Iraq quando si è stabilito di non re-impiegare come funzionari statali coloro che avevano aderito al vecchio partito Ba’ath di Saddam. Una scelta politica collegata a questa e altrettanto problematica è stato il pesante affidamento fatto su operatori stranieri per addestrare gli iracheni e costruire una nuova struttura di governo compatibile con l’ideale americano di organizzazione governativa.

La nostra visita nella zona verde di Baghdad ha rivelato alcune conseguenze derivate da entrambe queste scelte. Gli uffici dell’Autorità provvisoria della Coalizione e i Ministeri del Consiglio di Governo si trovano tutti nell’area protetta - ovvero in quell’area che ospitava uno dei palazzi presidenziali di Saddam, le case di molti altri ufficiali di alto livello del partito Ba’ath, l’altissimo hotel al-Rashid, e molti degli uffici centrali dell’amministrazione irachena. Era stato il luogo degli attacchi shock-and-awe visti dal vivo in tutto il mondo grazie alla Cnn e alle altre televisioni straniere che si erano piazzate sulla terrazza dell’albergo Palestine il quale si trova proprio dall’altra parte del Tigri nel centro di Baghdad. Oggi la zona verde è un’area pesantemente militarizzata, piena di giardini infestati dalle erbacce, di edifici devastati dalle bombe e con le strade vuote popolate solo da soldati della Coalizione e amministratori statunitensi e inglesi che si sono stabiliti in uffici temporanei e vivono in roulotte circondate da barricate di sacchi pieni di sabbia.

Al tempo di Saddam, ogni cosa di una certa importanza accadeva qui, in questo spazio centrale. Sfortunatamente, anche oggi.
A tutti gli effetti, l’Autorità Provvisoria della Coalizione è stata l’unica struttura amministrativa in Iraq dall’Aprile del 2003. Pur essendo ogni ministero guidato da un membro iracheno del Consiglio di Governo, ogni ministro conta su un consigliere – in genere un amministratore americano o inglese. E, alla fine, la responsabilità di decidere si ferma sulla scrivania del capo dell’Amministrazione della Coalizione, Paul Bremer. La nostra ospite a Baghdad, Hanaa Edwards, a capo dell’organizzazione irachena per i diritti umani Al-Amal, ci ha raccontato di un incontro che lei e altre donne irachene, preoccupate per i diritti delle donne, avevano avuto di recente con Bremer. Ha riferito che Bremer era stato piuttosto gentile fino a che non lo avevano pressato su alcune questioni pratiche come i salari delle donne e il diritto di divorziare. Sembrava irritato dall’essere considerato responsabile di particolari del genere — una risposta che sosteneva di aver già dato ad altri iracheni che si erano lamentati con lui riguardo i blackout elettrici e la lentezza con cui procede la ricostruzione. «Ma allora - si chiedeva Hanaa - se non è lui il responsabile, chi altro lo è?».

Entrare nella zona verde significa entrare in un regno di potere, ma si tratta in maniera evidente, quasi palpabile, di un potere tutto americano. Come ho detto, a controllare i checkpoint agli ingressi pedonali dell’area è personale militare americano. A causa della frequenza di attacchi con autobomba, pochissime automobili possono entrare. Allo stesso tempo pochissimi dei veicoli che si trovano all’interno della zona verde hanno il permesso di uscirne. L’autista che guidava la nostra automobile ci ha lasciato in una strada trafficata proprio di fronte a una delle entrate, mentre noi ci guardavano nervosamente attorno per assicurarci di non essere nella traiettoria di qualche cecchino. Ci siamo fatti strada attraverso recinzioni di filo spinato e barricate di sacchi pieni di sabbia, siamo stati perquisiti da giovani soldati americani che hanno controllato i nostri passaporti de esaminato i nostri bagagli.

Siamo stati, poi, accolti dal nostro ospite, Paul Sholte, un diplomatico inglese che lavorava per la Coalizione come consigliere per il Ministero della Difesa. Ci siamo arrampicati a bordo del suo pick-up bianco che essenzialmente era servito come una sorta golf-cart fino a che non gli era più stato permesso di lasciare la zona. Nemmeno a Paul, insomma, era permesso. Ci ha detto con un certo rammarico che noi avevamo visto più cose di Baghdad di quante ne avesse viste lui nei sei mesi trascorsi in Iraq. Non era stato affatto incoraggiato a lasciare la zona, diceva, e se avesse voluto farlo avrebbe dovuto ottenere un permesso scritto ed essere scortato da un convoglio militare. Al contrario, noi eravamo andati dappertutto attraverso la città in automobili prive di qualunque segnalazione e senza nessuna scorta, fatta eccezione per il buonsenso dei nostri autisti.

Avevo incontrato Sholte diversi mesi prima del mio viaggio a Baghdad quando entrambi avevamo preso parte a un seminario promosso dalla Nato sul terrorismo, che si era tenuto a Praga. Lo sapevo una persona riflessiva e sensibile e mi ero chiesto come fosse riuscito ad andare d’accordo con la sua controparte americana nel team dei consiglieri della Coalizione. «È stato frustante», diceva con rassegnazione, con un tono che suggeriva che, dietro questa semplice espressione, ci fossero molte storie non dette. La burocrazia della difesa statunitense non era abituata a discutere, affermava Paul, quanto piuttosto ad accettare, senza chiedere spiegazioni, qualunque direttiva che venisse data da Washington. Inoltre le informazioni non tornavano facilmente indietro da Baghdad attraverso i «passaggi segreti» del comando. La zona verde aveva un chiaro sapore americano. Anche se c’era un’infarinatura di inglesi con i loro allegri berretti, e di australiani con i loro inconfondibili copricapo, molti dei militari e dei civili che abbiamo incontrato lì erano americani. Sembravano provenire soprattutto dal Sud - da stati come la Virginia, la Louisiana, e il Texas. C’erano davvero pochissimi iracheni. Le scritte erano tutte in inglese e i messaggi chiaramente indirizzati a lettori americani. Una delle più frequenti portava un messaggio motivazionale: «Cosa hai fatto oggi per il popolo iracheno?». Una donna irachena del nostro gruppo, Yahia Said, ha posato con tristezza affianco a uno di questi manifesti mentre io le scattavo una fotografia.

Una volta abbiamo incontrato il Ministro della Difesa, Ali Alawi, che era anche il Ministro del Commercio. Pur essendo iracheno, aveva vissuto per circa trent’anni a Londra e parlava con un eccellente accento britannico. Oltre ad aver discusso delle questioni relative alla sicurezza - di cui ho già riferito in questo testo - Alawi ha espresso una certa impazienza rispetto alla lentezza con cui procede la ricostruzione del Paese. Tuttavia, pur ammettendo che le scelte della Coalizione nell’ultimo anno possono non essere state sempre appropriate, sembrava attribuire la responsabilità più grande al popolo iracheno. Sotto Saddam era stato ridicolizzato, intimorito, e ora era, in un certo senso, preoccupato per il cambiamento. La società irachena, diceva, era dominata «dalla politica della paura, non dalla politica della speranza».

Dopo Alawi, abbiamo incontrato diversi americani che erano stati assunti dall’Autorità Provvisoria per addestrare nuovi funzionari per il Ministero della Difesa. Il loro compito era, in un certo senso, di «indottrinare» le nuove reclute irachene con la «politica della speranza».

Davano anche lezioni pratiche su come gestire la burocrazia di un Dipartimento della Difesa moderno ed efficiente, alla maniera americana. Dal momento che il vecchio governo di Saddam aveva un enorme apparato di Difesa che gestiva un esercito di circa 400.000 soldati sembrava ragionevole che almeno alcuni aspetti della vecchia struttura venissero riabilitati. Sarebbe stato utilizzato qualcuno dei vecchi impiegati e i loro uffici? Mi è stato detto di no, la vecchia struttura amministrativa veniva completamente abbandonata per iniziare tutto da capo. Come i vecchi edifici nelle città americane, quello amministrativo era considerato troppo costoso da ristrutturare. Doveva essere distrutto e costruito di nuovo.

Gli americani che si erano assunti questa responsabilità sembravano piuttosto sicuri di centrare l’obiettivo. Dopo tutto, lo avevano già fatto diverse altre volte in varie parti del mondo. Erano professionisti associati alla Military Professional Resources International (Mpri), una compagnia americana formata in massima parte da ex personale militare statunitense assunto con regolare contratto, un po’ in tutto il mondo, per fornire servizi di consulenza in merito a questioni di sicurezza e difesa. Spesso, come nel caso dell’Iraq, si trattava di lavoro organizzato da agenzie governative americane.

L’Mpri molte volte fornisce sia servizi di consulenza sulla sicurezza che servizi per l’addestramento militare, ma in questo caso il compito era quello di addestrare nuovi funzionari che avrebbero poi formato il Ministero della Difesa iracheno. Tra gli istruttori dell’ Mpri che abbiamo incontrato nella zona verde c’erano anche due ex ufficiali dell’esercito americano. Sue Dueitt, una sorridente bionda della Virginia che, in una vita passata, avrebbe potuto essere un hostess o un’infermiera. Ma che in questa vita aveva servito l’esercito, arrivando al grado di generale di brigata, prima di ritirarsi anzi tempo e unirsi all’Mpri. Il suo collega, Ronald Alcala, originario del Sud della California, era stato pure lui un militare – nel suo caso penso si trattasse – credo – di un comandante d’armata. A dispetto dei loro gradi, ci hanno invitato a chiamarli semplicemente Sue e Ron. La loro aula era in un ben illuminato edificio temporaneo, aveva un mattonato lucido e brillante, pareti bianche, e scrivanie di metallo disposte a forma di U davanti a una parete coperta di lavagne e grafici. Disponeva anche di uno schermo per le immagini progettate al computer in power point che venivano utilizzate nei seminari. Sue e Ron ci hanno mostrato copie del manuale che viene dato a chi frequenta il loro corso, stampato in inglese e accompagnato da una traduzione in arabo. Il manuale sembrava essere formato, in realtà, da stampe delle presentazioni in power point che venivano proiettate durante le lezioni. Gran parte del testo era ordinato in elenchi puntati, con delle linee che collegavano gli infographics l’uno all’altro. Ol-
tre a queste lezioni a Baghdad il gruppo di «studen-ti» era stato portato al Dipartimento della Difesa di Washington Dc e aveva partecipato ad una speciale sessione di addestramento in Giordania.

Sue e Ron erano certi di ottenere un eccellente risultato durante le loro lezioni dato che già ne avevano tenute in molti paesi – come la Bosnia, la Colombia, la Romania, l’Angola e l’Afghanistan. Noi abbiamo ironicamente definito questi corsi «Il Ministero della Difesa in un unico tomo». Sue e Ron hanno accettato di buongrado, ammettendo che il loro era, in un certo modo, una sorta di kit, ma un kit che, pensavano, potesse essere universalmente applicabile. Non c’era nessun bisogno, dicevano, di adattarlo a seconda delle circostanze. Quello lo avrebbero potuto fare successivamente le persone che avevano seguito le lezioni. Il lavoro dell’ Mpri era quello di addestrare sulle nozioni fondamentali che informano le organizzazioni di difesa ovunque. Un paio di volte durante la conversazione, Sue si era inavvertitamente riferita all’Iraq parlando di Iran, ed era sembrato che avesse difficoltà a identificare i paesi confinanti. Tuttavia, Sue riteneva di aver ben compreso cosa non funzionasse nella vecchia struttura di difesa di Saddam Hussein grazie alle descrizioni che ne erano state date da alcuni dei suoi «studenti».

Spesso alcuni candidati erano stati nominati dai membri del Consiglio di Governo e i nomi erano passati al vaglio del consulente della Coalizione, ma alcuni di loro si erano presentati spontaneamente e avevano mostrato le loro referenze con la speranza di trovare un impiego. Molti avevano corso grandi rischi personali rendendosi disponibili a lavorare con la Coalizione guidata dagli Stati Uniti – ci raccontavano Sue e Ron - e alcuni erano stati vittime di tentati omicidi.

In generale, si cercava di evitare di ri-addestrare chiunque fosse stato nel vecchio sistema di difesa di Saddam. Il vecchio sistema, dicevano infatti Ron e Sue, era troppo sbilanciato a favore delle alte gerarchie. Saddam aveva circa 13.000 generali. Era un sistema alimentato dal paternalismo e dai riconoscimenti personali, e creava un senso di «diritto acquisito» tra la classe degli ufficiali. In generale, lo stile iracheno era troppo autoritario per i gusti di Ron e Sue, e uno dei loro obiettivi era proprio quello di far accettare agli iracheni l’idea della necessità di un dialogo aperto prima di prendere le decisioni. Dicevano di avere difficoltà, poi, nel far comprendere agli iracheni il concetto di policy e la necessità di separare le funzioni militari e quelle civili della difesa. Tra le convinzioni più estreme esposte da alcuni di questi iracheni, diceva Sue, c’era un certo apprezzamento per Hitler, l’idea che il Kuwait fosse, in realtà, una parte dell’Iraq e la mancanza di qualsiasi rammarico riguardo la guerra tra l’Iran e l’Iraq.

In generale, Sue riteneva che gli iracheni fossero bravi studenti, ma reticenti nel parlare in pubblico specialmente quando pensavano che le loro idee potessero sollecitare reazioni di disapprovazione. Sue aveva anche scritto alcuni commenti sulla lavagna relativi alla classe in cui aveva insegnato quella mattina. Tra i commenti spiccavano alcune considerazioni del tipo «una buona classe, ma ma restia a scendere in dettagli» e «difficoltà nel relazionare teoria e pratica». Quando la nostra conversazione stava per finire, Sue aveva fatto quello che riteneva fosse un gesto cordiale per gli iracheni che rappresentavano quasi la metà del nostro gruppo. Nonostante uno fosse un ricercatore alla London School of Economics, un’altra era a capo dell’organizzazione internazionale per i diritti umani che ci ospitava, ed entrambi avessero partecipato attivamente alla discussione, Sue si era rivolta a me a al professore inglese del nostro gruppo, ringraziandoci per «aver portato con noi i nostri amici iracheni».

Per quanto avessimo apprezzato l’entusiasmo con cui Sue e Ron stavano svolgendo il loro lavoro, le loro sessioni di addestramento ci sono sembrate un esempio sintomatico degli errori che vengono commessi dalla Coalizione guidata dagli Stati Uniti nel ricostruire l’infrastruttura amministrativa irachena. Evitando deliberatamente quello che c’era stato prima, i funzionari della Coalizione si sono addossati il compito di gestire il sistema amministrativo durante il periodo di transizione. Hanno anche mancato le opportunità date dal mantenimento di alcune caratteristiche degne di considerazione dell’organizzazione precedente, e, cosa ancora più importante, dalle capacità manageriali di migliaia di funzionari statali che, dopo la caduta di Saddam, sono stati improvvisamente privati del loro impiego e della loro carriera. In molti casi si trattava di impiegati che potevano sì essere stati affiliati al partito Ba’ath ma che non avevano nulla a che vedere con Saddam. Sono stati tenuti ben lontano, tuttavia, dal nuovo Iraq. Questa gente, che è stata umiliata ed esclusa dal nuovo governo, avrebbe dovuto invece essere un alleato.

Un altro problema deriva dal fatto che molti iracheni sentono che il modello americano è stato loro imposto. Anche se esistessero alcune verità valide per tutte le organizzazioni amministrative, il modo in cui esse sono state presentate sembra implicare il fatto che la via americana sia la migliore possibile. È comprensibile che gli iracheni abbiano avvertito il desiderio di contribuire alla ricostruzione delle proprie istituzioni. Il moderno, ben vestito professore della vecchia commissione di Saddam sulla politica estera mette la cosa in questi termini, ovviamente in perfetto inglese: le politiche della Coalizione guidata dagli Stati Uniti hanno imposto agli iracheni dei valori americani e non hanno permesso loro di far tesoro e di godere dei propri.

Errori nel settore economico
Molte delle politiche della Coalizione guidata dagli Stati Uniti hanno mirato a ricostruire l’infrastruttura economica irachena, ma anche in questo caso, hanno creato almeno tante difficoltà quante ne hanno risolte. Il problema principale è stato quello delle scelte guidate dal modello economico neoliberale della privatizzazione. In Iraq si tratta di un invito all’opportunismo economico, alla corruzione, allo sfruttamento. Inoltre, dato che molti dei contratti per la ricostruzione del paese sono stati firmati da società straniere, e in particolar modo da grandi corporazioni statunitensi come Bechtle e Halliburton, le imprese irachene sono state escluse dai benefici economici derivanti dalla ricostruzione del Paese.

Apparentemente, l’economia irachena sembra attraversare una fase di boom. I negozi sono aperti, e con la fine dell’embargo, abbondano i beni di consumo. Le strade sono piene di automobili, e in molti casi si tratta di modelli piuttosto recenti. Quando siamo stati a Baghdad a maggio, i condizionatori erano la grande richiesta del momento. Sembrava che i negozi non riuscissero a tenerli neppure sugli scaffali. I funzionari dell’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale, con i quali il nostro gruppo ha parlato, erano preoccupati per le conseguenze energetiche che l’accensione di tanti nuovi condizionatori, durante i periodi di picco del consumo energetico, nei caldissimi mesi estivi, avrebbe comportato. «Pensano semplicemente che quando spingeranno il pulsante la macchina funzionerà» ha detto uno di loro a Yahia Said. Il funzionario scuoteva la testa.

Una delle ragioni per cui l’economia sta girando è che alcuni stipendi sono considerevolmente aumentati dopo la caduta di Saddam. I soldi dei contribuenti americani, versati al governo della Coalizione, sono stati utilizzati per aumentare il salario dei funzionari statali del governo iracheno dai trenta a centocinquanta dollari mensili. Dal momento che metà della popolazione è impiegata nel settore statale, si tratta di una potente iniezione di potere d’acquisto. I salari governativi riguardano soprattutto le donne, che, come insegnanti e impiegate d’ufficio, rappresentano più della metà degli impiegati statali.
E tuttavia pure se il settore dei consumi dà segni di vita, ci sono anche segnali di stagnazione se si guarda alla ricostruzione su larga scala. Ovunque a Baghdad ci sono rovine di vecchi edifici governativi bombardati, bruciati e distrutti. Persino nella zona verde, pochissimi di essi sono stati ricostruiti. I numerosi progetti di costruzione edile, avviati durante il regime di Saddam, sono stati bloccati a metà. Le enormi gru che dominano sugli edifici non finiti sembrano quasi delle lapidi sulle tombe delle fantasie di Saddam ormai abbandonate. Meno visibile ma altrettanto significativo, il sistema elettrico è tornato solo recentemente a livelli di funzionamento equiparabili a quelli del passato regime. Il petrolio inizia a colare dentro gli oleodotti, e questo è un aspetto cruciale per l’economia del paese. Il petrolio non è stato privatizzato. La produzione è supervisionata da una commissione governativa e la rendita reintegra l’aiuto massiccio proveniente dagli Stati Uniti i quali mantengono in funzione gli uffici governativi e provvedono all’aumento dei salari statali.

Di tanto in tanto si può avvertire un certo astio a Baghdad per il fatto che gli edifici distrutti e le altre infrastrutture irachene non siano stati ancora ricostruiti. Di nuovo, si accusa l’America perché sono spesso società americane ad aver ricevuto i contratti per riparare le infrastrutture bombardate e distrutte. La situazione è complicata dalle preoccupazioni per la sicurezza – Le spese per ingaggiare guardie private a protezione degli esperti americani inviati a lavorare sui progetti di ricostruzione dell’Iraq possono arrivare a un terzo del costo dell’intero progetto. In aggiunta a questi problemi c’è il fatto che molte delle vecchie industrie erano state originariamente costruite con il sostegno sovietico, e la riluttanza russa nell’aderire alla Coalizione ha trattenuto gli Stati Uniti dal concedere alla Russia i contratti per ricostruire le industrie o supplire alle varie mancanze. Sono molte le voci che a Baghdad parlano dell’inefficienza delle società americane che hanno ottenuto l’incarico. Secondo quanto ci è stato raccontato, una società statunitense ha stipulato un contratto di circa 15 milioni di dollari per ricostruire un ospedale distrutto dopo la caduta del regime Tuttavia, la società non è stata in grado di portare a termine il progetto a causa di problemi di sicurezza. Il progetto di ricostruzione è stato quindi affidato a una società irachena che lo ha portato a termine nel giro di pochi mesi al costo di soli 80.000 dollari.

Spesso sono compagnie irachene subappaltatrici a fare la gran parte del lavoro di ricostruzione concordato da società americane che ricevono enormi compensi. Ma dal momento che molti dei profitti sono trattenuti dagli americani, gli iracheni si risentono per il fatto che la ricostruzione del loro paese stia contribuendo, in realtà, ad arricchire gli Stati Uniti. Inoltre alcuni uomini d’affari iracheni credono che la ricostruzione stile-America non sia proficua per i loro affari e,per questo motivo, hanno dato il loro sostegno ai ribelli. Secondo un giornalista, Patrick Graham, che ha raccontato sull’ «Harper’s Magazine» la sua esperienza a Falluja durante l’insurrezione di aprile, la rivolta lì e altrove in Iraq era stata finanziata da uomini d’affari sunniti. Essi erano ostili a causa della competizione delle società straniere, dei crescenti stipendi statali, che mettono sotto pressione le imprese irachene per un aumento dei salari, e delle nuove leggi sull’investimento straniero che autorizza le società americane ad acquistare a bassissimo costo industrie irachene. Dal loro punto di vista, il sostegno alle insurrezioni a Falluja e altrove era un modo per colpire la competizione economica degli statunitensi e, di per sé, un buon affare.

La presenza di imprenditori statunitensi a Baghdad è invadente quasi quanto il fantasma costante delle pattuglie militari americane e dei checkpoints. In parte ciò è dovuto al fatto che, per ragioni di sicurezza, gli imprenditori americani sono circondati da piccoli eserciti di guardie armate, e le loro automobili si muovono in convogli protetti da autocarri attrezzati di mitragliatrici.

Nel piccolo hotel dove stavamo noi, il nostro gruppo misto di iracheni, americani e inglesi era inizialmente l’unico che comprendesse degli stranieri. Perciò per un po’ la presenza americana nell’albergo era stata piuttosto ridotta. Il secondo giorno, tuttavia, si unirono a noi 2 imprenditori americani e le loro 8 guardie del corpo irachene, i quali avevano occupato l’intero terzo piano dell’albergo. Uno di loro era un tizio che chiamerò Hank, un tipo atletico e ben piazzato, sui trent’anni che proveniva da una piccola cittadina del Texas. Hank lavorava come consulente per le reti elettriche e aveva già partecipato a missioni in località a rischio come la Somalia e il Kosovo. Aveva convinto il suo migliore amico, compagno di scuola alle superiori, che ancora chiamava con il vecchio soprannome, Scooter, a unirsi a lui in questa missione. Anche Scooter era un consulente per le reti elettriche e il suo viaggio a Baghdad era, per lui, il primo viaggio fuori dagli Stati Uniti. Quando la sera ci unimmo a loro avevano trasformato l’atrio del terzo piano nel loro salone per le feste. Gli uomini della scorta, prestata a pagamento dal Congresso Nazionale Iracheno di Ahmed Chalabi, erano andati a dormire presto, a causa della stanchezza di cui risentivano dalla festa della sera precedente. Le feste erano incoraggiate dal fatto che le guardie avevano libero accesso a birra e video tape importati che permettevano loro di rimpiazzare il fiume interminabile dei talk-show di Al Jazeera con film pornografici americani.

Quando Hank e Scooter si muovevano attraverso la città, portavano con sé le loro guardie del corpo in un convoglio di tre automobili armate. In generale, ci dicevano, i loro autisti cercavano di evitare di rimanere intrappolati nel traffico perché avrebbero potuto subire un’imboscata. Quando vedevano un blocco stradale o troppo traffico, facevano una brusca inversione a U nel mezzo della strada, anche se avesse comportato di guidare l’auto su un marciapiede o di passare su uno spartitraffico. Quando restavano bloccati nel traffico, dicevano, molte delle guardie saltavano fuori, brandendo i loro AK-47 per scongiurare qualunque possibilità di attacco.

Sapevo quanto spaventosi potessero apparire questi convogli agli iracheni, dal momento che mi ero imbattuto in uno di essi il giorno prima. Il mio gruppo si trovava sulla nostra automobile priva segni di riconoscimento e diretta verso gli uffici dell’organizzazione umanitaria Al Amal, quando improvvisamente la canna di un AK-47 era spuntata dal finestrino posteriore dell’automobile affianco alla nostra, proprio sul lato dove sedevo io. Ho urlato «Armi! Armi!» e mi sono tuffato sotto i sedili come se, in qualche modo, quella posizione prona potesse rendermi più sicuro.

Per mia fortuna, l’arma era quella di una guardia di sicurezza privata che stava scortando un convoglio di tre auto che cercavano di farsi strada nell’ingorgo. Nel convoglio fatto di grandi SUVs Chevy Suburban, doveva esserci qualche funzionario – immaginavo che potesse trattarsi di un imprenditore americano o di un amministratore che si stava dirigendo a un incontro d’affari. A me, comunque – e molto probabilmente a molti iracheni che si erano trovati in circostanze simili – sembrava un altro dei privilegi degli occupanti stranieri e un segno evidente dell’instabilità dell’ordine pubblico.

La vita quotidiana può essere piuttosto agevole per quegli iracheni che sono collaborano con gli imprenditori statunitensi e per quei leader religiosi e politici iracheni che pubblicamente sostengono l’occupazione. Dopo un seminario tenuto nel nostro albergo in cui la professoressa Mary Kaldor e io abbiamo presentato delle relazioni sulla guerra e sulla violenza religiosa nella società globale in cambiamento, siamo stati invitati a casa di uno dei leader religiosi che aveva partecipato al seminario, lo sceicco Ayad Jamaluddin. Lo sceicco proviene da una famiglia di leader religiosi sciiti di Najaf, ma ha vissuto, come esule, a Dubai fin dal 1979. Non sembra avere nessun gruppo di seguaci in Iraq, ma ha amici a Washington. Crede fermamente nella separazione tra religione e politica ed è un aperto sostenitore dell’occupazione in Iraq. Secondo un articolo scritto su di lui da Jon Lee Anderson su «The New Yorker», era stato contattato già da diversi anni da funzionari governativi statunitensi i quali avevano cercato di persuaderlo a partecipare alla ricostruzione del paese. Era volato a Baghdad dopo la guerra. Ma – a quanto si dice - altri religiosi sciiti non avevano avuto abbastanza fiducia in lui e avevano impedito che lavorasse nel Consiglio di Governo, tuttavia, gli era stato permesso di alloggiare in uno dei vecchi palazzi del vice-presidente di Saddam, una villa ricchissima sulle rive del fiume Tigri dove lo sceicco si diverte a minare il fiume per uccidere i pesci.

La sera in cui abbiamo fatto visita allo sceicco Jamaluddin siamo stati accompagnata in una casa arredata in stile sumero che lo sceicco aveva fatto costruito nel giardino posteriore affianco alla riva del fiume. Lo sceicco se ne stava là, affondato tra i cuscini, su un pavimento coperto di tappeti, fumava un sigaro cubano, e lodava eloquentemente le virtù della filosofia politica neo-conservatrice di Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. La sua famiglia aveva continuato a vivere a Dubai, perciò diceva che stava essenzialmente valutando la villa, viveva solo con il suo assistente e uno staff di circa 40-50 uomini tra servitori e camerieri. Più tardi quella sera, quando abbiamo espresso la nostra preoccupazione nel tornare in albergo a quell’ora, lo sceicco gentilmente ci aveva offerto la Bentley del vecchio Vice Presidente, che, diceva, gli era stata data insieme alla casa. Era dotata di finestrini spessi tre pollici che non solo erano antiproiettili ma potevano anche resistere a colpi di mortaio. Fortunatamente non abbiamo dovuto sperimentare le dotazioni di quell’automobile, ritornando alle nostre stanze d’albergo da 30 dollari.

Si dice che Saddam governava combinando terrore e paternalismo. Quella notte abbiamo potuto constatare come questi infelici aspetti della vita pubblica irachena perdurino tuttora. I costanti blocchi stradali, i bombardamenti, e le pattuglie prolungano il clima di paura che si respirava nel vecchio regime. Nel caso dello sceicco Jamaluddin, come in molti altri casi ampiamente rilevati in tutto il paese, abbiamo visto riemergere il modello di un privilegio garantito agli «adulatori» che servono coloro che detengono il potere. Tristemente sotto l’occupazione della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, il modello misto di terrore e paternalismo di Saddam continua ad esistere.

Cosa ci attende
La nomina del nuovo governo ad interim nel maggio 2004 ha dato un senso di stabilità e speranza a una situazione che sembrava essere precipitata in un vortice fuori controllo. Le ultime settimane del mese precedente state un disastro. Quando siamo arrivati alla fine di aprile, infatti, ci era stato detto che per la prima volta dalla caduta di Saddam la gente per le strade si chiedeva se l’ordine civile nel Paese sarebbe sopravvissuto. Le doppie insurrezioni – dei sunniti che si ribellavano contro le irruzioni dei marines statunitensi a Falluja e degli sciiti sostenitori di Muqtada al-Sadr che combattevano contro le truppe della coalizione a Baghdad e a Najaf – sembravano destinate a sfociare in una probabile insurrezione generale contro l’occupazione americana. Questa situazione di caos avrebbe portato a un coinvolgimento ulteriore delle truppe americane e a un’alleanza di milizie irachene armate contro le forze di occupazione.

A Falluja durante la ribellione di aprile, nei giovani del posto, che non erano stati impegnati in politica precedentemente, era montato un accesso d’odio contro i marines invasori. Abbiamo parlato con un francese che lavorava per un’organizzazione umanitaria, il era stato a Falluja in quel periodo. Il francese ci diceva che i ribelli non erano semplicemente pochi fedeli del partito Ba’ath e attivisti stranieri, ma che «l’intera città si era sollevata per resistere». Secondo il giornalista Patrick Graham, che era stato anche lui a Falluja durante l’insurrezione, la richiesta di uccidere soldati americani era stata avanzata con un misto di passione religiosa e autodifesa. D’altro canto, i soldati americani erano incitati a mantenere uno spirito da «tutti-fuori», «combatti-o-muori». Secondo i reportage del «Los Angeles Times» firmati da un altro giornalista,Tony Perry, che era viaggiava con il battaglione dei marines americani di Falluja ad aprile, i soldati statunitensi bruciavano per una «febbre da combattimento». Avevano soprannominato la battaglia di Falluja il «Superbowl sunnita», e alcuni sembravano delusi quando, nel vivo della battaglia, era stato improvvisamente fermato il conflitto e le truppe americane si erano dovute ritirate.

Il ritiro repentino delle truppe da Falluja aveva calmato la ribellione. Probabilmente per due fattori. Il primo: la consapevolezza acquisita dalle autorità della Coalizione che Falluja era invincibile e che l’Iraq stava precipitando fuori dal controllo. Il secondo: la disponibilità dei religiosi iracheni e dei leader militari a impegnarsi come mediatori. Un consiglio di religiosi sunniti, formatosi a Falluja, non solo dava voce ai sentimenti di oppressione della cittadinanza ma costituiva anche un punto di mediazione per i negoziati, alcuni dei quali hanno poi portato alla liberazione degli ostaggi stranieri. Allo stesso tempo generali della vecchia guardia repubblicana si erano fatti avanti per guidare i contingenti di ex soldati iracheni in una forza di peacekeeping in grado di rimpiazzare i marines al momento della ritirata.

Il modo in cui è stata disinnescata la crisi di aprile a Falluja è un modello per quello che può essere fatto nell’intero paese. Se alcuni dei vecchi comandanti militari potessero essere re-impiegati per guidare nuovi corpi di difesa civile iracheni e le leadership locali potessero essere reclutate per controllare l’ordine pubblico la necessità di una presenza militare statunitense forte e invasiva diminuirebbe. Entrambi i nuovi leader del governo ad interim, Iyad Alawi e lo sceicco Ghazi al-Yawar, hanno sostenuto sviluppi di questo tipo. Alawi ha permesso ad alcuni dei militari legati alla sua organizzazione politica, l’Iraqi National Accord, di essere utilizzati nella creazione di una task force «inter-militia» nel dicembre 2003. Questa coalizione di forze armate sotto il comando del Cpa includeva curdi, sciiti ed ex militanti sunniti ba’athisti. Anche se i gruppi politici mantenevano il controllo sui propri soldati si trattava di un primo tentativo per unificare le forze di sicurezza; questo gruppo si trovava presumibilmente sotto il comando di generali della Guardia Repubblicana che avevano riportato l’ordine a Falluja dopo i fatti di aprile.

I leader dei partiti politici con cui ho parlato - il partito Da’awa, sciita, e il Partito Islamico Iracheno, sannita - affermavano entrambi che la lealtà degli iracheni era forte come o persino di più delle specifiche affiliazioni religiose o etniche. Questi leader hanno espresso la loro disponibilità a cedere le proprie milizie per una forza di sicurezza irachena reintegrata, e a lavorare con altri partiti al di sopra della supposta divisione tra sciiti e sunniti. Infatti diversi iracheni hanno parlato di un «mito» costruito sulle differenze che dividono sciiti-sunniti-curdi e hanno invece riferito di molti esempi di cooperazione inter-religiosa e inter-etnica nel vecchio esercito iracheno, della presenza di circa il 15% di sostenitori sunniti nel Partito Da’awa, e dell’esistenza di un’infinità di partiti politici e associazioni civili che non avevano nessuna specifica identità religiosa o etnica.

Ad esempio, la tribù del presidente del governo ad interim iracheno, lo sceicco Ghazi al-Yawar, è composta da sciiti e da sunniti. I religiosi sunniti con cui ho parlato dicevano che l’idea di un triangolo sunnita a nord-ovest di Baghdad, in qualche modo privilegiato, sotto il regime di Saddam era un mito. Uno degli intellettuali sunniti con cui ho parlato ha detto che Saddam non faceva differenze tra il popolo iracheno dal momento che «sotto il suo regime tutti i gruppi soffrivano alla stessa maniera». L’intellettuale metteva in evidenza come l’occupazione americana dell’Iraq aveva avuto lo stesso risultato, per quanto non intenzionalmente. È chiaro che lo spirito del nazionalismo iracheno è oggi ancora vivo e vegeto, e continua a essere un potente antidoto contro particolari affiliazioni religiose, etniche e tribali.

Ecco un po’ di luce alla fine del caotico tunnel iracheno. Questo ottimistico scenario – che la sicurezza dell’Iraq sarà mantenuta grazie a un’effettiva integrazione di milizie già esistenti e vecchie forze militari irachene - dipende in parte da un governo democraticamente sostenuto. Le elezioni previste per gennaio 2005 daranno al governo questa legittimazione. Pur essendo nel progetto originario di Lakhdar Brahimi, inviato delle Nazioni Unite, la creazione di un governo ad interim di tecnici che non avrebbero alcun interesse nel partecipare al governo eletto nel 2005 (e quindi non potrebbero venire accusati di manipolare le elezioni a proprio favore), le scelte iniziali di Brahimi - lo scienziato Hussain al-Shahristani e il vecchio diplomatico Adnan Pachachi - si dice siano state respinte dal Consiglio di Governo a favore di due suoi membri. Il Consiglio ha candidato un ex ufficiale del partito Ba’ath - capo dell’Iraqi National Accord e odiato rivale dal leader del Congresso Nazionale Ahmed Chalabi - a diventare Primo Ministro, e lo sceicco Ghazi al-Yawar, politico sunnita leader di una tribù, il quale indossa il copricapo tradizionale della propria terra adottiva, l’Arabia Saudita, a essere Presidente. Probabilmente i due si troveranno a concorrere per mantenere le proprie posizioni di potere dopo le elezioni di gennaio, se sopravviveranno politicamente e fisicamente fino ad allora.

C’è sfortunatamente un altro possibile scenario per il futuro politico immediato dell’Iraq, uno scenario più misero. È il fantasma della Falluja di aprile. È la prospettiva che il centro non resista, e che il paese vada in rovina. Una varietà di fattori potrebbe far precipitare la spirale - un assassinio politico, accuse di brogli elettorali, un’incursione militare, o un potere esercitato da una fazione piuttosto che da un’altra. Oppure potrebbe semplicemente verificarsi una triste degenerazione dell’autorità pubblica e dell’identità civica, un cupo spostamento dalla pubblica demoralizzazione a una diffusa disperazione personale. Il risultato potrebbe essere una contestazione in stile Somalia tra signori della guerra in una campo di battaglia segnato dall’anarchia civile.

Il ruolo delle forze della Coalizione guidata dagli Stati Uniti può determinare queste possibilità, e specialmente l’ultima. Si potrebbe sostenere che il problema non sta solo nelle politiche della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, che sono state così inefficienti - l’affidamento fatto su militari statunitensi e milizie private per la sicurezza; il rifiuto di permettere a ex esponenti del partito Ba’ath e agli amministratori della classe media di avere un ruolo nella ricostruzione del paese; e l’importanza data alla presenza di imprenditori privati nello sviluppo dell’infrastruttura economica irachena - ma anche nella mentalità con cui è stata gestita l’occupazione.

Il costante paternalismo dell’atteggiamento statunitense ha alimentato sia la sfiducia che l’umiliazione. Ho continuato a pensare a quella professoressa vestita in stile occidentale che avevamo incontrato nel vecchio centro di ricerca per gli affari internazionali di Saddam Hussein. La donna si sfogava contro l’occupazione americana. Era esattamente il tipo di persona su cui gli Stati Uniti avrebbero potuto fare affidamento per ricostruire un nuovo Iraq. Eppure si trattava di una persona profondamente disillusa e fortemente contraria alla presenza statunitense. «Ci aspettavamo qualcosa di meglio», aveva detto.

Il suo rancore era la voce di un Iraq che sente di essere usato in una specie di manipolazione politica globale studiata dall’apparato della Difesa e della Politica estera degli Stati Uniti. Pochi iracheni ritengono che gli Stati Uniti abbiano rovesciato il regime di Saddam per la salvezza dell’Iraq.
Il fatto che il presidente George W. Bush ricordi spesso che l’Iraq è la «prima linea» della «guerra contro il terrore» è, per gli iracheni, una dimostrazione di tutto ciò.

La «guerra contro il terrorismo» è vista come una fantasia americana, una guerra globale che oppone le forze del bene a quelle del male, il giusto allo sbagliato. Molti iracheni pensano che in quest’idea neo-conservatrice di confronto globale, l’intero mondo islamico sia percepito come un nemico. Paradossalmente, questa visione neo-cons è vista come una variazione della visione di Osama Bin-Laden di una guerra mondiale in un mondo in bianco e nero – e pochi iracheni approvano questo conflitto globale sostenuto da Al Qaeda.

L’effetto di questo modo di pensare basato sullo «scontro di civiltà», sul noi-contro-loro è la creazione di una dicotomia morale e sociale in cui tutti gli iracheni sentono di essere i potenziali nemici. Per molti iracheni, specialmente per coloro che rappresentano la classe media e ben istruita, tutto ciò non è solo sgradevole, ma è anche offensivo. Molti americani sono sorpresi nel vedere tanto anti-americanismo diffuso tra iracheni che altrimenti sarebbero simili a loro. Una delle singolari rivelazioni della rivolta di Falluja è il sostegno che la ribellione ha ricevuto da uomini d’affari e da membri dell’elite ben istruita e occidentalizzata che erano irritati dalla brutalità e dall’insensibilità dell’occupazione statunitense, in generale, e, in particolare, dall’incursione a Falluja.

Come ho scoperto nel mio studio comparato sul terrorismo religioso, l’esperienza dell’umiliazione è un’emozione potente, ed è forse il motore principale che muove molti atti di violenza. Paradossalmente, delle politiche statunitensi in Iraq, che sono state percepite come umilianti, si sono risentiti soprattutto coloro che avrebbero potuto simpatizzare con un punto di vista occidentale.

Quello che sta accadendo in Iraq è una prova decisiva per la nuova direzione dell’amministrazione Bush in politica estera. L’approccio di una«guerra contro il terrore» e la politica di un «attacco preventivo» segnalano entrambe una visione imperialistica in cui è chiaro quale dovrebbe essere il ruolo degli Stati Uniti nel mondo globalizzato del dopo Guerra Fredda. L’Iraq è un test per verificare la flessibilità di quest’idea. È diventato evidente che l’Iraq non può essere facilmente modellato in una piccola America. Qualunque idea possa essere balenata nelle teste di Richard Perle, Paul Wolfowitz e altri strateghi neo conservatori che immaginavano un Iraq baluardo di un nuovo Medio-Oriente democratico e filo-americano, essa è stata delusa. L’Iraq, in realtà, può anche emergere, magari con difficoltà e per tentativi, come una società orgogliosamente democratica e indipendente. Ma non sarà filo-americano. L’eredità delle disastrose politiche relative a sicurezza, amministrazione ed economia, portate avanti dagli Stati Uniti nel primo anno di occupazione, continueranno ad essere degli ostacoli per l’efficacia di qualsiasi nuovo governo iracheno per i tempi a venire. Inoltre anche il disprezzo per l’America, provocato negli iracheni dall’abito mentale che ha informato le politiche dell’occupazione, resisterà almeno per un po’ di tempo. Quando la guerra globale è un pensiero a senso unico, ahimè, quest’impostazione ha la capacità di creare nemici in tutta la società, anche dove, almeno alcuni, avrebbero potuto essere amici.


 

 

 

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