Lo scritto che segue è
stato pubblicato in allegato alla
rivista Reset (n. 84, luglio-agosto
2004), con una introduzione di Giuliano Amato. E' lo stesso testo che Amato ha citato durante il suo intervento in Senato nel dibattito del 9 marzo 2005 sulla morte di Nicola Calipari.
Rapporto Baghdad è il resoconto della partecipazione
a una sessione di studio svolta nella capitale irachena
tra il 5 e il 10 maggio '04 organizzato da Mary Kaldor
e Yahia Said del Center for Global Governance della
London School of Economics. Lo scopo delle giornate
di studio era quello di individuare le cause della
violenza religiosa in Iraq e il possibile ruolo delle
organizzazioni umanitarie nella ricostruzione del
paese.
La traduzione è di Martina Toti.
Viaggio a Baghdad
Come perdere la pace: istruzioni per l’uso
Il nuovo governo ad interim guidato da Iyad
Alawi e Aheik Ghazi al-Yawat dovrà lottare
contro qualcosa di più che mancanza di energia
elettrica e salari da pagare ai funzionari statali.
Come ho potuto constatare in un recente viaggio a
Baghdad, l’Iraq ha un urgente bisogno di ricostruzione
- non solo dalle miserie della lunga dittatura di
Saddam Hussein, ma anche dalle fallimentari politiche
di un anno di occupazione da parte dell’amministrazione
della Coalizione guidata dagli Stati Uniti la quale
ha lasciato una scia di demoralizzazione, umiliazione,
e debolezza sia dal punto di vista della sicurezza
che da quello delle infrastrutture economiche.
Tristemente, nella percezione di molti iracheni, gli
Stati Uniti hanno rilevato l’orribile aura di
una dittatura simile a quella di Saddam Hussein. Ciò
significa che il sostegno dato in passato alla Cia
dal Primo Ministro Iyad Alawi sarà un problema,
così come qualunque altro legame che Alawi
e i membri del nuovo governo intrattengono con l’America.
Anche se non potrà cancellare dal suo passato
il sostegno dato alla Cia, Alawi avrà bisogno
di dimostrare la sua indipendenza. Allo stesso tempo
lui e al-Yawar – che ha già mostrato
tutta la sua abilità nel prendere posizioni
anti-americane descrivendo i fatti di Falluja come
un «genocidio» operato dalle forze militari
statunitensi - dovranno rassicurare le autorità
americane per poter continuare a ricevere il loro
sostegno economico e militare. Non sarà facile,
specialmente dal momento che bisognerà smantellare
alcune delle attuali politiche militari, amministrative
ed economiche che la Coalizione ha disposto.
Come si è arrivati in questo «pantano»?
La conflittualità attuale è solo un
fenomeno passeggero o ha radici in problemi più
profondi, che perseguiteranno il nuovo governo ad
interim ed il governo che uscirà dalle elezioni
previste per il gennaio 2005? Queste sono le domande
a cui ho cercato di rispondere durante la mia recente
visita in Iraq. Quello che ho scoperto è stato
l’emergere di un virulento anti-americanismo
alimentato in larga parte dagli errori della Coalizione
stessa. Non solo le sue linee di condotta hanno rinfocolato
le ostilità anti-americane, esse hanno anche
favorito la possibilità che il nuovo governo,
che verrà eletto in Iraq, finisca per presiedere
su uno stato mancato.
Come gli Stati Uniti sono diventati il nemico
Un segno dell’atteggiamento degli iracheni nei
confronti dell’occupazione statunitense era
evidenziato dalla singolare reazione che essi avevano
avuto davanti alle recenti fotografie dei prigionieri.
Le terribili immagini di soldati americani che maltrattavano
prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, che
hanno attirato così tanto l’attenzione
del pubblico americano, hanno suscitato a stento una
qualche reazione in Iraq. Ero a Baghdad a maggio,
poco dopo l’uscita della notizia, ed anche se
le fotografie venivano continuamente mandate da Al
Jazeera – il canale che è di fatto l’unica
fonte di notizie televisive a Baghdad – ero
sconcertato nel rilevare che quelle immagini non stupivano
la maggior parte degli iracheni. Anche se disgustati
da ciò che veniva mostrato - voci di quelle
atrocità avevano circolato a Baghdad per mesi
- molti iracheni, con i quali avevo parlato, si aspettavano
un comportamento del genere da parte di quella che
tanti di loro consideravano una brutale forza d’occupazione.
Questa assenza di stupore la dice lunga sul modo in
cui gli iracheni sono arrivati a giudicare le forze
militari statunitensi - un anno fa liberatrici, oggi
occupanti. Alcuni iracheni hanno descritto quella
statunitense come una continuazione del tipo di oppressione
di cui avevano fatto esperienza sotto la dittatura
di Saddam Hussein. Alcuni la ritenevano anche peggiore.
«Saddam ci torturava e puniva fisicamente»
mi diceva un iracheno della classe media in un inglese
piuttosto chiaro. «Ma non cercava di umiliarci».
Perché l’occupazione statunitense è
così disprezzata dagli iracheni? Lo sdegno
è quasi generale. Lontano dall’essere
limitato a un piccolo gruppo di membri insoddisfatti
del partito Ba’ath, ho sentito esprimere questa
ribollente ostilità anti-americana da religiosi
sciiti, politici sunniti, e cittadini della borghesia
di formazione laica. Si tratta di un’avversione
all’occupazione americana che sembra profondamente
personale.
In un seminario tenuto nel vecchio centro di ricerca
per gli affari internazionali di Saddam Hussein, Bavtal-Hikma
(«La Casa della Saggezza»), una docente
di scienze politiche dell’università
di Baghdad, in un inglese notevolmente articolato,
ha aperto le sue osservazioni, dopo il mio discorso
sul generale aumento della violenza religiosa, con
alcuni pungenti commenti su come l’incapacità
della forza militare statunitense nel chiudere i confini
dell’Iraq abbia reso possibile agli attivisti
islamici radicali di entrare nel paese dall’esterno.
Con un tono di voce crescente, la professoressa, astutamente
acconciata con un taglio di capelli moderno, ha iniziato
ad elencare gli altri problemi causati dalle truppe
americane, finendo con l’accusare gli Stati
Uniti di essere i responsabili della maggior parte
delle rivolte e delle violenze religiose verificatesi
nell’ultimo anno. Dopo la caduta di Saddam Hussein
– diceva - «Noi avevamo grandi aspettative»
riguardo i cambiamenti democratici ed economici che
sarebbero avvenuti, «ci aspettavamo qualcosa
di meglio». Ma adesso, affermava aspramente,
«è peggio». Gli Stati Uniti si
comportano «come i terroristi» che loro
stessi disprezzano.
L’Iraq è, ovviamente, un paese occupato.
Perciò è comprensibile che molti iracheni
non sopportino le truppe d’occupazione e siano
ansiosi di vederle lasciare il paese. Tuttavia, le
forze militari statunitensi sono state in Germania
e in Giappone per anni dopo la seconda guerra mondiale
e molti tedeschi e giapponesi hanno tollerato l’occupazione
con un cupo rancore al peggio, e con profondo apprezzamento,
al meglio. Alcuni soldati statunitensi sposarono allora
donne del posto e portarono le loro mogli a casa.
È improbabile, invece, che ci siano matrimoni
misti a Baghdad.
L’invasione statunitense dell’Iraq ha
proceduto velocemente e, per molti iracheni, l’esperienza
della guerra è stata più difficile dopo
la caduta di Saddam Hussein che prima. Per quanto
sia stato inflessibile e dittatoriale il regime di
Saddam Hussein, i nuovi problemi – l’instabilità
dell’ordine pubblico, lo sciacallaggio, i bombardamenti,
e i costanti segni della presenza militare straniera
- sono tutti aspetti della vita del dopo-Saddam. L’incursione
militare statunitense a Falluja e il bombardamento
di Najaf per stanare le milizie di Muqtada al Sadr
sono state tristi episodi di una guerra di cui molti
iracheni non avevano mai avuto esperienza in precedenza.
In questo senso è comprensibile che tanti di
loro non considerino l’entrata delle truppe
americane come il segnale della fine delle ostilità,
ma, in modo piuttosto paradossale, del loro inizio.
Adesso, gli iracheni stanno aspettando che questa
guerra finisca.
Oltretutto, molti iracheni sono ancora sotto shock
per la fine di Saddam Hussein. «Avremmo potuto
liberarci di lui da soli» si lamentava un ex
funzionario statale, spiegando che gli Stati Uniti
erano stati ingannati da quello che lui definiva il
«mito del potere di Saddam». Secondo il
suo punto di vista, Saddam Hussein, per incutere timore,
voleva che il mondo – e in particolar modo il
popolo iracheno - credesse che lui fosse in possesso
di armi di distruzione di massa. In realtà
diceva il funzionario, Saddam era piuttosto vulnerabile,
come la veloce vittoria delle truppe americane ha
evidenziato. Il funzionario era quasi confuso dal
fatto che l’esercito di Saddam Hussein fosse
crollato così facilmente. Era ancora più
confuso per il fatto che lui e il popolo iracheno
non erano stati coinvolti nella liberazione dell’Iraq.
Quest’ex funzionario, Mowfaq al-Taey, era stato
escluso non solo dalle operazioni per far cadere il
regime di Saddam ma anche dalla ricostruzione dell’Iraq
– e quest’ultima esclusione lo toccava
più profondamente della prima. Nel vecchio
regime era stato uno degli architetti di Saddam, responsabile
del progetto di molti palazzi del rais, di moschee
e di altri imponenti edifici pubblici. È ancora
orgoglioso dei suoi lavori, anche se accusa Saddam
per alcuni arabeschi architettonici aggiunti ai suoi
disegni – come i minareti a forma di lanciarazzi
che vennero aggiunti al suo progetto per l’imponente
moschea «Madre di tutte le battaglie»,
che doveva commemorare la presunta vittoria dell’Iraq
contro gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo.
Oggi al-Taey ha ancora il suo spazioso appartamento
vicino a quello che era il palazzo presidenziale,
nell’attuale zona verde – l’area
protetta, occupata dalle forze della Coalizione, che
ospita il quartier generale del Consiglio di Governo.
Dal momento che non aveva mai acconsentito ad unirsi
al partito Ba’ath, «Non possono sbattermi
fuori», diceva, sostenendo che agli americani
potrebbe fare molto piacere utilizzare i quartieri
progettati da lui per ospitare i funzionari della
Coalizione. Ogni giorno passando per i checkpoint
attraversa le solite strade di Baghdad, camminando
verso il quartier generale di un’organizzazione
irachena per i diritti umani dove lavora come volontario.
Ma il suo talento di architetto non è stato
utilizzato per la ricostruzione dell’Iraq, mentre
imprenditori stranieri sono stati impiegati allo scopo.
L’esperienza di questo architetto iracheno è
paradigmatica dei problemi creati non solo dall’occupazione
in sé, ma anche dalle linee di condotta specifiche
che sono state adottate dagli Stati Uniti nell’amministrare
la ricostruzione dell’Iraq durante quest’ultimo
anno. Alcune di queste sono il risultato di una sostanziale
ignoranza della società irachena, altre sono
dovute al pregiudizio ideologico del governo statunitense.
Si tratta, in ogni caso, di errori catastrofici che
hanno portato non solo a un senso di frustrazione
e umiliazione diffuso tra il popolo iracheno ma anche
a situazioni pericolose riguardo la sicurezza, l’amministrazione,
e l’economia che peseranno sul nuovo governo
del Paese nei mesi a venire, e forse per anni.
Errori nel settore della sicurezza
Uno dei primi errori è stata la scelta statunitense
di sciogliere l’ex esercito iracheno e di rifiutare
di reintegrarlo nelle nuove forze di sicurezza che
sono state create per sostituirlo. Anche se a un piccolo
numero di soldati semplici, non inseriti in forze
speciali, è stato permesso di fare domanda
per entrare nel nuovo esercito e nelle forze di difesa
civile, solo una frazione dei 400.000 soldati di Saddam
è stata reintegrata e persino a questi soldati
è stato richiesto un nuovo addestramento. Non
c’è bisogno di dirlo, ci vuole molto
tempo per trovare candidati capaci e per assumere
e addestrare un nuovo esercito e nuovi corpi per la
difesa civile; dopo un anno si è solo all’inizio.
Questa scelta ha avuto due terribili conseguenze:
l’onnipresenza dell’esercito statunitense
nelle strade di Baghdad e delle altre città
irachene, e l’emergere di forze di sicurezza
private - spesso composte dal vecchio personale militare
iracheno rimasto disoccupato - come milizie indipendenti
assoldate dai partiti politici, dalle imprese e da
privati cittadini. Il vecchio esercito di Saddam era
non solo ben addestrato ma notevolmente vario - integrava
diversi gruppi sunniti, sciiti e curdi. Ma queste
truppe sono state scartate nel tentativo di creare,
alla meglio, nuove forze armate, e nel frattempo l’autorità
della Coalizione ha dovuto fare affidamento sulle
truppe americane per mantenere la sicurezza nel Paese.
Appena si arriva all’aeroporto internazionale
di Baghdad ci si trova davanti alla vista carri armati
e jeep onnipresenti che hanno finito per essere il
simbolo tangibile della presenza militare statunitense.
È un aspetto della vita nell’Iraq moderno
che aumenta tanto più ci si avvicina all’epicentro
del potere americano a Baghdad: la zona verde. Il
nostro gruppo risiedeva in un piccolo albergo fuori
dalla zona fortemente protetta dove molti americani
e altri funzionari della Coalizione vivono e lavorano,
ma in un’occasione avevamo deciso di incontrare
dei funzionari dell’Autorità Provvisoria
della Coalizione e del Consiglio di Governo ed avevamo
bisogno di entrare.
Gli americani e gli altri stranieri che lavorano nella
zona verde raramente si avventurano fuori, e quando
noi abbiamo cercato di entrare siamo dovuti passare
attraverso svariati checkpoint militari,
tutti gestiti da truppe statunitensi. Di strada verso
la zona verde, siamo stati fermati da convogli di
soldati americani alla ricerca di ribelli che si riteneva
guidassero un’automobile molto simile ad una
delle nostre. Molti soldati americani piantonavano
l’ingresso della zona verde per controllare
i nostri passaporti e il nostro equipaggiamento. Mentre
i giovani soldati controllavano le telecamere e ci
facevano cancellare dalle foto-camere le fotografie
dei checkpoint, abbiamo discusso della loro
situazione. I soldati erano stati nella Guardia Nazionale
a Seattle e a Riverside, in California, e adesso trascorrevano
la notte nel Centro Congressi all’interno della
zona verde, con l’obbligo di arrotolare i loro
materassi tutte le mattine in modo che quella camera
da letto collettiva potesse essere utilizzata durante
il giorno per i meeting. Ci hanno mostrato
il loro pesante equipaggiamento – circa 26 chilogrammi
di materiale a prova di proiettile - e ci hanno espresso
la loro apprensione per i mesi a venire, con il terribile
caldo estivo alle porte. Sarebbero dovuti tornare
a casa un mese prima del nostro incontro, ma la data
era stata cambiata all’improvviso, un fatto
di cui avevano aspramente risentito. Inoltre erano
consapevoli di essere degli obiettivi sensibili, dal
momento che si trovavano alla periferia della zona
verde e piantonavano i checkpoint, frequentemente
presi di mira sia dal fuoco dei mortai che dalle autobomba.
Proprio il giorno precedente, c’era stata un’enorme
esplosione davanti al cancello adiacente alla zona
verde, un attacco suicida con un’autobomba che
aveva ucciso sei iracheni incluso l’autista.
In quell’occasione, comunque, nessun soldato
americano era rimasto ucciso. Ma i soldati sapevano
quanto fossero vulnerabili. Dicevano di poter «sentire
l’odio» negli occhi degli iracheni che
guardavano i convogli di jeep guidati da loro, che
tenevano le dita pronte sul grilletto, attraverso
le strade di Baghdad. Sentivano di avere quasi dei
bersagli dipinti sulle loro schiene.
All’interno della zona verde ci eravamo accordati
per incontrare il Ministro della Difesa del Consiglio
di Governo. Anche se l’intera area era apparentemente
protetta, c’erano guardie militari all’ingresso
dell’edificio che temporaneamente ospita il
Ministero della Difesa. Si trattava di membri dei
nuovi corpi iracheni di difesa civile. Indossavano
uniformi pulite e ordinate, e vivaci berretti blu:
ci hanno salutato sorridendo mentre entravamo nell’edificio.
Ho fatto presente l’incongruenza di questa situazione
al Ministro della Difesa, Ali Alawi – un parente
di Iyad Alawi, un altro membro del Consiglio di Governo
che è stato successivamente designato Primo
Ministro del governo ad interim. Come Iyad, Ali Alawi
era un iracheno esule, che era stato un uomo d’affari
a Londra prima di tornare a Baghdad ed essere nominato
nel Consiglio di Governo. Perché, gli ho chiesto,
il suo ufficio privato nella zona verde, sicura, è
protetto dalle nuove truppe irachene quando i soldati
americani sono messi nella posizione provocatoria
di pattugliare le strade e gestire i checkpoint?
Alawi ha risposto che i nuovi corpi di difesa non
erano ancora pronti a pattugliare le strade. Pressato,
ha affermato che c’era un cospicuo gruppo di
soldati iracheni - 30.000 - attualmente in addestramento,
che sarebbero stati pronti in circa tre mesi. Molti
osservatori, comunque, sostengono che il numero delle
forze di sicurezza irachene completamente addestrate
e attive (esercito, corpi di difesa, guardie di frontiera),
a metà aprile 2004, si aggirasse intorno alle
6.000 unità, con diverse altre migliaia in
addestramento. Secondo il «New York Times»
circa la metà delle truppe irachene si è
dimesso nell’arco di sei mesi per protesta contro
i salari bassi e le condizioni pericolose. Anche se
adesso c’è un numero significativo di
poliziotti iracheni in addestramento – 20.000,
secondo una relazione del Pentagono del marzo 2004
- ci sono molte meno forze addestrate militarmente.
Chiaramente l’impresa di trovare, addestrare,
e mantenere al proprio servizio le truppe è
impegnativa, e richiederà più tempo
di quanto si prevedeva inizialmente. Pur difendendo
il principio di sciogliere il vecchio esercito iracheno,
Alawi ha comunque ammesso che l’attuale difficoltà
nel provvedere alla sicurezza del paese è il
risultato di «una certa teoria della sicurezza
che non ha avuto alcun risultato». Inoltre,
ha affermato che alcune delle vecchie truppe potevano
essere ricostituite in nuove forze di sicurezza nel
giro di mesi.
Cosa che, tuttavia, non era accaduta, e nell’ultimo
anno le truppe degli Stati Uniti e della Coalizione
sono stati gli strumenti primari per provvedere alla
pubblica sicurezza. Baghdad non è una città
molto sicura ad oggi, dati i saccheggi diffusi, le
ruberie, i rapimenti, le sparatorie e i bombardamenti
dei ribelli. È comprensibile che le autorità
della Coalizione vogliano dare una garanzia di sicurezza
in modo da dissaduere anche coloro che possono essere
tentati di infrangere l’ordine pubblico. Eppure
alcuni metodi adottati per dare un senso di sicurezza
alla popolazione sembrano aver avuto un effetto opposto.
Sono trasalito, per esempio, nell’immaginare
come potevano apparire i continui convogli di tre
o più veicoli armati che girano per le strade
trafficate del centro di Baghdad. La nostra automobile
semplice, senza nessun segno distintivo e senza scorta,
sarebbe stata spinta al lato della strada assieme
a tutte le altre automobili mentre quei convogli minacciosi
avrebbero rimbombato passando oltre. Fissata sul tetto
di metallo di ogni jeep ci sarebbe stata una mitragliatrice
impugnata da un giovane soldato americano molto nervoso
la cui sola protezione, mentre controllava il traffico,
sarebbe stata il suo elmetto. Velocemente avrei messo
via la telecamera per paura che potesse essere scambiata
per un’arma. Il mio pensiero correva a quel
giovane soldato vulnerabile che mi faceva venire in
mente molti studenti delle mie classi californiane.
Allo stesso tempo intuivo l’umiliazione che
gli iracheni devono avvertire nel vivere in quello
che sembra essere un campo militare. Potevo intuire
l’umiliazione facilmente fino a sentirla profondamente
mia.
I convogli sembravano essere onnipresenti, e c’erano
anche pattuglie a piedi. Una notte, tardi, ho visto
un gruppo di circa venti soldati americani che orinavano
in mezzo alla strada proprio sotto la finestra della
mia stanza d’albergo; per un breve momento mi
sono sentito quasi come facessi parte del nemico.
Era una sensazione acuita dai molti checkpoint,
che avevo visto, dove giovani americani che non parlano
l’arabo controllavano i passaporti degli stranieri,
come me, e le carte d’identità dei cittadini
iracheni. Spesso i soldati gridavano nervosamente
ordini in inglese agli automobilisti iracheni come
se il solo volume delle loro voci potesse trasmettere
il significato delle parole. Era facile capire quanti
iracheni potevano sentirsi prigionieri nel loro stesso
Paese. L’incursione statunitense a Falluja nell’Aprile
2004 è stata percepita da tanti iracheni non
come un tentativo giustificato di sradicare un piccolo
gruppo di ribelli anti-americani ma come un’estensione
del controllo militare americano dal pugno di ferro,
di cui loro avevano già esperienza nella propria
quotidianità. I media americani hanno presentato
l’incursione a Falluja come una reazione alla
ripugnante uccisione di 4 guardie di sicurezza private
di nazionalità americana e allo scempio dei
loro cadaveri. Come molti iracheni sapevano, invece,
la folla accanita, che aveva attaccato l’automobile
dei quattro, era infiammata a causa di diversi soldati
americani che, per via delle loro dita pruriginose,
avevano fatto fuoco sui manifestanti che stavano protestando
contro l’uccisione, da parte del governo israeliano,
del leader palestinese, lo sceicco Ahmed Yassin. Quindi,
anche se pochi iracheni approvavano il modo selvaggio
in cui gli uomini della sicurezza erano stati uccisi,
condividevano ancora meno l’assalto militare
alla città che ne era seguito.
I ribelli di Falluja erano ampiamente appoggiati nell’area
sunnita, e diversi religiosi sunniti hanno cercato
di aiutarci a capire perché hanno difeso la
posizione anti-americana dei ribelli. Erano membri
del Consiglio Iracheno dei Religiosi Sunniti, e avevano
acconsentito a riceverci nell’opulenta moschea
di Baghdad progettata dall’architetto che già
avevo incontrato, Mowfaq al-Taey — quella moschea
fatta costruire da Saddam Hussein per celebrare la
«vittoria» irachena sugli Stati Uniti
nella «Madre di tutte le Battaglie», la
prima guerra del Golfo. La moschea ha continuato a
rappresentare il simbolo del potere politico dei sunniti
e il centro della resistenza anti-americana. Due settimane
prima della nostra visita, ad esempio, era stata il
luogo di incontro per un raduno di duecentomila iracheni
contrari all’occupazione statunitense. I religiosi
che abbiamo incontrato hanno paragonato la difesa
di Falluja da parte dei ribelli alla difesa della
casa fatta dal padrone contro un ladro. Secondo i
religiosi sunniti, gli americani erano degli estranei
che avevano fatto irruzione nella loro casa. Anche
se molto è stato detto dai media statunitensi
riguardo gli integralisti islamici provenienti da
altri paesi arabi – si è parlato, ad
esempio, dei violenti attacchi perpetrati dal giordano
Musab al-Zarqawi e dai seguaci di Al Quaeda - i religiosi
sunniti li ritenevano degli estranei che avevano fatto
preda della debolezza dell’Iraq. Le loro azioni,
dicevano, erano simili a opportunistiche infezioni
che avevano invaso il corpo già devastato dell’Iraq.
I religiosi sunniti incolpavano gli Stati Uniti per
gli attacchi degli integralisti islamici: gli Stati
Uniti non avevano, infatti, saputo controllare sufficientemente
i confini iracheni, dicevano, e perciò avevano
creato essi stessi quella situazione di diffusa ostilità
che aveva incoraggiato lo scoppio delle violenze.
Qualsiasi ruolo quegli stranieri avessero giocato
a Falluja era quindi il risultato della condotta americana.
Piuttosto che dare agli iracheni un senso di sicurezza,
secondo i religiosi sunniti, l’assalto militare
a Falluja era sembrato piuttosto un’estensione
della guerra americana contro l’Iraq –
una guerra che molti iracheni sempre più percepivano
essere stata combattuta non solo contro il regime
di Saddam ma contro il loro popolo. Per questo motivo,
anche i tentativi statunitensi di portare a giustizia
il fuggitivo religioso sciita Muqtada al-Sadr sono
stati così ampiamente condannati in Iraq. Non
che al-Sadr godesse di un ampio sostegno: aveva solo
un piccolo ma rumoroso manipolo di seguaci. Il suo
giornale, che l’amministrazione della Coalizione
ha bandito – facendo così precipitare
il confronto tra le milizie di al-Sadr e le forze
militari statunitensi che sostengono la Coalizione
– aveva una diffusione di soli 2.000 lettori.
E pur venendo da una celebrata famiglia sciita (suo
zio era stato uno dei fondatori del partito sciita
Da’awa), Muqtada era considerato, nel migliore
dei casi, un attaccabrighe arricchito e, nel peggiore,
un farabutto criminale. Molti iracheni con i quali
ho parlato lo credevano capace dei crimini di cui
veniva accusato, inclusa l’organizzazione dei
delitti dei suoi oppositori sciiti. Ciò nonostante,
non approvavano l’assalto militare americano
contro al-Sadr e le sue milizie. Ho discusso di questo
caso con Jala al-Mashda, l’editore del giornale
sostenuto dal Partito Democratico Indipendente Iracheno
guidato da Adnan Pachachi (ex Ministro degli Esteri
iracheno e avversario di Saddam, a cui – si
dice - era stata offerta la presidenza del nuovo governo
ad interim che lui avrebbe rifiutato). Al-Mashda è
un cittadino ben educato, e un osservatore politico
laico che è stato un appassionato sostenitore
di un Iraq democratico e indipendente. Non aveva alcun
legame con al-Sadr e i suoi estremisti militanti,
ma non appoggiava l’assalto militare degli Stati
Uniti nei loro confronti, specialmente dal momento
che aveva implicato incursioni nelle città
sacre degli sciiti di Garbala e Najaf. «Perché
- l’editore si domandava - gli Stati Uniti non
aspettano che il nuovo governo iracheno si sia stabilito
per lasciargli il compito di risolvere i problemi
di giustizia e ordine pubblico?». A infastidire
Al Mashda, come molti altri iracheni con cui ho parlato,
era il fatto che le forze militari statunitensi fossero
così profondamente coinvolte in questioni di
pubblica sicurezza e giustizia che dovrebbero essere,
invece, di dominio di autorità irachene indipendenti.
La ragione per cui gli Stati Uniti sono stati così
profondamente coinvolti nelle questioni quotidiane
della sicurezza, della giustizia e dell’ordine
pubblico è stata che non c’era nessun
altro che potesse farlo. Pochissimi membri del vecchio
esercito iracheno, adesso licenziato e screditato,
sono stati riassorbiti dalle nuove forze di difesa
irachene. Ma, dal momento che avevano comunque le
capacità – e spesso anche le loro vecchie
armi – tanti di loro sono stati assunti come
guardie private in un paese alla disperata ricerca
di una forza di sicurezza qualsiasi. Di fatto ogni
partito politico, ogni impresa di grandezza significativa,
e ogni organizzazione operante in Iraq hanno creato
una propria forza di sicurezza, spesso formata assumendo
uomini che erano appartenuti all’ex esercito
iracheno. Nel caso dei partiti politici essi mostrano
spesso un appassionato senso di lealtà verso
la propria ideologia politica e religiosa, come i
militari statunitensi hanno scoperto combattendo contro
le milizie di Muqtada al-Sadr. Molti di questi eserciti
privati si sono formati lo scorso anno. Si tratta
di un nuovo fenomeno - Saddam non avrebbe mai permesso
a questi eserciti in miniatura di sfidare il proprio
monopolio di forza. Ma adesso a causa delle scelte
della Coalizione, che ha deciso di non ricostruire
velocemente un esercito iracheno che avesse una forza
sufficiente a provvedere alla sicurezza domestica,
il Paese è stato invaso da questi micro-eserciti.
Adesso i tempi sono maturi per lo scoppio di piccole
guerre in stile Somalia o Afghanistan tra signori
della guerra rivali. Tutto ciò mette ancora
più nei guai l’esercito statunitense.
La sua costante presenza fa aumentare la rabbia della
popolazione e posticipa la data in cui le forze irachene
saranno in grado di rimpiazzare quelle statunitensi.
Eppure non si può nemmeno lasciare l’Iraq
all’improvviso, dal momento che uno sgonfiamento
rapido del potere centrale farebbe precipitare il
Paese in un olocausto di anarchia militare, causato
da una pletora di milizie indipendenti.
Gli errori nel settore dell’amministrazione
Un’altra serie di errori provocati dalle scelte
della Coalizione in Iraq nel settore dell’amministrazione
presenta delle somiglianza con la serie di errori
commessi nel campo della sicurezza: gli Stati Uniti
hanno, infatti, assunto il ruolo dell’amministrazione
di governo proprio come hanno fatto con la difesa
militare.
Questa scelta ha avuto l’effetto di incidere
negativamente sullo status di molti esponenti della
classe media irachena e di escluderli da un ruolo
attivo nella ricostruzione dell’Iraq. La decisione
più problematica è stata presa subito
dopo la nomina di Paul Bremer a governatore dell’Iraq
quando si è stabilito di non re-impiegare come
funzionari statali coloro che avevano aderito al vecchio
partito Ba’ath di Saddam. Una scelta politica
collegata a questa e altrettanto problematica è
stato il pesante affidamento fatto su operatori stranieri
per addestrare gli iracheni e costruire una nuova
struttura di governo compatibile con l’ideale
americano di organizzazione governativa.
La nostra visita nella zona verde di Baghdad ha rivelato
alcune conseguenze derivate da entrambe queste scelte.
Gli uffici dell’Autorità provvisoria
della Coalizione e i Ministeri del Consiglio di Governo
si trovano tutti nell’area protetta - ovvero
in quell’area che ospitava uno dei palazzi presidenziali
di Saddam, le case di molti altri ufficiali di alto
livello del partito Ba’ath, l’altissimo
hotel al-Rashid, e molti degli uffici centrali dell’amministrazione
irachena. Era stato il luogo degli attacchi shock-and-awe
visti dal vivo in tutto il mondo grazie alla Cnn e
alle altre televisioni straniere che si erano piazzate
sulla terrazza dell’albergo Palestine il quale
si trova proprio dall’altra parte del Tigri
nel centro di Baghdad. Oggi la zona verde è
un’area pesantemente militarizzata, piena di
giardini infestati dalle erbacce, di edifici devastati
dalle bombe e con le strade vuote popolate solo da
soldati della Coalizione e amministratori statunitensi
e inglesi che si sono stabiliti in uffici temporanei
e vivono in roulotte circondate da barricate di sacchi
pieni di sabbia.
Al tempo di Saddam, ogni cosa di una certa importanza
accadeva qui, in questo spazio centrale. Sfortunatamente,
anche oggi.
A tutti gli effetti, l’Autorità Provvisoria
della Coalizione è stata l’unica struttura
amministrativa in Iraq dall’Aprile del 2003.
Pur essendo ogni ministero guidato da un membro iracheno
del Consiglio di Governo, ogni ministro conta su un
consigliere – in genere un amministratore americano
o inglese. E, alla fine, la responsabilità
di decidere si ferma sulla scrivania del capo dell’Amministrazione
della Coalizione, Paul Bremer. La nostra ospite a
Baghdad, Hanaa Edwards, a capo dell’organizzazione
irachena per i diritti umani Al-Amal, ci ha raccontato
di un incontro che lei e altre donne irachene, preoccupate
per i diritti delle donne, avevano avuto di recente
con Bremer. Ha riferito che Bremer era stato piuttosto
gentile fino a che non lo avevano pressato su alcune
questioni pratiche come i salari delle donne e il
diritto di divorziare. Sembrava irritato dall’essere
considerato responsabile di particolari del genere
— una risposta che sosteneva di aver già
dato ad altri iracheni che si erano lamentati con
lui riguardo i blackout elettrici e la lentezza con
cui procede la ricostruzione. «Ma allora - si
chiedeva Hanaa - se non è lui il responsabile,
chi altro lo è?».
Entrare nella zona verde significa entrare in un regno
di potere, ma si tratta in maniera evidente, quasi
palpabile, di un potere tutto americano. Come ho detto,
a controllare i checkpoint agli ingressi
pedonali dell’area è personale militare
americano. A causa della frequenza di attacchi con
autobomba, pochissime automobili possono entrare.
Allo stesso tempo pochissimi dei veicoli che si trovano
all’interno della zona verde hanno il permesso
di uscirne. L’autista che guidava la nostra
automobile ci ha lasciato in una strada trafficata
proprio di fronte a una delle entrate, mentre noi
ci guardavano nervosamente attorno per assicurarci
di non essere nella traiettoria di qualche cecchino.
Ci siamo fatti strada attraverso recinzioni di filo
spinato e barricate di sacchi pieni di sabbia, siamo
stati perquisiti da giovani soldati americani che
hanno controllato i nostri passaporti de esaminato
i nostri bagagli.
Siamo stati, poi, accolti dal nostro ospite, Paul
Sholte, un diplomatico inglese che lavorava per la
Coalizione come consigliere per il Ministero della
Difesa. Ci siamo arrampicati a bordo del suo pick-up
bianco che essenzialmente era servito come una sorta
golf-cart fino a che non gli era più stato
permesso di lasciare la zona. Nemmeno a Paul, insomma,
era permesso. Ci ha detto con un certo rammarico che
noi avevamo visto più cose di Baghdad di quante
ne avesse viste lui nei sei mesi trascorsi in Iraq.
Non era stato affatto incoraggiato a lasciare la zona,
diceva, e se avesse voluto farlo avrebbe dovuto ottenere
un permesso scritto ed essere scortato da un convoglio
militare. Al contrario, noi eravamo andati dappertutto
attraverso la città in automobili prive di
qualunque segnalazione e senza nessuna scorta, fatta
eccezione per il buonsenso dei nostri autisti.
Avevo incontrato Sholte diversi mesi prima del mio
viaggio a Baghdad quando entrambi avevamo preso parte
a un seminario promosso dalla Nato sul terrorismo,
che si era tenuto a Praga. Lo sapevo una persona riflessiva
e sensibile e mi ero chiesto come fosse riuscito ad
andare d’accordo con la sua controparte americana
nel team dei consiglieri della Coalizione. «È
stato frustante», diceva con rassegnazione,
con un tono che suggeriva che, dietro questa semplice
espressione, ci fossero molte storie non dette. La
burocrazia della difesa statunitense non era abituata
a discutere, affermava Paul, quanto piuttosto ad accettare,
senza chiedere spiegazioni, qualunque direttiva che
venisse data da Washington. Inoltre le informazioni
non tornavano facilmente indietro da Baghdad attraverso
i «passaggi segreti» del comando. La zona
verde aveva un chiaro sapore americano. Anche se c’era
un’infarinatura di inglesi con i loro allegri
berretti, e di australiani con i loro inconfondibili
copricapo, molti dei militari e dei civili che abbiamo
incontrato lì erano americani. Sembravano provenire
soprattutto dal Sud - da stati come la Virginia, la
Louisiana, e il Texas. C’erano davvero pochissimi
iracheni. Le scritte erano tutte in inglese e i messaggi
chiaramente indirizzati a lettori americani. Una delle
più frequenti portava un messaggio motivazionale:
«Cosa hai fatto oggi per il popolo iracheno?».
Una donna irachena del nostro gruppo, Yahia Said,
ha posato con tristezza affianco a uno di questi manifesti
mentre io le scattavo una fotografia.
Una volta abbiamo incontrato il Ministro della Difesa,
Ali Alawi, che era anche il Ministro del Commercio.
Pur essendo iracheno, aveva vissuto per circa trent’anni
a Londra e parlava con un eccellente accento britannico.
Oltre ad aver discusso delle questioni relative alla
sicurezza - di cui ho già riferito in questo
testo - Alawi ha espresso una certa impazienza rispetto
alla lentezza con cui procede la ricostruzione del
Paese. Tuttavia, pur ammettendo che le scelte della
Coalizione nell’ultimo anno possono non essere
state sempre appropriate, sembrava attribuire la responsabilità
più grande al popolo iracheno. Sotto Saddam
era stato ridicolizzato, intimorito, e ora era, in
un certo senso, preoccupato per il cambiamento. La
società irachena, diceva, era dominata «dalla
politica della paura, non dalla politica della speranza».
Dopo Alawi, abbiamo incontrato diversi americani che
erano stati assunti dall’Autorità Provvisoria
per addestrare nuovi funzionari per il Ministero della
Difesa. Il loro compito era, in un certo senso, di
«indottrinare» le nuove reclute irachene
con la «politica della speranza».
Davano anche lezioni pratiche su come gestire la burocrazia
di un Dipartimento della Difesa moderno ed efficiente,
alla maniera americana. Dal momento che il vecchio
governo di Saddam aveva un enorme apparato di Difesa
che gestiva un esercito di circa 400.000 soldati sembrava
ragionevole che almeno alcuni aspetti della vecchia
struttura venissero riabilitati. Sarebbe stato utilizzato
qualcuno dei vecchi impiegati e i loro uffici? Mi
è stato detto di no, la vecchia struttura amministrativa
veniva completamente abbandonata per iniziare tutto
da capo. Come i vecchi edifici nelle città
americane, quello amministrativo era considerato troppo
costoso da ristrutturare. Doveva essere distrutto
e costruito di nuovo.
Gli americani che si erano assunti questa responsabilità
sembravano piuttosto sicuri di centrare l’obiettivo.
Dopo tutto, lo avevano già fatto diverse altre
volte in varie parti del mondo. Erano professionisti
associati alla Military Professional Resources International
(Mpri), una compagnia americana formata in massima
parte da ex personale militare statunitense assunto
con regolare contratto, un po’ in tutto il mondo,
per fornire servizi di consulenza in merito a questioni
di sicurezza e difesa. Spesso, come nel caso dell’Iraq,
si trattava di lavoro organizzato da agenzie governative
americane.
L’Mpri molte volte fornisce sia servizi di consulenza
sulla sicurezza che servizi per l’addestramento
militare, ma in questo caso il compito era quello
di addestrare nuovi funzionari che avrebbero poi formato
il Ministero della Difesa iracheno. Tra gli istruttori
dell’ Mpri che abbiamo incontrato nella zona
verde c’erano anche due ex ufficiali dell’esercito
americano. Sue Dueitt, una sorridente bionda della
Virginia che, in una vita passata, avrebbe potuto
essere un hostess o un’infermiera. Ma che in
questa vita aveva servito l’esercito, arrivando
al grado di generale di brigata, prima di ritirarsi
anzi tempo e unirsi all’Mpri. Il suo collega,
Ronald Alcala, originario del Sud della California,
era stato pure lui un militare – nel suo caso
penso si trattasse – credo – di un comandante
d’armata. A dispetto dei loro gradi, ci hanno
invitato a chiamarli semplicemente Sue e Ron. La loro
aula era in un ben illuminato edificio temporaneo,
aveva un mattonato lucido e brillante, pareti bianche,
e scrivanie di metallo disposte a forma di U davanti
a una parete coperta di lavagne e grafici. Disponeva
anche di uno schermo per le immagini progettate al
computer in power point che venivano utilizzate nei
seminari. Sue e Ron ci hanno mostrato copie del manuale
che viene dato a chi frequenta il loro corso, stampato
in inglese e accompagnato da una traduzione in arabo.
Il manuale sembrava essere formato, in realtà,
da stampe delle presentazioni in power point che venivano
proiettate durante le lezioni. Gran parte del testo
era ordinato in elenchi puntati, con delle linee che
collegavano gli infographics l’uno all’altro.
Ol-
tre a queste lezioni a Baghdad il gruppo di «studen-ti»
era stato portato al Dipartimento della Difesa di
Washington Dc e aveva partecipato ad una speciale
sessione di addestramento in Giordania.
Sue e Ron erano certi di ottenere un eccellente risultato
durante le loro lezioni dato che già ne avevano
tenute in molti paesi – come la Bosnia, la Colombia,
la Romania, l’Angola e l’Afghanistan.
Noi abbiamo ironicamente definito questi corsi «Il
Ministero della Difesa in un unico tomo». Sue
e Ron hanno accettato di buongrado, ammettendo che
il loro era, in un certo modo, una sorta di kit, ma
un kit che, pensavano, potesse essere universalmente
applicabile. Non c’era nessun bisogno, dicevano,
di adattarlo a seconda delle circostanze. Quello lo
avrebbero potuto fare successivamente le persone che
avevano seguito le lezioni. Il lavoro dell’
Mpri era quello di addestrare sulle nozioni fondamentali
che informano le organizzazioni di difesa ovunque.
Un paio di volte durante la conversazione, Sue si
era inavvertitamente riferita all’Iraq parlando
di Iran, ed era sembrato che avesse difficoltà
a identificare i paesi confinanti. Tuttavia, Sue riteneva
di aver ben compreso cosa non funzionasse nella vecchia
struttura di difesa di Saddam Hussein grazie alle
descrizioni che ne erano state date da alcuni dei
suoi «studenti».
Spesso alcuni candidati erano stati nominati dai membri
del Consiglio di Governo e i nomi erano passati al
vaglio del consulente della Coalizione, ma alcuni
di loro si erano presentati spontaneamente e avevano
mostrato le loro referenze con la speranza di trovare
un impiego. Molti avevano corso grandi rischi personali
rendendosi disponibili a lavorare con la Coalizione
guidata dagli Stati Uniti – ci raccontavano
Sue e Ron - e alcuni erano stati vittime di tentati
omicidi.
In generale, si cercava di evitare di ri-addestrare
chiunque fosse stato nel vecchio sistema di difesa
di Saddam. Il vecchio sistema, dicevano infatti Ron
e Sue, era troppo sbilanciato a favore delle alte
gerarchie. Saddam aveva circa 13.000 generali. Era
un sistema alimentato dal paternalismo e dai riconoscimenti
personali, e creava un senso di «diritto acquisito»
tra la classe degli ufficiali. In generale, lo stile
iracheno era troppo autoritario per i gusti di Ron
e Sue, e uno dei loro obiettivi era proprio quello
di far accettare agli iracheni l’idea della
necessità di un dialogo aperto prima di prendere
le decisioni. Dicevano di avere difficoltà,
poi, nel far comprendere agli iracheni il concetto
di policy e la necessità di separare le funzioni
militari e quelle civili della difesa. Tra le convinzioni
più estreme esposte da alcuni di questi iracheni,
diceva Sue, c’era un certo apprezzamento per
Hitler, l’idea che il Kuwait fosse, in realtà,
una parte dell’Iraq e la mancanza di qualsiasi
rammarico riguardo la guerra tra l’Iran e l’Iraq.
In generale, Sue riteneva che gli iracheni fossero
bravi studenti, ma reticenti nel parlare in pubblico
specialmente quando pensavano che le loro idee potessero
sollecitare reazioni di disapprovazione. Sue aveva
anche scritto alcuni commenti sulla lavagna relativi
alla classe in cui aveva insegnato quella mattina.
Tra i commenti spiccavano alcune considerazioni del
tipo «una buona classe, ma ma restia a scendere
in dettagli» e «difficoltà nel
relazionare teoria e pratica». Quando la nostra
conversazione stava per finire, Sue aveva fatto quello
che riteneva fosse un gesto cordiale per gli iracheni
che rappresentavano quasi la metà del nostro
gruppo. Nonostante uno fosse un ricercatore alla London
School of Economics, un’altra era a capo dell’organizzazione
internazionale per i diritti umani che ci ospitava,
ed entrambi avessero partecipato attivamente alla
discussione, Sue si era rivolta a me a al professore
inglese del nostro gruppo, ringraziandoci per «aver
portato con noi i nostri amici iracheni».
Per quanto avessimo apprezzato l’entusiasmo
con cui Sue e Ron stavano svolgendo il loro lavoro,
le loro sessioni di addestramento ci sono sembrate
un esempio sintomatico degli errori che vengono commessi
dalla Coalizione guidata dagli Stati Uniti nel ricostruire
l’infrastruttura amministrativa irachena. Evitando
deliberatamente quello che c’era stato prima,
i funzionari della Coalizione si sono addossati il
compito di gestire il sistema amministrativo durante
il periodo di transizione. Hanno anche mancato le
opportunità date dal mantenimento di alcune
caratteristiche degne di considerazione dell’organizzazione
precedente, e, cosa ancora più importante,
dalle capacità manageriali di migliaia di funzionari
statali che, dopo la caduta di Saddam, sono stati
improvvisamente privati del loro impiego e della loro
carriera. In molti casi si trattava di impiegati che
potevano sì essere stati affiliati al partito
Ba’ath ma che non avevano nulla a che vedere
con Saddam. Sono stati tenuti ben lontano, tuttavia,
dal nuovo Iraq. Questa gente, che è stata umiliata
ed esclusa dal nuovo governo, avrebbe dovuto invece
essere un alleato.
Un altro problema deriva dal fatto che molti iracheni
sentono che il modello americano è stato loro
imposto. Anche se esistessero alcune verità
valide per tutte le organizzazioni amministrative,
il modo in cui esse sono state presentate sembra implicare
il fatto che la via americana sia la migliore possibile.
È comprensibile che gli iracheni abbiano avvertito
il desiderio di contribuire alla ricostruzione delle
proprie istituzioni. Il moderno, ben vestito professore
della vecchia commissione di Saddam sulla politica
estera mette la cosa in questi termini, ovviamente
in perfetto inglese: le politiche della Coalizione
guidata dagli Stati Uniti hanno imposto agli iracheni
dei valori americani e non hanno permesso loro di
far tesoro e di godere dei propri.
Errori nel settore economico
Molte delle politiche della Coalizione guidata dagli
Stati Uniti hanno mirato a ricostruire l’infrastruttura
economica irachena, ma anche in questo caso, hanno
creato almeno tante difficoltà quante ne hanno
risolte. Il problema principale è stato quello
delle scelte guidate dal modello economico neoliberale
della privatizzazione. In Iraq si tratta di un invito
all’opportunismo economico, alla corruzione,
allo sfruttamento. Inoltre, dato che molti dei contratti
per la ricostruzione del paese sono stati firmati
da società straniere, e in particolar modo
da grandi corporazioni statunitensi come Bechtle e
Halliburton, le imprese irachene sono state escluse
dai benefici economici derivanti dalla ricostruzione
del Paese.
Apparentemente, l’economia irachena sembra attraversare
una fase di boom. I negozi sono aperti, e con la fine
dell’embargo, abbondano i beni di consumo. Le
strade sono piene di automobili, e in molti casi si
tratta di modelli piuttosto recenti. Quando siamo
stati a Baghdad a maggio, i condizionatori erano la
grande richiesta del momento. Sembrava che i negozi
non riuscissero a tenerli neppure sugli scaffali.
I funzionari dell’Agenzia Americana per lo Sviluppo
Internazionale, con i quali il nostro gruppo ha parlato,
erano preoccupati per le conseguenze energetiche che
l’accensione di tanti nuovi condizionatori,
durante i periodi di picco del consumo energetico,
nei caldissimi mesi estivi, avrebbe comportato. «Pensano
semplicemente che quando spingeranno il pulsante la
macchina funzionerà» ha detto uno di
loro a Yahia Said. Il funzionario scuoteva la testa.
Una delle ragioni per cui l’economia sta girando
è che alcuni stipendi sono considerevolmente
aumentati dopo la caduta di Saddam. I soldi dei contribuenti
americani, versati al governo della Coalizione, sono
stati utilizzati per aumentare il salario dei funzionari
statali del governo iracheno dai trenta a centocinquanta
dollari mensili. Dal momento che metà della
popolazione è impiegata nel settore statale,
si tratta di una potente iniezione di potere d’acquisto.
I salari governativi riguardano soprattutto le donne,
che, come insegnanti e impiegate d’ufficio,
rappresentano più della metà degli impiegati
statali.
E tuttavia pure se il settore dei consumi dà
segni di vita, ci sono anche segnali di stagnazione
se si guarda alla ricostruzione su larga scala. Ovunque
a Baghdad ci sono rovine di vecchi edifici governativi
bombardati, bruciati e distrutti. Persino nella zona
verde, pochissimi di essi sono stati ricostruiti.
I numerosi progetti di costruzione edile, avviati
durante il regime di Saddam, sono stati bloccati a
metà. Le enormi gru che dominano sugli edifici
non finiti sembrano quasi delle lapidi sulle tombe
delle fantasie di Saddam ormai abbandonate. Meno visibile
ma altrettanto significativo, il sistema elettrico
è tornato solo recentemente a livelli di funzionamento
equiparabili a quelli del passato regime. Il petrolio
inizia a colare dentro gli oleodotti, e questo è
un aspetto cruciale per l’economia del paese.
Il petrolio non è stato privatizzato. La produzione
è supervisionata da una commissione governativa
e la rendita reintegra l’aiuto massiccio proveniente
dagli Stati Uniti i quali mantengono in funzione gli
uffici governativi e provvedono all’aumento
dei salari statali.
Di tanto in tanto si può avvertire un certo
astio a Baghdad per il fatto che gli edifici distrutti
e le altre infrastrutture irachene non siano stati
ancora ricostruiti. Di nuovo, si accusa l’America
perché sono spesso società americane
ad aver ricevuto i contratti per riparare le infrastrutture
bombardate e distrutte. La situazione è complicata
dalle preoccupazioni per la sicurezza – Le spese
per ingaggiare guardie private a protezione degli
esperti americani inviati a lavorare sui progetti
di ricostruzione dell’Iraq possono arrivare
a un terzo del costo dell’intero progetto. In
aggiunta a questi problemi c’è il fatto
che molte delle vecchie industrie erano state originariamente
costruite con il sostegno sovietico, e la riluttanza
russa nell’aderire alla Coalizione ha trattenuto
gli Stati Uniti dal concedere alla Russia i contratti
per ricostruire le industrie o supplire alle varie
mancanze. Sono molte le voci che a Baghdad parlano
dell’inefficienza delle società americane
che hanno ottenuto l’incarico. Secondo quanto
ci è stato raccontato, una società statunitense
ha stipulato un contratto di circa 15 milioni di dollari
per ricostruire un ospedale distrutto dopo la caduta
del regime Tuttavia, la società non è
stata in grado di portare a termine il progetto a
causa di problemi di sicurezza. Il progetto di ricostruzione
è stato quindi affidato a una società
irachena che lo ha portato a termine nel giro di pochi
mesi al costo di soli 80.000 dollari.
Spesso sono compagnie irachene subappaltatrici a fare
la gran parte del lavoro di ricostruzione concordato
da società americane che ricevono enormi compensi.
Ma dal momento che molti dei profitti sono trattenuti
dagli americani, gli iracheni si risentono per il
fatto che la ricostruzione del loro paese stia contribuendo,
in realtà, ad arricchire gli Stati Uniti. Inoltre
alcuni uomini d’affari iracheni credono che
la ricostruzione stile-America non sia proficua per
i loro affari e,per questo motivo, hanno dato il loro
sostegno ai ribelli. Secondo un giornalista, Patrick
Graham, che ha raccontato sull’ «Harper’s
Magazine» la sua esperienza a Falluja durante
l’insurrezione di aprile, la rivolta lì
e altrove in Iraq era stata finanziata da uomini d’affari
sunniti. Essi erano ostili a causa della competizione
delle società straniere, dei crescenti stipendi
statali, che mettono sotto pressione le imprese irachene
per un aumento dei salari, e delle nuove leggi sull’investimento
straniero che autorizza le società americane
ad acquistare a bassissimo costo industrie irachene.
Dal loro punto di vista, il sostegno alle insurrezioni
a Falluja e altrove era un modo per colpire la competizione
economica degli statunitensi e, di per sé,
un buon affare.
La presenza di imprenditori statunitensi a Baghdad
è invadente quasi quanto il fantasma costante
delle pattuglie militari americane e dei checkpoints.
In parte ciò è dovuto al fatto che,
per ragioni di sicurezza, gli imprenditori americani
sono circondati da piccoli eserciti di guardie armate,
e le loro automobili si muovono in convogli protetti
da autocarri attrezzati di mitragliatrici.
Nel piccolo hotel dove stavamo noi, il nostro gruppo
misto di iracheni, americani e inglesi era inizialmente
l’unico che comprendesse degli stranieri. Perciò
per un po’ la presenza americana nell’albergo
era stata piuttosto ridotta. Il secondo giorno, tuttavia,
si unirono a noi 2 imprenditori americani e le loro
8 guardie del corpo irachene, i quali avevano occupato
l’intero terzo piano dell’albergo. Uno
di loro era un tizio che chiamerò Hank, un
tipo atletico e ben piazzato, sui trent’anni
che proveniva da una piccola cittadina del Texas.
Hank lavorava come consulente per le reti elettriche
e aveva già partecipato a missioni in località
a rischio come la Somalia e il Kosovo. Aveva convinto
il suo migliore amico, compagno di scuola alle superiori,
che ancora chiamava con il vecchio soprannome, Scooter,
a unirsi a lui in questa missione. Anche Scooter era
un consulente per le reti elettriche e il suo viaggio
a Baghdad era, per lui, il primo viaggio fuori dagli
Stati Uniti. Quando la sera ci unimmo a loro avevano
trasformato l’atrio del terzo piano nel loro
salone per le feste. Gli uomini della scorta, prestata
a pagamento dal Congresso Nazionale Iracheno di Ahmed
Chalabi, erano andati a dormire presto, a causa della
stanchezza di cui risentivano dalla festa della sera
precedente. Le feste erano incoraggiate dal fatto
che le guardie avevano libero accesso a birra e video
tape importati che permettevano loro di rimpiazzare
il fiume interminabile dei talk-show di Al Jazeera
con film pornografici americani.
Quando Hank e Scooter si muovevano attraverso la città,
portavano con sé le loro guardie del corpo
in un convoglio di tre automobili armate. In generale,
ci dicevano, i loro autisti cercavano di evitare di
rimanere intrappolati nel traffico perché avrebbero
potuto subire un’imboscata. Quando vedevano
un blocco stradale o troppo traffico, facevano una
brusca inversione a U nel mezzo della strada, anche
se avesse comportato di guidare l’auto su un
marciapiede o di passare su uno spartitraffico. Quando
restavano bloccati nel traffico, dicevano, molte delle
guardie saltavano fuori, brandendo i loro AK-47 per
scongiurare qualunque possibilità di attacco.
Sapevo quanto spaventosi potessero apparire questi
convogli agli iracheni, dal momento che mi ero imbattuto
in uno di essi il giorno prima. Il mio gruppo si trovava
sulla nostra automobile priva segni di riconoscimento
e diretta verso gli uffici dell’organizzazione
umanitaria Al Amal, quando improvvisamente la canna
di un AK-47 era spuntata dal finestrino posteriore
dell’automobile affianco alla nostra, proprio
sul lato dove sedevo io. Ho urlato «Armi! Armi!»
e mi sono tuffato sotto i sedili come se, in qualche
modo, quella posizione prona potesse rendermi più
sicuro.
Per mia fortuna, l’arma era quella di una guardia
di sicurezza privata che stava scortando un convoglio
di tre auto che cercavano di farsi strada nell’ingorgo.
Nel convoglio fatto di grandi SUVs Chevy Suburban,
doveva esserci qualche funzionario – immaginavo
che potesse trattarsi di un imprenditore americano
o di un amministratore che si stava dirigendo a un
incontro d’affari. A me, comunque – e
molto probabilmente a molti iracheni che si erano
trovati in circostanze simili – sembrava un
altro dei privilegi degli occupanti stranieri e un
segno evidente dell’instabilità dell’ordine
pubblico.
La vita quotidiana può essere piuttosto agevole
per quegli iracheni che sono collaborano con gli imprenditori
statunitensi e per quei leader religiosi e politici
iracheni che pubblicamente sostengono l’occupazione.
Dopo un seminario tenuto nel nostro albergo in cui
la professoressa Mary Kaldor e io abbiamo presentato
delle relazioni sulla guerra e sulla violenza religiosa
nella società globale in cambiamento, siamo
stati invitati a casa di uno dei leader religiosi
che aveva partecipato al seminario, lo sceicco Ayad
Jamaluddin. Lo sceicco proviene da una famiglia di
leader religiosi sciiti di Najaf, ma ha vissuto, come
esule, a Dubai fin dal 1979. Non sembra avere nessun
gruppo di seguaci in Iraq, ma ha amici a Washington.
Crede fermamente nella separazione tra religione e
politica ed è un aperto sostenitore dell’occupazione
in Iraq. Secondo un articolo scritto su di lui da
Jon Lee Anderson su «The New Yorker»,
era stato contattato già da diversi anni da
funzionari governativi statunitensi i quali avevano
cercato di persuaderlo a partecipare alla ricostruzione
del paese. Era volato a Baghdad dopo la guerra. Ma
– a quanto si dice - altri religiosi sciiti
non avevano avuto abbastanza fiducia in lui e avevano
impedito che lavorasse nel Consiglio di Governo, tuttavia,
gli era stato permesso di alloggiare in uno dei vecchi
palazzi del vice-presidente di Saddam, una villa ricchissima
sulle rive del fiume Tigri dove lo sceicco si diverte
a minare il fiume per uccidere i pesci.
La sera in cui abbiamo fatto visita allo sceicco Jamaluddin
siamo stati accompagnata in una casa arredata in stile
sumero che lo sceicco aveva fatto costruito nel giardino
posteriore affianco alla riva del fiume. Lo sceicco
se ne stava là, affondato tra i cuscini, su
un pavimento coperto di tappeti, fumava un sigaro
cubano, e lodava eloquentemente le virtù della
filosofia politica neo-conservatrice di Donald Rumsfeld
e Paul Wolfowitz. La sua famiglia aveva continuato
a vivere a Dubai, perciò diceva che stava essenzialmente
valutando la villa, viveva solo con il suo assistente
e uno staff di circa 40-50 uomini tra servitori e
camerieri. Più tardi quella sera, quando abbiamo
espresso la nostra preoccupazione nel tornare in albergo
a quell’ora, lo sceicco gentilmente ci aveva
offerto la Bentley del vecchio Vice Presidente, che,
diceva, gli era stata data insieme alla casa. Era
dotata di finestrini spessi tre pollici che non solo
erano antiproiettili ma potevano anche resistere a
colpi di mortaio. Fortunatamente non abbiamo dovuto
sperimentare le dotazioni di quell’automobile,
ritornando alle nostre stanze d’albergo da 30
dollari.
Si dice che Saddam governava combinando terrore e
paternalismo. Quella notte abbiamo potuto constatare
come questi infelici aspetti della vita pubblica irachena
perdurino tuttora. I costanti blocchi stradali, i
bombardamenti, e le pattuglie prolungano il clima
di paura che si respirava nel vecchio regime. Nel
caso dello sceicco Jamaluddin, come in molti altri
casi ampiamente rilevati in tutto il paese, abbiamo
visto riemergere il modello di un privilegio garantito
agli «adulatori» che servono coloro che
detengono il potere. Tristemente sotto l’occupazione
della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, il modello
misto di terrore e paternalismo di Saddam continua
ad esistere.
Cosa ci attende
La nomina del nuovo governo ad interim nel maggio
2004 ha dato un senso di stabilità e speranza
a una situazione che sembrava essere precipitata in
un vortice fuori controllo. Le ultime settimane del
mese precedente state un disastro. Quando siamo arrivati
alla fine di aprile, infatti, ci era stato detto che
per la prima volta dalla caduta di Saddam la gente
per le strade si chiedeva se l’ordine civile
nel Paese sarebbe sopravvissuto. Le doppie insurrezioni
– dei sunniti che si ribellavano contro le irruzioni
dei marines statunitensi a Falluja e degli sciiti
sostenitori di Muqtada al-Sadr che combattevano contro
le truppe della coalizione a Baghdad e a Najaf –
sembravano destinate a sfociare in una probabile insurrezione
generale contro l’occupazione americana. Questa
situazione di caos avrebbe portato a un coinvolgimento
ulteriore delle truppe americane e a un’alleanza
di milizie irachene armate contro le forze di occupazione.
A Falluja durante la ribellione di aprile, nei giovani
del posto, che non erano stati impegnati in politica
precedentemente, era montato un accesso d’odio
contro i marines invasori. Abbiamo parlato con un
francese che lavorava per un’organizzazione
umanitaria, il era stato a Falluja in quel periodo.
Il francese ci diceva che i ribelli non erano semplicemente
pochi fedeli del partito Ba’ath e attivisti
stranieri, ma che «l’intera città
si era sollevata per resistere». Secondo il
giornalista Patrick Graham, che era stato anche lui
a Falluja durante l’insurrezione, la richiesta
di uccidere soldati americani era stata avanzata con
un misto di passione religiosa e autodifesa. D’altro
canto, i soldati americani erano incitati a mantenere
uno spirito da «tutti-fuori», «combatti-o-muori».
Secondo i reportage del «Los Angeles Times»
firmati da un altro giornalista,Tony Perry, che era
viaggiava con il battaglione dei marines americani
di Falluja ad aprile, i soldati statunitensi bruciavano
per una «febbre da combattimento». Avevano
soprannominato la battaglia di Falluja il «Superbowl
sunnita», e alcuni sembravano delusi quando,
nel vivo della battaglia, era stato improvvisamente
fermato il conflitto e le truppe americane si erano
dovute ritirate.
Il ritiro repentino delle truppe da Falluja aveva
calmato la ribellione. Probabilmente per due fattori.
Il primo: la consapevolezza acquisita dalle autorità
della Coalizione che Falluja era invincibile e che
l’Iraq stava precipitando fuori dal controllo.
Il secondo: la disponibilità dei religiosi
iracheni e dei leader militari a impegnarsi come mediatori.
Un consiglio di religiosi sunniti, formatosi a Falluja,
non solo dava voce ai sentimenti di oppressione della
cittadinanza ma costituiva anche un punto di mediazione
per i negoziati, alcuni dei quali hanno poi portato
alla liberazione degli ostaggi stranieri. Allo stesso
tempo generali della vecchia guardia repubblicana
si erano fatti avanti per guidare i contingenti di
ex soldati iracheni in una forza di peacekeeping
in grado di rimpiazzare i marines al momento della
ritirata.
Il modo in cui è stata disinnescata la crisi
di aprile a Falluja è un modello per quello
che può essere fatto nell’intero paese.
Se alcuni dei vecchi comandanti militari potessero
essere re-impiegati per guidare nuovi corpi di difesa
civile iracheni e le leadership locali potessero essere
reclutate per controllare l’ordine pubblico
la necessità di una presenza militare statunitense
forte e invasiva diminuirebbe. Entrambi i nuovi leader
del governo ad interim, Iyad Alawi e lo sceicco Ghazi
al-Yawar, hanno sostenuto sviluppi di questo tipo.
Alawi ha permesso ad alcuni dei militari legati alla
sua organizzazione politica, l’Iraqi National
Accord, di essere utilizzati nella creazione di una
task force «inter-militia» nel dicembre
2003. Questa coalizione di forze armate sotto il comando
del Cpa includeva curdi, sciiti ed ex militanti sunniti
ba’athisti. Anche se i gruppi politici mantenevano
il controllo sui propri soldati si trattava di un
primo tentativo per unificare le forze di sicurezza;
questo gruppo si trovava presumibilmente sotto il
comando di generali della Guardia Repubblicana che
avevano riportato l’ordine a Falluja dopo i
fatti di aprile.
I leader dei partiti politici con cui ho parlato -
il partito Da’awa, sciita, e il Partito Islamico
Iracheno, sannita - affermavano entrambi che la lealtà
degli iracheni era forte come o persino di più
delle specifiche affiliazioni religiose o etniche.
Questi leader hanno espresso la loro disponibilità
a cedere le proprie milizie per una forza di sicurezza
irachena reintegrata, e a lavorare con altri partiti
al di sopra della supposta divisione tra sciiti e
sunniti. Infatti diversi iracheni hanno parlato di
un «mito» costruito sulle differenze che
dividono sciiti-sunniti-curdi e hanno invece riferito
di molti esempi di cooperazione inter-religiosa e
inter-etnica nel vecchio esercito iracheno, della
presenza di circa il 15% di sostenitori sunniti nel
Partito Da’awa, e dell’esistenza di un’infinità
di partiti politici e associazioni civili che non
avevano nessuna specifica identità religiosa
o etnica.
Ad esempio, la tribù del presidente del governo
ad interim iracheno, lo sceicco Ghazi al-Yawar,
è composta da sciiti e da sunniti. I religiosi
sunniti con cui ho parlato dicevano che l’idea
di un triangolo sunnita a nord-ovest di Baghdad, in
qualche modo privilegiato, sotto il regime di Saddam
era un mito. Uno degli intellettuali sunniti con cui
ho parlato ha detto che Saddam non faceva differenze
tra il popolo iracheno dal momento che «sotto
il suo regime tutti i gruppi soffrivano alla stessa
maniera». L’intellettuale metteva in evidenza
come l’occupazione americana dell’Iraq
aveva avuto lo stesso risultato, per quanto non intenzionalmente.
È chiaro che lo spirito del nazionalismo iracheno
è oggi ancora vivo e vegeto, e continua a essere
un potente antidoto contro particolari affiliazioni
religiose, etniche e tribali.
Ecco un po’ di luce alla fine del caotico tunnel
iracheno. Questo ottimistico scenario – che
la sicurezza dell’Iraq sarà mantenuta
grazie a un’effettiva integrazione di milizie
già esistenti e vecchie forze militari irachene
- dipende in parte da un governo democraticamente
sostenuto. Le elezioni previste per gennaio 2005 daranno
al governo questa legittimazione. Pur essendo nel
progetto originario di Lakhdar Brahimi, inviato delle
Nazioni Unite, la creazione di un governo ad interim
di tecnici che non avrebbero alcun interesse nel partecipare
al governo eletto nel 2005 (e quindi non potrebbero
venire accusati di manipolare le elezioni a proprio
favore), le scelte iniziali di Brahimi - lo scienziato
Hussain al-Shahristani e il vecchio diplomatico Adnan
Pachachi - si dice siano state respinte dal Consiglio
di Governo a favore di due suoi membri. Il Consiglio
ha candidato un ex ufficiale del partito Ba’ath
- capo dell’Iraqi National Accord e odiato rivale
dal leader del Congresso Nazionale Ahmed Chalabi -
a diventare Primo Ministro, e lo sceicco Ghazi al-Yawar,
politico sunnita leader di una tribù, il quale
indossa il copricapo tradizionale della propria terra
adottiva, l’Arabia Saudita, a essere Presidente.
Probabilmente i due si troveranno a concorrere per
mantenere le proprie posizioni di potere dopo le elezioni
di gennaio, se sopravviveranno politicamente e fisicamente
fino ad allora.
C’è sfortunatamente un altro possibile
scenario per il futuro politico immediato dell’Iraq,
uno scenario più misero. È il fantasma
della Falluja di aprile. È la prospettiva che
il centro non resista, e che il paese vada in rovina.
Una varietà di fattori potrebbe far precipitare
la spirale - un assassinio politico, accuse di brogli
elettorali, un’incursione militare, o un potere
esercitato da una fazione piuttosto che da un’altra.
Oppure potrebbe semplicemente verificarsi una triste
degenerazione dell’autorità pubblica
e dell’identità civica, un cupo spostamento
dalla pubblica demoralizzazione a una diffusa disperazione
personale. Il risultato potrebbe essere una contestazione
in stile Somalia tra signori della guerra in una campo
di battaglia segnato dall’anarchia civile.
Il ruolo delle forze della Coalizione guidata dagli
Stati Uniti può determinare queste possibilità,
e specialmente l’ultima. Si potrebbe sostenere
che il problema non sta solo nelle politiche della
Coalizione guidata dagli Stati Uniti, che sono state
così inefficienti - l’affidamento fatto
su militari statunitensi e milizie private per la
sicurezza; il rifiuto di permettere a ex esponenti
del partito Ba’ath e agli amministratori della
classe media di avere un ruolo nella ricostruzione
del paese; e l’importanza data alla presenza
di imprenditori privati nello sviluppo dell’infrastruttura
economica irachena - ma anche nella mentalità
con cui è stata gestita l’occupazione.
Il costante paternalismo dell’atteggiamento
statunitense ha alimentato sia la sfiducia che l’umiliazione.
Ho continuato a pensare a quella professoressa vestita
in stile occidentale che avevamo incontrato nel vecchio
centro di ricerca per gli affari internazionali di
Saddam Hussein. La donna si sfogava contro l’occupazione
americana. Era esattamente il tipo di persona su cui
gli Stati Uniti avrebbero potuto fare affidamento
per ricostruire un nuovo Iraq. Eppure si trattava
di una persona profondamente disillusa e fortemente
contraria alla presenza statunitense. «Ci aspettavamo
qualcosa di meglio», aveva detto.
Il suo rancore era la voce di un Iraq che sente di
essere usato in una specie di manipolazione politica
globale studiata dall’apparato della Difesa
e della Politica estera degli Stati Uniti. Pochi iracheni
ritengono che gli Stati Uniti abbiano rovesciato il
regime di Saddam per la salvezza dell’Iraq.
Il fatto che il presidente George W. Bush ricordi
spesso che l’Iraq è la «prima linea»
della «guerra contro il terrore» è,
per gli iracheni, una dimostrazione di tutto ciò.
La «guerra contro il terrorismo» è
vista come una fantasia americana, una guerra globale
che oppone le forze del bene a quelle del male, il
giusto allo sbagliato. Molti iracheni pensano che
in quest’idea neo-conservatrice di confronto
globale, l’intero mondo islamico sia percepito
come un nemico. Paradossalmente, questa visione neo-cons
è vista come una variazione della visione di
Osama Bin-Laden di una guerra mondiale in un mondo
in bianco e nero – e pochi iracheni approvano
questo conflitto globale sostenuto da Al Qaeda.
L’effetto di questo modo di pensare basato sullo
«scontro di civiltà», sul noi-contro-loro
è la creazione di una dicotomia morale e sociale
in cui tutti gli iracheni sentono di essere i potenziali
nemici. Per molti iracheni, specialmente per coloro
che rappresentano la classe media e ben istruita,
tutto ciò non è solo sgradevole, ma
è anche offensivo. Molti americani sono sorpresi
nel vedere tanto anti-americanismo diffuso tra iracheni
che altrimenti sarebbero simili a loro. Una delle
singolari rivelazioni della rivolta di Falluja è
il sostegno che la ribellione ha ricevuto da uomini
d’affari e da membri dell’elite ben istruita
e occidentalizzata che erano irritati dalla brutalità
e dall’insensibilità dell’occupazione
statunitense, in generale, e, in particolare, dall’incursione
a Falluja.
Come ho scoperto nel mio studio comparato sul terrorismo
religioso, l’esperienza dell’umiliazione
è un’emozione potente, ed è forse
il motore principale che muove molti atti di violenza.
Paradossalmente, delle politiche statunitensi in Iraq,
che sono state percepite come umilianti, si sono risentiti
soprattutto coloro che avrebbero potuto simpatizzare
con un punto di vista occidentale.
Quello che sta accadendo in Iraq è una prova
decisiva per la nuova direzione dell’amministrazione
Bush in politica estera. L’approccio di una«guerra
contro il terrore» e la politica di un «attacco
preventivo» segnalano entrambe una visione imperialistica
in cui è chiaro quale dovrebbe essere il ruolo
degli Stati Uniti nel mondo globalizzato del dopo
Guerra Fredda. L’Iraq è un test per verificare
la flessibilità di quest’idea. È
diventato evidente che l’Iraq non può
essere facilmente modellato in una piccola America.
Qualunque idea possa essere balenata nelle teste di
Richard Perle, Paul Wolfowitz e altri strateghi neo
conservatori che immaginavano un Iraq baluardo di
un nuovo Medio-Oriente democratico e filo-americano,
essa è stata delusa. L’Iraq, in realtà,
può anche emergere, magari con difficoltà
e per tentativi, come una società orgogliosamente
democratica e indipendente. Ma non sarà filo-americano.
L’eredità delle disastrose politiche
relative a sicurezza, amministrazione ed economia,
portate avanti dagli Stati Uniti nel primo anno di
occupazione, continueranno ad essere degli ostacoli
per l’efficacia di qualsiasi nuovo governo iracheno
per i tempi a venire. Inoltre anche il disprezzo per
l’America, provocato negli iracheni dall’abito
mentale che ha informato le politiche dell’occupazione,
resisterà almeno per un po’ di tempo.
Quando la guerra globale è un pensiero a senso
unico, ahimè, quest’impostazione ha la
capacità di creare nemici in tutta la società,
anche dove, almeno alcuni, avrebbero potuto essere
amici.
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