245 - 17.01.04


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Il realismo? Ben venga, purch³ sia "insoddisfatto"
Michelangelo Bovero


Il saggio che segue ² parte della raccolta Bobbio ad uso di amici e nemici edito da Marsilio nella collana I libri di Reset

Alcuni anni or sono il maggior "bobbiologo" spagnolo, Alfonso Ruiz Miguel, ha offerto - nel saggio Las paradojas de un pensamiento en tensiÑn Bobbio (PolÕtica, historia y derecho en Norberto Bobbio, Fontamara, M³xico 1994) una ricostruzione brillante e originale del pensiero di Bobbio. Anzich³ proseguire sulla strada metodologica comunemente seguita dagli studiosi, e da lui stesso adottata in altri contributi, cercando nell'opera bobbiana nessi di continuitö, di sviluppo e articolazione all'interno di un quadro sostanzialmente unitario e coerente, nel saggio del 1992 a cui mi riferisco Ruiz Miguel ha presentato una visione alternativa della personalitö teorica di Bobbio, mediante l'identificazione di dieci ossimori: una rete di paradossi concettuali in cui troverebbero adeguata espressione le oscillazioni e le tensioni caratteristiche del pensiero bobbiano. Vale la pena ricordarli tutti: Bobbio sarebbe, secondo Ruiz Miguel, un filosofo positivo, un illuminista pessimista, un realista insoddisfatto, un analitico storicista, uno storico concettualista, un giuspositivista inquieto, un empirista formalista, un relativista credente, un socialista liberale, un tollerante intransigente. Intendo soffermarmi sulla figura del "realista insoddisfatto".

Un "realista insoddisfatto"

Ruiz Miguel suggerisce che quanti hanno esplorato almeno una parte significativa della sterminata opera di Bobbio sono indotti per molti motivi nella tentazione - per cosÒ dire - di ritenere che egli sia, dopo tutto e sostanzialmente, un realista, un osservatore acuto e disilluso delle vicende umane. E questa impressione di fondo pu÷ essere avvalorata dalla constatazione che tra gli autori di Bobbio abbondano gli esponenti del realismo politico di tutti i tempi, da Tucidide a Max Weber. Ma, aggiunge Ruiz Miguel, lo sguardo spregiudicato sulla storia del mondo, che a Bobbio appare davvero, come diceva Hegel, simile al "bancone del macellaio", non ² mai accompagnato da quella specie di compiacimento cosÒ caratteristico di buona parte dei realisti.

Al contrario, il suo ² appunto un "realismo insoddisfatto": che non si accontenta, cio², della diagnosi pessimistica e della prognosi infausta sui destini umani; ed anche se ² totalmente alieno dalla speranza in una trasmutazione della natura umana, e dunque in una palingenesi della storia (la speranza, dice Bobbio, ² una virtð religiosa, "teologale"), tuttavia non cessa di alimentare la riflessione sulle possibili terapie istituzionali - la democrazia, i diritti dell'uomo - per combattere i mali perenni del vivere politico.

Mi sembra che Bobbio, nel commentare favorevolmente il saggio di Ruiz Miguel, abbia voluto addirittura accentuare il paradosso, riconducendolo al proprio "dualismo impenitente", ovvero al contrasto, da lui giudicato ed anzi vissuto come irriducibile, "tra il mondo dei fatti e il mondo dei valori": onde il suo realismo, frutto dell'osservazione disincantata dei fatti, sarebbe "insoddisfatto", spiega Bobbio, "perch³ confrontato continuamente con una visione utopistica della storia". Al problema della compresenza paradossale, nel suo pensiero, tra le tendenze opposte del realismo e dell'utopismo, Bobbio stesso ha suggerito, nel saggio in cui risponde a Ruiz Miguel (Risposta ai critici, in De senectute, Einaudi, Torino 1996), una soluzione apparentemente semplice e lineare: "Spesso mi ² accaduto di essere rimproverato per una descrizione troppo cruda della realtö, come se cercare di comprendere il male anche nelle sue pieghe pið riposte equivalesse a compiacersene e a giustificarlo. Non ² dall'osservazione spregiudicata della realtö che si pu÷ derivare la possibilitö di cambiarla? Sinora gli uomini hanno interpretato il mondo, diceva Marx, ora si tratta di cambiarlo. Ma come si pu÷ cambiarlo se prima non lo si comprende?".

Qui Bobbio alludeva (in modo trasparente) alle osservazioni critiche mossegli qualche anno prima da Perry Anderson, in un saggio in cui peraltro si esprime ammirazione verso di lui). Anderson sosteneva che il pensiero di Bobbio si situa all'incrocio fra tre grandi concezioni in conflitto tra loro, il liberalismo, il socialismo e il realismo conservatore, e affermava che quest'ultima componente finisce per rendere fragile il connubio ideale tra liberalismo e socialismo, stella polare dell'impegno di Bobbio come filosofo militante.

Bobbio aveva risposto ad Anderson (in una lettera personale pubblicata su "Teoria politica", V, n. 2-3, 1989), rimproverandogli di aver tendenzialmente identificato il realismo con il conservatorismo, e ribadendo che "un atteggiamento realistico ² indispensabile per chi voglia fare un'analisi spregiudicata della societö". Riferendosi in particolare alla propria considerazione realistica del processo di democratizzazione, sintetizzata nel famoso saggio su Il futuro della democrazia, la presentava come una "illustrazione spassionata, disincantata, amara, se si vuole, ma doverosa per chi vuol restare fedele all'etica della scienza, cio² della ricerca disinteressata"; e criticava Anderson per non essersi posto la domanda pertinente, "se [tali analisi] siano giuste o sbagliate, ma soltanto se siano o no compatibili con il [suo, di Bobbio] progetto ideale di liberalsocialismo". Questa seconda domanda, osservava Bobbio, non ² a rigori pertinente: "il realismo dello scienziato e l'idealismo dell'ideologo sono su due piani diversi".

A mio giudizio, il problema del realismo politico di Bobbio ² posto da Perry Anderson in termini non solo confusi, bensÒ troppo generici; ed anche da Ruiz Miguel lo stesso problema ² delineato in forma non sufficientemente articolata. Peraltro, la risposta di Bobbio ad Anderson ne indica una soluzione troppo lineare e semplificante. In parole povere, il problema a me pare molto pið complicato.

Realismo metodologico e ontologicoƒ

Suggerisco di affrontarlo distinguendo tre accezioni della comune, e comunemente indistinta, nozione di realismo politico. Lascio per ora aperta la questione se si tratti di tre aspetti interconnessi o di tre concetti indipendenti. In una prima accezione, con "realismo politico" si indica un metodo, o (forse) meglio un "approccio" alla realtö politica. Quando le scienze sociali in genere, e la scienza politica in specie, fanno professione di realismo, tendono a far coincidere questo con la pura e semplice adozione del metodo scientifico, e pið precisamente del canone metodologico dell'avalutativitö. Astenersi da giudizi di valore ² (considerato) un atteggiamento "realistico" in quanto consente di attingere la "veritö effettuale" della politica, di vedere le cose come stanno senza le deformazioni indotte dalle inclinazioni o dalle passioni di parte. In questa prospettiva, il realismo ² considerato una medicina mentis, ed anche una forma di onestö intellettuale: l'etica della scienza di cui parla Bobbio.

Per un verso, il realista cerca il vero volto della politica al di sotto del mondo delle idee cui guarda l'utopista, e dietro le maschere legittimanti costruite dall'ideologo: in altre parole, rifiuta i sogni dell'utopia e le contraffazioni dell'ideologia. Per l'altro verso, la dimensione etica del realismo metodologico ² quella che vincola l'osservatore delle cose politiche a dar conto di - e a fare i conti con - quelli che Max Weber chiamava i "fatti scomodi".

Ma al di lö dell'aspetto metodologico, nel quale il realismo si mostra come una prospettiva sulla realtö politica, vi ² l'aspetto che non saprei chiamare se non ontologico, nel quale esso coincide con una vera e propria concezione (o famiglia di concezioni) della politica. Ž questo il secondo e (forse) pið comune significato della nozione di realismo politico. Mentre nella prima accezione per realismo si intende uno sguardo sulla realtö non condizionato da giudizi di valore (non pregiudicato: spregiudicato); in questa seconda accezione con "realismo politico" si indica una immagine (o una famiglia di immagini) della realtö: una rappresentazione della politica rivale e concorrente rispetto a quella idealizzante degli utopisti e a quella legittimante degli ideologi, ma appunto per questo, posta sullo stesso piano. Si tratta, per dirlo in modo sintetico e intuitivo, dell'immagine che ritrae il volto demoniaco del potere. In base ad essa, la dimensione politica dell'esistenza umana appare come il teatro della violenza e della frode, il campo dell'agire strategico, della lotta perenne tra singoli e (soprattutto) gruppi dominata dalla logica ferrea del successo, anzi del prevalere per sopravvivere.

Ho sostenuto altrove (La natura della politica. Potere, forza, legittimitö, "Teoria politica", XIII, n. 2, n. 3, 1997) che le differenti versioni del realismo politico di tutti i tempi trovano unitö di senso nell'idea della politica come lotta, contrapposizione, sopraffazione. Le varie configurazioni e distribuzioni dei ruoli di vincitore e vinto, di dominante e dominato sono semplicemente, di volta in volta, cristalizzazioni provvisorie degli esiti contingenti dell'antagonismo perenne: compaiono sempre, cio², entro l'orizzonte intrascendibile del conflitto. Questo, il conflitto, l'antagonismo, ² la politica, ² l'essenza della politica, per il realismo politico.

ƒ e realismo pratico

A questo punto vorrei avanzare tre ordini di osservazioni. Faccio notare, in primo luogo, che tra realismo metodologico e realismo ontologico non sussiste alcun nesso di implicazione necessaria. Non si capisce perch³ uno sguardo realistico-scientifico, obiettivo-avalutativo sulla politica dovrebbe immancabilmente scoprire che il "vero" volto della politica ² quello (pið o meno) "demoniaco". Non solo: chi afferma il contrario, ossia che questa ² effettivamente la scoperta inevitabile cui giunge l'osservazione della politica condotta con metodo realistico-scientifico, con ci÷ stesso ammette implicitamente di presupporre che la politica abbia quella determinata natura; rivela cio² di anteporre una certa concezione della politica alla ricerca spregiudicata su di essa. Ci÷ non di meno, si potrebbe sostenere che un'indagine metodologicamente realistica conduce per lo pið a delineare del mondo politico un'immagine demoniaca, ovvero che quella rappresentazione della politica che ho chiamato realismo ontologico ² semplicemente il frutto di una generalizzazione empirica dei risultati delle analisi guidate dal realismo metodologico.

Ammesso (e per ora non concesso) che quest'ultima sia una tesi validamente sostenibile e convincente, osservo - in secondo luogo - che l'universo delle cose politiche cosÒ delineato nel suo volto "realistico", o supposto tale, si presenta come un mondo al quale sono estranei quelli che vengono comunemente considerati i valori e gli ideali politici (pur contrastanti tra loro): libertö, eguaglianza, giustizia... L'ontologia del realismo politico, almeno nelle sue versioni pið radicali e coerenti, tende semplicemente a negare che esista una dimensione ideale della politica; o meglio, la ritiene interamente riducibile al mondo delle utopie e delle ideologie, alle alcinesche seduzioni e alle forme di falsa coscienza, o alle "formule politiche", come le chiamava Mosca, inganni e astuzie usati come strumenti da coloro che competono nella perenne lotta per il potere. Ne discende che l'adozione di una qualche forma di realismo ontologico (pið o meno radicale) rende di per s³ (pið o meno) insensata la proposizione di valori e ideali politici propriamente intesi. Ne discende, inoltre, che al mondo della politica, quale appare secondo la rappresentazione del realismo ontologico, non sono applicabili autentici giudizi di valore (il giudizio di adeguatezza dei mezzi al fine di conquistare e mantenere il potere non ² propriamente un giudizio di valore): e faccio notare che questa tesi ² diversa e molto pið radicale di quella su cui si fonda il realismo metodologico, il quale raccomanda di astenersi dai giudizi di valore nella (durante la) analisi dei fenomeni politici, ma non pretende che questi, una volta ricostruiti, siano ingiudicabili in base a criteri assiologici, n³ che siano immodificabili in quanto manifestazioni di una presunta natura essenziale della politica, refrattaria ai valori.

Aggiungo - come anticipazione di un problema che affronter÷ nel prossimo paragrafo - che se il realismo di Bobbio fosse conforme al realismo ontologico di cui ho tentato di delineare i caratteri, bisognerebbe riconoscere a Perry Anderson almeno una parte di ragione.
Lascio per ora aperta la questione, e mi limito infine ad osservare - in terzo luogo - che la concezione realistico-ontologica della politica come di un mondo refrattario ai valori, e ai giudizi di valore, scivola paradossalmente, nel senso comune (da cui non sono certo immuni gli studiosi), verso la rappresentazione della politica come un universo connotato necessariamente di valore negativo: appunto come un mondo "demoniaco". Questa, mi pare, ² la radice della riflessione ricorrente sul tema del rapporto, o meglio del divorzio, tra la politica e la morale.

Ed ² a questo punto che ci si presenta il terzo aspetto della nozione comune di realismo politico. Realismo metodologico e realismo ontologico attengono entrambi al problema della conoscenza (dei fenomeni o dell'essenza) della politica, e possono essere raggruppati nella figura del realismo teoretico; al di lö del quale incontriamo il realismo pratico, che concerne il problema della prescrizione e della giustificazione dell'agire politico. Per un verso, il realismo pratico ha prodotto la precettistica dei "consigli al principe" (di cui Il principe machiavelliano ² l'archetipo), lo studio dell'agire strategico, delle "regole per vincere"; per l'altro, a partire dalla massima machiavellica (anche se non machiavelliana) "il fine giustifica i mezzi", ha nei secoli elaborato teorie ed argomenti per giustificare, appunto, il divorzio dell'agire politico dai canoni condivisi dell'agire morale.

Il potere non ² un fine

Enuncio la mia tesi. Mentre l'adesione di Bobbio al realismo metodologico ² completa e non problematica, non ² invece rintracciabile nella sua opera un rigoroso realismo ontologico, e neppure un realismo pratico se non in forme parziali e condizionate. E ci÷ permette di affermare, in primo luogo, che la formula del "realismo insoddisfatto" esprime bensÒ la tensione che attraversa il pensiero di Bobbio, ma non costituisce un vero e proprio ossimoro (cio²: il paradosso di Ruiz Miguel ² apparente); in secondo luogo, che l'incoerenza denunciata da Perry Anderson non ² propriamente tale.
Quando Bobbio fa esplicita "professione di realismo", non c'² dubbio che si riferisca eminentemente, se non esclusivamente, a quello che ho chiamato realismo metodologico. Su questo punto il pensiero di Bobbio non presenta particolari difficoltö interpretative (se non per la complessitö in s³ della distinzione, ad esso sottesa, tra "fatti" e "valori") e non ha bisogno di molte illustrazioni.

Qui mi limito semplicemente a ricordare gli studi bobbiani sulle ideologie nel senso negativo del termine, ad esempio sulle paretiane "derivazioni", come maschere da smascherare con metodo realistico; ma voglio anche richiamare l'attenzione sull'appassionata invettiva contro i detrattori dell'avalutativitö, che si trova inserita nel primo capitolo della Teoria generale della politica.

Il primo, vero problema ² che Bobbio non si limita ad adottare il metodo "realistico", ma attraverso l'esercizio costante di questo metodo giunge ad elaborare una concezione della natura della politica da lui stesso designata "realistica", per contrapporla alle visioni "idealizzanti" - che sono quelle che scambiano la politica con la "buona" politica. Tuttavia, il peculiare realismo ontologico di Bobbio, la sua concezione "realistica" della politica, non coincide con quella in cui invito a riconoscere la costante, il nucleo teoretico, del realismo politico di tutti i tempi (e di tutti i colori: da Trasimaco a Machiavelli, a Marx, a Carl Schmitt): ossia, con la concezione conflittualistica, o meglio polemologica, secondo cui la politica ² sostanzialmente - come diceva Foucault rovesciando Clausewitz - guerra continuata con altri mezzi.

Come tutti sanno, Bobbio pone al centro della sua riflessione sul mondo politico, e della stessa delimitazione teorica del campo della politica, il concetto di potere, e distingue il potere politico dalle altre specie di potere sociale in base al criterio weberiano del "mezzo specifico": la forza. Le teorie che definiscono la politica e il potere politico ricorrendo, al di lö del mezzo specifico, ad un qualche fine ideale, sono da Bobbio chiamate "persuasive" e dunque respinte come "non realistiche". Intorno al nesso concettuale tra "politica", "potere" e "forza" Bobbio costruisce la sua definizione della politica come sfera dell'agire sociale articolata in due dimensioni (o come io preferisco dire, due versanti): per un verso, il potere coattivo ², dell'agire politico, il fine, il terminus ad quem, onde appartengono alla sfera politica gli atti dell'abbattere o del difendere, del mantenere o del rovesciare il potere; per l'altro verso, il medesimo potere coattivo ², dell'agire politico, il principio, il terminus a quo, onde sono eminentemente politiche le attivitö del comandare e proibire, legiferare e ordinare ecc.

In questo modo semplice di delineare i profili della sfera politica, Bobbio indica alla teoria il compito di studiare, tenendoli distinti e insieme riconoscendo la loro pari importanza, i due problemi politici principali, che sono quelli della conquista e dell'esercizio del potere. Non ho bisogno di ricordare il rilievo assegnato da Bobbio alla seconda questione nel famoso dibattito sulla concezione marxista dello stato.

Ora, come ognuno pu÷ vedere, l'immagine polemologica della politica, l'idea di politica come lotta - carattere costante e identificante della plurisecolare tradizione del realismo politico - trova propriamente corrispondenza in uno soltanto dei due emisferi che lo sguardo analitico di Bobbio distingue nell'universo dell'agire politico. Ž ovviamente vero, per Bobbio come per chiunque, che la logica del conflitto permea non solo la dimensione della conquista, ma anche quella dell'esercizio del potere. Ma non ² vero per Bobbio che il senso dell'esercizio del potere sia esclusivamente o in ultima istanza da ricercare nell'affermazione e conservazione del potere stesso. Insomma, non ² vero che scopo "naturale" ed eminente dell'agire politico sia, machiavellicamente, "vincere e mantenere lo stato". Dice testualmente Bobbio (in Teoria della politica): "se il fine della politica fosse davvero il potere per il potere, la politica non servirebbe a nulla".

Il giudizio su Schmitt

Nella sovrapponibilitö solo parziale, anzi nella sfasatura tra il realismo ontologico di Bobbio, ossia quella che egli stesso chiama la propria concezione realistica, e l'ontologia polemologica del realismo politico tradizionale trova un principio di spiegazione letterale il giudizio di Bobbio sulla teoria di Carl Schmitt, campione dell'(iper)realismo politico novecentesco, che risolve la sfera politica in quella del rapporto amico-nemico: "Nonostante la pretesa di valere come definizione globale del fenomeno politico, la definizione di Schmitt considera la politica secondo una prospettiva unilaterale".

In estrema sintesi: "politica" non ² soltanto e neppure soprattutto antagonismo, conflitto estremo, sopraffazione imposizione dominio in alternanza perenne. Il conflitto stesso ² "politico", quando lo ², non in quanto tale o in quanto estremo e antagonistico, bensÒ quando viene combattuto per la conquista di quel potere, appunto il potere coattivo-politico, che come tale ² in grado - ha la forza - di imporre un ordine, buono o cattivo, e dunque di impedire l'insorgenza o reinsorgenza di conflitti antagonistici, e di evitare con essi la disgregazione della convivenza. Pertanto il conflitto ² politico, quando lo ², in virtð della ratio finalis anticonflittuale del potere politico, e della politica stessa.

Bobbio l'ha ripetuto infinite volte: bisogna vincere per governare, ma governare significa risolvere conflitti. Concludo questo punto con una citazione precisa: "Proprio in quanto il potere politico ² contraddistinto dallo strumento di cui si serve per raggiungere i propri fini, e questo strumento ² la forza fisica, esso ² quel potere cui si fa appello per risolvere i conflitti la cui non soluzione avrebbe per effetto la disgregazione dello stato o dell'ordine internazionale".

Senonch³, il volto pið "realistico", intendo pið drammatico, del realismo ontologico di Bobbio non ² quello che coincide con la riflessione spregiudicata, ossia condotta con atteggiamento avalutativo, sulla natura essenzialmente coattiva del potere politico, e pið in generale sui modi e le forme di esercizio della forza nell'universo delle cose politiche; bensÒ ² quello che si rovescia in un giudizio di valore pesantemente negativo sulle vicende umane e in un interrogarsi angoscioso sulla prevalenza di fatto del male nella storia del mondo e nel teatro della politica. Molto ci sarebbe da dire intorno all'antropologia - realistica ma non solo - e alla filosofia della storia - non "terroristica" nel senso kantiano, ma come egli stesso la definisce, "malinconica" - di Bobbio. Qui mi limito a poche battute concernenti il suo modo di affrontare il classico tormentato problema del rapporto tra morale e politica, ovvero sull'atteggiamento di Bobbio nei confronti di quello che ho chiamato realismo pratico, che riguarda i criteri di giustificazione dell'agire politico.

Nessuna "eccezione" alla regola!

Bobbio parte dalla constatazione del contrasto tra la condotta politica e la morale comune: un fatto, sottolinea, "di per s³ scandaloso", rilevato in ogni tempo e in ogni luogo, e apparentemente immodificabile; procede alla ricostruzione, classificazione, comparazione delle diverse teorie che tentano di spiegare e di giustificare il divorzio della politica dalla morale; ma non approda alla tesi della amoralitö della politica o della sua piena autonomia dalla morale - tesi che costituisce il fondamento del realismo pratico classico, radicale e conseguente. La politica, afferma Bobbio, non diversamente da ogni altra forma dell'agire umano, non si sottrae affatto al giudizio morale. Il problema ² piuttosto se questo giudizio debba formularsi in base a criteri diversi o in parte diversi da quelli applicati alla condotta umana comune. Ma in ogni caso ² ovvio che vi sono comportamenti politici ingiustificabili: "Nonostante tutte le giustificazioni della condotta politica che devia dalle regole della morale comune, il tiranno resta il tiranno, e pu÷ essere definito come colui la cui condotta non riesce a essere giustificata da nessuna delle teorie che pur riconoscono una certa autonomia normativa della politica rispetto alla morale" (sempre in Teoria generale della politica).

Ebbene: l'area dei comportamenti politici ingiustificabili ² per il "realista" Bobbio pið ampia e diversamente configurata rispetto a tutte le versioni del realismo politico tradizionale, fondate sulla concezione polemologica della politica (ossia, sul realismo ontologico classico). Che non ogni fine possa giustificare ogni mezzo ² semplicemente banale: nessuna teoria seria del rapporto tra politica e morale giungerebbe ad affermare il contrario (forse). Ma, anzitutto, proprio perch³ la politica non ² per Bobbio - come lo ² invece per il realismo politico tradizionale - una dimensione dell'esistenza umana sempre prossima allo "stato di necessitö", l'agire politico non ² rappresentabile come una sorta di eccezione giustificata permanente alle regole morali. Per ricostruire il volto peculiare del realismo pratico di Bobbio occorrerebbe rispondere in maniera analitica e articolata alla domanda: quali fini giustifichino, secondo lui, quali mezzi. E troveremmo che le risposte ricavabili dai testi di Bobbio sono quanto mai condizionali e dubitative. Qualche accenno, in direzione di una ricerca delle risposte. Il fine della salus reipublicae giustifica (non ogni mezzo, ma) il ricorso alla violenza collettiva? Dipende: quale respublica? Certo non una "patria" indefinita. Si ricordi l'affermazione, molte volte ripetuta da Bobbio: "Desiderammo che l'Italia perdesse la guerra.... Il fine dell'instaurazione dell'"ordine giusto"? Dipende: certo non quello, presuntuoso, di chi pretende di far nascere l'"uomo nuovo". E cosÒ via.

Forse, in Bobbio, il fine che ha, per cosÒ dire, il maggior potenziale di giustificazione del ricorso a mezzi estremi violenti (ma non mai davvero estremi) ² quello di impedire il dilagare della violenza, lo scatenarsi del "male attivo", la crudeltö disumana; e forse ancor pið, quello di opporsi all'atteggiamento di transigente acquiescenza di fronte all'affermazione dei violenti e dei prepotenti.

Il dibattito sulla guerra giusta

La radice pið profonda delle manifestazioni di realismo pratico, ossia delle giustificazioni di atti di violenza organizzata, da parte di Bobbio, nell'ultimo decennio del Novecento, in occasione della guerra del Golfo e di quella in Kossovo, sta qui. Ma il carattere condizionale e dubitativo del suo realismo pratico, fondato su un realismo ontologico non unilateralmente conflittualistico, gli ha permesso in entrambi i casi una parziale palinodia.

In un articolo del 1Á febbraio 1991, intitolato La grande tragedia (in N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia 1991, pp. 75-79), Bobbio chiariva di aver considerato fin dall'inizio la guerra contro l'Iraq una guerra giusta "nel senso stretto - l'unico plausibile - della parola", cio² nel senso di lecita, "in quanto risposta in ultima istanza ad una aggressione", e protestava che delle sue dichiarazioni fosse stato messo in risalto "unicamente il criterio della giustizia, che avevo considerato preliminare, sÒ, ma secondario": oltre che lecita, la guerra avrebbe dovuto essere "anche efficace, vale a dire conforme allo scopo. Non doveva, in altre parole, essere un rimedio peggiore del male".

In un successivo articolo, scritto il 24 febbraio e pubblicato due giorni dopo col titolo L'etica della guerra (contenuto nello stesso volume) invitava a prendere in considerazione un ulteriore e decisivo criterio di giudizio: "Prima che la guerra scoppiasse, la domanda di rito era: "Questa guerra si pu÷ fare?", dove 'potere' significa non 'essere possibile' ma 'essere lecito'. Mi sia consentito, ora che la guerra sembra avviata alla fine, pormi un'altra domanda che pu÷ apparire intempestiva: Ma questa guerra, ammesso che si potesse fare, si doveva fare? La connessione fra le due domande deriva dal fatto che, se ² vero che un'azione doverosa deve essere anche lecita, non ² altrettanto vero che un'azione sia doverosa per il solo fatto di essere lecita". Riproponeva alla fine l'interrogativo: "Ž ormai da pið di un mese che ogni giorno che passa ci domandiamo, con crescente inquietudine: Ma questa guerra si doveva fare? E se si doveva fare, a quali condizioni e entro quali limiti si doveva fare?". E concludeva affermando: "la nostra coscienza ² turbata".

Il 15 maggio 1999, durante la guerra nei Balcani, Bobbio inviava un messaggio agli organizzatori della presentazione, alla Fiera del libro di Torino, del sito web dedicato alla sua opera (il messaggio, rimasto inedito e ora conservato nell'archivio del Centro Studi Piero Gobetti, ² indirizzato a Bianca Guidetti Serra e a Carla Gobetti, rispettivamente presidente e direttrice del Centro Gobetti, presso il quale ² stato costruito il sito sull'opera di Bobbio). In questo messaggio ² contenuta quella che egli chiama una "confessione": "Da 'intellettuale' incallito, sono stato pið spettatore che attore. Anche in questi giorni, in cui il nostro tragico secolo ventesimo sta per finire tragicamente. Non mi faccio alcuna illusione che il prossimo sia per essere pið felice. Nonostante le prediche dai pið diversi pulpiti contro la violenza e le guerre, sinora gli uomini non hanno trovato altro rimedio alla violenza che la violenza. Ed ora assistiamo ad una guerra che trova la propria giustificazione nella difesa dei diritti umani, ma li difende violando sistematicamente anche i pið elementari diritti umani del paese che vuole salvare".

Post scriptum

Il 18 ottobre 2001, Alberto Papuzzi pubblicava su "La Stampa" una toccante paginetta di auguri a Bobbio per il novantaduesimo compleanno. Era iniziata da pochi giorni la guerra in Afghanistan, terribile risposta alla terribile tragedia dell'11 settembre. Papuzzi rievocava brevemente l'appassionato dibattito sulla guerra del Golfo, svoltosi dieci anni prima intorno alle dichiarazioni e agli articoli di Bobbio. In uno spazio esiguo, non si poteva dar conto della complessitö e problematicitö dell'atteggiamento di Bobbio, in quell'occasione. Ma Papuzzi ne rispecchiava e interpretava le ansie presenti, "sollevate dagli attentati terroristici, dalle minacce batteriologiche, dai bombardamenti americani e dalle bombe sbagliate". Concludeva con queste semplici parole, in cui mi sono subito riconosciuto: "Auguri, professore. Come ci manca il limpido soccorso del suo pensiero". Aggiungo: anche nel dissenso, qualche volta.

Ž passato un altro anno, un altro compleanno. Non sereno. Incombe la minaccia di una nuova guerra, o meglio (no: peggio) di un altro capitolo della "guerra infinita" lanciata dopo la tragedia dell'11 settembre. Di nuovo, contro l'Iraq di Saddam Hussein. Rileggo un articolo di Bobbio del 1 luglio 1993. Si riferiva ai bombardamenti effettuati pochi giorni prima su ordine di Clinton, in risposta ad un attentato fallito che sarebbe stato ordito, nell'aprile precedente, dai servizi segreti iracheni contro l'ex presidente Bush in visita al Kuwait. Un attacco missilistico improvviso, e sorprendente per gli stessi osservatori americani, che aveva provocato - come sempre - molte vittime civili. I diplomatici americani avevano fatto appello, a posteriori, all'art. 51 dello statuto dell'Onu, che riconosce "il diritto naturale di autotutela". Clinton aveva affermato che col bombardamento intendeva "inviare un messaggio a coloro che si dedicano al terrorismo sponsorizzato dagli stati". Inghilterra, Francia, Germania e Italia avevano subito dichiarato di ritenere giustificato e legittimo l'attacco. L'articolo di Bobbio, pubblicato su "La Stampa" del 1 luglio 1993, invece, era intitolato Questa volta dico no. Ne riporto alcuni passaggi.

"Considero Saddam Hussein uno degli uomini pið nefasti che siano apparsi sulla scena politica. Ci÷ non m'impedisce di considerare odiosi i ripetuti bombardamenti su Baghdad ordinati dal presidente Clinton. [...] Mi stupisce che, salvo qualche nobile eccezione la reazione dell'opinione pubblica sia stata piuttosto debole e, peggio ancora, sia stata quasi unanime l'adesione, che non si pu÷ giudicare se non vile e servile, dei governi occidentali. [...] Dal punto di vista politico, [l'azione] ² irresponsabile: invece di umiliare il nemico, avendo colpito sinora degli innocenti (soltanto degli innocenti), lo esalta. Dal punto di vista morale, [l'azione ²] iniqua. Anche restando entro i limiti della morale realistica, che sembra pið adatta a giudicare le azioni politiche, secondo cui 'il fine giustifica i mezzi', quei bombardamenti difficilmente possono essere giustificati [...]. Il fine si giustifica dalla sua bontö, i mezzi dalla loro efficacia. Se ² discutibile che sia da considerarsi un fine buono la punizione di un attentato fallito, quando la giusta reazione era consistita nel farlo fallire, si pu÷ considerare appropriato ed efficace il mezzo adottato per raggiungerlo, ovvero non la ricerca e punizione dei colpevoli, ma il tentativo di distruggere la sede in cui si presume si trovassero i servizi segreti che lo avevano ordinato?. [...]Il richiamo all'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite pu÷ convincere soltanto chi non lo conosce. Quanto poi al fine generale che si attribuisce ai bombardamenti di Clinton, la lotta contro ogni forma di terrorismo mondiale, mi sia concesso di sospirare. Chi ² senza peccato...".

Non intendo certo far dire a Bobbio quel che non ha detto, n³ sull'attentato terroristico dell'11 settembre, n³ sull'Afghanistan, n³ sulla minaccia di una nuova guerra all'Iraq. Osservo soltanto che il pensiero di Bobbio, se lo si vuole consultare, se ci si vuole ancora giovare del suo "limpido soccorso", come diceva benissimo Papuzzi, ² lÒ, nella mole ingente dei suoi scritti, con il suo rigore intellettuale e morale, e con le sue tensioni ed inquietudini. Ma farne un uso unilaterale, o troppo perentorio, o peggio dogmatico, abusando del principio d'autoritö, sarebbe contrario allo spirito e alla lettera dell'opera di Bobbio.

 



 

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