Avrà
molto da lavorare la Conferenza Intergovernativa,
molte sono infatti le questioni lasciate aperte dal
Trattato che istituisce la Costituzione europea redatto
dalla Convenzione, anche se il testo rappresenta un
passo decisivo verso la formazine di un’identità
politica dell’Europa unita. Questa l’opinione
di Furio Cerutti, curatore con Enno Rudolph del volume
Un'anima per l'Europa e Professore
straordinario di Filosofia politica all’Università
di Firenze.
Prof. Cerutti, nel libro Un'anima per l'Europa
lei parla di diversi concetti di identità;
in modo particolare mette in evidenza la differenza
tra identità politica e culturale. Può
chiarirci questa differenza?
Non si tratta evidentemente di due “cose”,
due entità ontologicamente separate, bensì
di due versanti insieme distinti ed interrelati della
nostra identità di gruppo. L’identità
culturale è l’insieme più o meno
organico di immagini del mondo, di meccanismi - per
esempio - causali in esso riconosciuti e di significati
metafisici, mitici, morali, estetici e così
via ad esso attribuiti, un insieme che si esprime
in forme appunto culturali, dalle più basse
alle più alte, come si usa dire.
Quella politica, soprattutto nella modernità
e in democrazia, contiene i valori politici o politicamente
rilevanti (dunque non tutti i valori della nostra
comunità sociale e culturale, come anche John
Rawls ha riconosciuto), i principi normativi supremi,
le narrazioni fondative, e in qualche caso mitiche,
che danno senso a valori e principi nell’evoluzione
del gruppo e della sua stessa identità. Questa
quindi non è necessariamente, come spesso si
vuol credere, un monolite che ci portiamo dietro dal
passato e che ci impedisce di essere altra cosa da
quello che siamo sempre stati. Un esempio di questa
visione ingessata del concetto di cui stiamo parlando
si trova nei discorsi su identità comunista
e identità socialista nella sinistra italiana.
E’
l’identità politica allora che costituisce
uno spazio su cui costruire un’entità
nuova come può essere l’Unione.
L’identità culturale ce la portiamo dietro,
ma pure la rielaboriamo e trasmettiamo a figli e nipoti
secondo le nostre scelte complessive di vita. Quella
politica, invece, ce la scegliamo quando fondiamo
un gruppo politico, un Stato o un partito, scegliendo
dalle varie culture quegli elementi che ci sembrano
più adatti a favorire la convivenza e la solidarietà
e scartandone altri, come la soggezione della politica
a una religione o a una filosofia, che vanno bene
agli uni e non agli altri. Essa contiene non solo
un progetto (di essere uno Stato il più egualitario
o il più liberale possibile), ma anche un vincolo
normativo a realizzarlo o almeno renderlo possibile.
Senza identità politica nessuna polis ha consistenza,
perché non si sa bene perché mai i cittadini
dovrebbero riconoscersi nelle stessi leggi; per questo
essa è una condizione della legittimità
(politica, non meramente legale) degli Stati e del
loro agire.
Veniamo alle questioni che riguardano il Trattato
che istituisce la Costituzione europea. Quali sono
state le risposte che il lavoro elaborato dalla Convenzione
ha trovato per consolidare un percorso comune verso
una comune identità?
Il semplice fatto di scrivere una Costituzione per
l’Europa promuove processi d’identificazione,
non solo perché mette in mano a tutti una definizione
dei comuni valori, principi e procedure, ma anche
perché lancia promuove e lancia un dibattito
pubblico e crea un polo simbolico di unità.
Il resto dipende dalla qualità del testo costituzionale
e dal contesto in cui esso viene alla luce.
Di buono questo testo ha, da un lato, l’integrazione
nella Costituzione, quindi con pieno vigore normativo,
della Carta dei diritti fondamentali, finora una dichiarazione
non vincolante; e dall’altro una generalizzazione
del voto a maggioranza nel Consiglio europeo che però
va a regime solo nel 2009 (per cinque anni dopo l’allargamento,
dunque, tutti i venticinque Stati membri avranno ampi
poteri di veto).
Va poi menzionato il fatto che all’interno del
testo, e precisamente nell’articolo art.I-5,
è proclamato il rispetto delle identità
nazionali, senza però perdere dimenticare quelle
regionali e locali; allo stesso modo è importante
citare il principio di sussidiarietà. L’Unione
europea non deve né può diventare una
supernazione e nemmeno una federazione di tipo classico,
ma deve mantenere un equilibrio (anzi, sarebbe forse
meglio parlare di un equilibrio-squilibrio) inedito
fra i diversi livelli sia delle istituzioni sia delle
lealtà soggettive dei governati.
Le
risposte trovate dalla Convenzione sono soddisfacenti
oppure la Conferenza Intergovernativa dovrà
lavorare ancora molto sul testo?
Trovo che le risposte contenute nel Trattato per la
Costituzione siano molto insoddisfacenti, ma non posso
aspettarmi niente di buono dalla Conferenza intergovernativa.
Se mettiamo da parte il rinvio del voto a maggioranza
generalizzato e la definizione, probabilmente infelice,
delle due presidenze (Consiglio intergovernativo e
Commissione sopranazionale), dobbiamo considerare
che l’avere scritto in un testo costituzionale
la paralizzante regola dell’unanimità
in politica estera e di sicurezza la rende molto più
definitiva di quanto non sia mai stata. Non vedo come
possano essere i governi nazionali, le cui élites
sono tutelate da quella norma, a cambiarla; è
come avere Erode a capo di un reparto ostetrico d’emergenza
e sperare che ridia vita e salute ad un feto già
deforme e malaticcio.
Cosa è esattamente che critica all’impostazione
della politica estera dell’Unione?
Il punto è che nella sostanza la Costituzione,
invece di essere il punto d’arrivo di una maturazione
(iniziata nei secondi anni Ottanta) dell’Ue
ad entità pienamente politica, ha certificato
la sua incapacità di compiere ora l’ultimo
passo con l’unificazione “comunitaria”
della politica estera. Se ne riparlerà, se
va bene, nella prossima generazione.
La clamorosa divisione sulla guerra in Iraq ha fin
troppo emblematicamente coinciso con la stesura di
queste regole costituzionali. Anziché sforzarsi
anzitutto di governare insieme, ognuno dialettizzando
la sua posizione con quella altrui, la globalizzazione
ed i suoi disordini, i governi europei preferiscono
rimanere separatamente i nani pretenziosi che contano
ben poco nella politica mondiale. Se a questo s’aggiunge
una crescente tendenza, soprattutto francese, ad infischiarsi
delle regole di bilancio di Eurolandia, l’immagine
di disunione si rinforza, demotivando oggi gli svedesi
e domani i britannici ad entrarvi. Questi fatti politici
macroscopici contano più di una proclamazione
costituzionale sulla possibilità o meno che
si formi in Europa un’identità politica.
E forse questa chance si restringerà ai paesi
del ceppo originario più Austria, Portogallo
e Spagna, mentre Regno Unito, i paesi del nord e dell’est
europeo preferiranno chiamarsi definitivamente fuori
dalla trasformazione dell’Unione in attore politico
capace di decidere ed agire. Anche per queste ragioni
occorre guardarsi dal sopravvalutare la capacità
della Costituzione di promuovere un’identificazione
dei cittadini con una polis incompleta e, in questa
fase, di precaria definizione.
Come giudica il dibattito mai sopito, e recentemente
riaperto, sulla questione dei valori che dovrebbero
essere chiaramente menzionati e riconosciuti all'interno
della Costituzione?
Aborro l’idea, fortemente illiberale, che un
consesso politico pretenda di dirmi quali valori culturali
(figuriamoci poi religiosi) io debba avere e quali
no. Quanto ai valori politici, dei quali soltanto
ci si deve occupare scrivendo una Costituzione, essi
sono definiti nell’art.I-2 del Trattato e poi
nella Carta dei diritti fondamentale e tanto basta.
Contano veramente i principi e le norme scritte dentro
la Costituzione, non i pistolotti ad essa premessi
(nella Costituzione italiana non ve n’è
traccia) e dominati dalla confusione fra identità
culturale e politica. Se i governi fossero insieme
saggi e furbi, togliendosi dai piedi una “grana”
e rinunciando alla retorica, essi nella Conferenza
cestinerebbero il Preambolo. Un testo non solo superfluo,
ma brutto nella cattiva filosofia della storia che
trasuda ed infine scandaloso nella trionfalistica
mancanza di ogni memoria delle tragedie e delle vittime
che sono ineliminabili dalla storia europea e dalla
stessa riflessione dalla quale è nato il processo
d’integrazione. Per tutto quello che i miei
coautori ed io abbiamo scritto in Un’anima per
l’Europa, vorrei precisare che non sarei quindi
contrario all’adesione della Turchia musulmana;
salvo che fra tradizioni autoritarie e questione curda
non vedo quando mai la Turchia possa soddisfare alle
condizioni liberaldemocratiche minime per far parte
dell’Unione, perfino del suo cerchio più
esterno e meno politico.
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