Abdullah
Gül è diventato l’undicesimo presidente
della Repubblica turca, il primo con un passato dichiaratamente
islamico. Lo hanno eletto al terzo turno, quando alla
Tbmm, la Grande assemblea nazionale turca, bastava il
50% più uno dei voti, ossia 276 deputati. Ne
ha ottenuti 339, praticamente solo quelli del suo partito
islamico-moderato, l’Akp, il Partito per la Giustizia
e lo sviluppo. Per la Turchia è l’inizio
di una nuova era. Il premier Recep Tayyip Erdogan è
riuscito a conquistare le tre più alte cariche
dello Stato: la presidenza del Consiglio, quella del
Parlamento e con l’elezione di Gül anche
quella della Repubblica. Risultati conseguiti nell’arco
di quattro mesi e dopo una crisi politico-istituzionale
che è stata la più grossa almeno degli
ultimi 20 anni.
I problemi sono iniziati ad aprile e proprio per la
candidatura dell’ex ministro degli Esteri alla
carica più importante dello Stato. Le consultazioni,
durate settimane, facevano pensare alla scelta di un
nome di compromesso, o almeno proveniente dalla schiere
meno conservatrici dell’Akp. I giornali si erano
sbizzarriti con le supposizioni. I più erano
certi che la scelta sarebbe ricaduta di Mehmet Vecdi
Gönül, ministro della Difesa, poco gradito
ai militari, ma con moglie a capo scoperto e senza il
passato da militante islamico che accomuna Erdogan e
Gül. La candidatura del ministro degli Esteri ha
invece reso manifesto l’intento, da parte del
Primo Ministro, di conquistare la carica più
alta della Repubblica con un uomo in tutto e per tutto
vicino alle sue scelte e al suo percorso. Al dato politico
si è aggiunto quello giuridico. Il Chp, il Partito
repubblicano del popolo, di orientamento laico, cercando
in tutti i modi di contrastare i propositi della maggioranza,
ha giocato la carta del numero legale, ossia l’articolo
102 della Costituzione, per il quale, perché
l’elezione del Presidente sia valida, è
necessario che in aula ci siano almeno 367 deputati.
Aveva annunciato che con i suoi oltre 100 deputati non
si presenterà allo scrutinio, apposta per far
mancare il numero legale, e minaccia il ricorso alla
Corte Costituzionale nel caso in cui l’Akp avesse
proceduto ugualmente.
Fra interpretazioni differenti della Anayasa, la legge
madre dello stato turco, si è arrivati al primo
voto del 27 aprile, quando nel primo pomeriggio, Abdullah
Gül venne votato, ma in Parlamento c’erano
solo 361 persone. Nelle stesse ore, Deniz Baykal si
trovava davanti all’Alta Corte per depositare
il ricorso. La sera, in un Paese sull’orlo di
una crisi di nervi, sul sito dell’establishment
militare veniva pubblicato un comunicato stampa in cui,
si dichiarava la “preoccupazione” per il
dibattitto sulla laicità che si stava svolgendo
nel Paese, e aggiungeva: “Non deve essere dimenticato
che le forze armate turche sono una parte in questo
dibattito e sono protettrici determinate della laicità
(…) e pubblicheranno apertamente la loro posizione
e i loro atteggiamenti quando ciò diventerà
necessario. Nessuno deve aver dubbi a questo riguardo”.
Si tratta del secondo intervento diretto dopo la conferenza
dell’11 aprile, quando avevano chiesto “un
candidato laico, fedele ai principi della Repubblica
e alla Costituzione”.
Il Paese è sull’orlo della crisi di nervi.
La Borsa crolla. Il primo maggio la Corte Costituzionale,
con nove voti favorevoli e appena due contrari, bocciava
definitivamente Abdullah Gül. Il premier, costretto
a indire le elezioni anticipate, definisce la sentenza
“un proiettile sparato contro la democrazia”
e finisce sotto inchiesta da parte della Procura di
Ankara per oltraggio all’ordinamento giudiziario.
Per la Turchia iniziava una campagna elettorale senza
esclusione di colpi. In tutto il Paese milioni di persone
scendevano in piazza per le “Marce per la Repubblica”.
Erdogan rispondeva con una riforma costituzionale che
sembrava fatta ad hoc per alimentare lo scontro fra
laici e islamici all’interno del Paese. Il pacchetto
prevedeva l’elezione diretta del capo dello Stato
e una serie di norme che, secondo molti costituzionalisti,
toglievano competenze al Parlamento e all’Alta
Corte. Ahmet Necdet Sezer, presidente della Repubblica
uscente, cercava in tutti i modi consentitigli dalla
legge di fermare la riforma, ma il massimo che riusciva
a ottenere era l’indizione di un referendum, che
si terrà il prossimo 21 ottobre.
Il 22 luglio arrivava il voto e il risultato sorprendeva
tutti. Con il 46.8% l’Akp ha stravinto le elezioni.
Il Chp arriva a malapena al 20%. Il Mhp, il Partito
Nazionalista a cui fanno riferimento i Lupi Grigi ha
portato a casa un lusinghiero 14% e sono entrati in
Parlamento anche i curdi. Nessuno, nemmeno Erdogan,
si aspettava un’affermazione del genere. Il resto
è storia recente. Il 25 luglio, Abdullah Gül,
in una conferenza stampa annunciata in pompa magna con
24 ore di anticipo, affermava: “Visto il risultato
elettorale non posso dire che non sarò candidato,
devo ascoltare il mio popolo”. Il 13 agosto veniva
riconfermato nella corsa alla carica più alta
della Repubblica.
Adesso che è stato eletto deve dimostrare di
essere veramente imparziale. La prova più importante
sarà, fra settembre e ottobre la nuova Anayasa,
la Costituzione della Repubblica turca, la prima dopo
quella del 1982, figlia del colpo di Stato del 1980.
Fra alcune modifiche che rendono la Turchia più
moderna e che piaceranno sicuramente a Bruxelles, ce
ne sono però altre che mirano a indebolire il
potere militare e giudiziario e che vengono guardate
con giusto sospetto, se si pensa che si tratta di due
fra gli apparati più laici dello Stato, quelli
su cui l’islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan
non è ancora riuscito a mettere le mani. In realtà
la nuova bozza della legge madre dello Stato turco potrebbe
procurargli con pochi problemi con tutte le altre formazioni
politiche all’interno del Parlamento. Il Chp,
il Partito repubblicano del Popolo, ha fatto sapere
che entrerà in aula a votare solo se verrà
annullata l’immunità parlamentare per deputati
e ministri. Il Dtp, il partito curdo per la società
democratica, ha chiesto il riconoscimento delle loro
peculiarità, culturali e politiche. Ma su questo
punto, prima di fare concessioni, Erdogan dovrà
fare i conti con il Mhp, il Partito nazionalista. Ma
queste non sono certo le cose che stanno maggiormente
a cuore al premier. La nuova Costituzione, infatti,
presentata come più democratica a Bruxelles,
darà anche nuove garanzie a minoranze etniche
e donne, ma soprattutto servirà a rafforzare
ancora di più lo strapotere di Erdogan, indebolendo
la Corte Costituzionale, l’esercito e lo stesso
Presidente della Repubblica. Ed è praticamente
impossibile che il premier incontri resistenze, visto
che a firmare tutte le sue leggi sarà il nuovo
Capo dello Stato Abdullah Gul. Non rimane altro da sperare
che siano in buona fede.
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