Erdogan,
vittorioso nelle elezioni del 22 luglio, annuncia che
andrà avanti nel “sogno europeo”
e lancia la sfida per Istanbul capitale europea della
cultura nel 2010. Un gesto strategico e simbolico per
dimostrare che nel suo Paese, ancora non ammesso a far
parte dell’Unione, lo spirito europeo è
presente e convive con le radici storiche e religiose
che risalgono all’Impero ottomano.
Il cammino della Turchia verso l’Unione europea
è, però, ancora tutto in salita. Durerà
a lungo, almeno fino al 2014, si dice nei Palazzi di
Bruxelles dove ormai da quasi dieci anni il capitolo
è studiato in tutti i suoi aspetti. E poi, chissà.
Perché troppe sono le questioni non risolte e
molti gli ostacoli incontrati da quando nel 1999 il
Consiglio di Helsinki riconobbe ufficialmente la candidatura
della Turchia.
Come per ogni evento internazionale di rilievo, le
considerazioni a favore e quelle contrarie si contrappongono
in un fitto dibattito. La partita dell’adesione
si gioca sul piano della convenienza economica, dell’opportunità
politica, dell’impatto sociale, della sfera religiosa
e culturale. Si tratta di un processo complesso e difficile
secondo i più ottimisti, impossibile e anzi non
auspicabile secondo chi avversa un ulteriore allargamento
dell’Europa unita.
I requisiti richiesti per la chiusura positiva dei negoziati,
vengono riassunti a Bruxelles sostanzialmente in tre
punti. La Turchia deve dimostrare di avere una democrazia
stabile, garante dello Stato di diritto e della tutela
dei diritti umani e delle minoranze; deve saper rendere
funzionante un’economia aperta alle leggi del
mercato; deve recepire nel proprio ordinamento la legislazione
dell’Unione. Dei 35 capitoli che racchiudono gli
obiettivi fissati, attualmente è stato chiuso
solo quello della ricerca scientifica. Si riprenderà
con i capitoli sulla politica industriale e aziendale,
sull’unione economica e monetaria, su statistiche
e controllo finanziario.
Con l’ingresso della Turchia, almeno per i primi
decenni, sono già previste conseguenze economiche
pesanti per l’Unione europea, in particolare nel
settore agricolo e nella ripartizione dei fondi che
l’Ue riserva alle aree meno sviluppate. Tuttavia,
vengono anche evidenziati gli indicatori economici che
giocano a favore della chiusura positiva del negoziato.
Dal 2002, quando Erdogan ha preso la guida del Paese,
il prodotto interno lordo è cresciuto ogni anno
tra il 6 e l’8 per cento, gli investimenti dall’estero
sono cresciuti, l’inflazione si è stabilizzata,
la disoccupazione è scesa sotto il 10 per cento.
Una fitta rete delle relazioni commerciali con i Paesi
europei fa ormai della Turchia un partner privilegiato.
Non a caso Emma Bonino ha scelto Ankara per la sua prima
missione come ministro italiano del Commercio estero,
dando un valore strategico all’interscambio turco
con l’Italia (13 miliardi di dollari, di cui due
in attivo a nostro vantaggio).
La questione energetica pone la Turchia al centro degli
scenari mondiali e infatti la Commissione di Bruxelles
dedica ampie sessioni di lavoro all’analisi della
ormai evidente “interdipendenza euro-turca”.
In Europa il bisogno di gas cresce vertiginosamente,
mentre scarseggiano i giacimenti. La Turchia dovrebbe
quindi diventare il ponte energetico per far affluire
direttamente dai Paesi ex-Urss e dall’Iran gas
e petrolio. Un progetto sempre più urgente considerata
l’aggressività con cui la Russia sta conducendo
la partita per assumere il monopolio delle risorse energetiche
e della gestione di gasdotti e oleodotti verso l’Europa.
Ma non si tratta solo di opportunità economiche:
il ruolo svolto dalla Turchia nei rapporti fra l’Occidente
e il Medio Oriente è centrale nelle analisi degli
esperti di equilibri internazionali. Prevale la convinzione
che se il Paese resterà fuori dall’Ue,
si verificherà lo spostamento del baricentro
del terrorismo internazionale verso Ovest. In alcuni
Stati dell’ex-Urss sono forti le spinte integraliste
di minoranze islamiche che alimentano il terrorismo
internazionale. In questa vasta area che arriva fino
alla Cina e alla Mongolia, la Turchia, attraverso i
mezzi di informazione e la propaganda di consistenti
minoranze turcofone, esercita un’influenza culturale.
Un motivo in più per accelerare l’integrazione
dello Stato turco nell’Unione europea. Sarebbe
d’altronde il proseguimento di scelte di campo
decise che la Turchia ha fatto nel Ventesimo secolo
a favore dell’Europa e dell’Occidente, dapprima
con la neutralità nel secondo conflitto mondiale,
poi contribuendo a fondare l’Onu nel 1945 e aderendo
alla Nato nel 1951, infine entrando nei maggiori organismi
internazionali, il Consiglio d’Europa, l’Ocse,
l’Osce, la Bers.
Ora che il quadro politico turco è stabilizzato,
a Bruxelles cresce anche la convinzione di poter concludere
positivamente i negoziati, ma non si sottovalutano i
tenaci i pregiudizi ideologici e religiosi che hanno
fin qui ostacolato le trattative.
Nicolas Sarkozy giura che “non c’è
posto nell’Ue per la Turchia”, alla quale
mancherebbe “la vocazione a entrare nell’Unione”.
Quindi, secondo il presidente francese, i negoziati
andrebbero bloccati e l’Europa dovrebbe definire
nei confini attuali le sue frontiere. Una presa di posizione
netta, in linea con il piglio decisionista del nuovo
inquilino dell’Eliseo, che già nei primi
appuntamenti internazionali, il G8, la conferenza di
pace per il Darfur, il vertice europeo di fine giugno,
ha così avvertito i partners europei che la Francia
intende determinare ancora di più le scelte politiche,
a livello comunitario.
Nel niet di Sarkozy all’ingresso della
Turchia nell’Ue si sommano considerazioni dettate
dal realismo: i costi dell’ingresso di una popolazione
di 72 milioni di turchi, molti ancora in stato di povertà;
la volontà di rassicurare il blocco industriale-agricolo-protezionista
che storicamente costituisce l’ossatura dell’economia
francese. Ma vi si intuisce anche il peso della recrudescenza
delle tesi sullo scontro tra civiltà, sullo spettro
dell’ “invasione” musulmana, sull’equazione
fra cristianità e Europa che negli ultimi anni
hanno intralciato il cammino dell’Europa.
La pretesa di attribuire all’Unione europea un’identità
religiosa derivante dalle sue “radici cristiane”,
è stata uno dei motivi di forte contrasto nei
lavori per la stesura della Costituzione europea, ed
è tornata in primo piano nel dibattito e nelle
tensioni generate dai negoziati con la Turchia. A suo
tempo, il cardinale Ratzinger ammoniva che l’apertura
dell’Unione europea a Paesi islamici avrebbe provocato
una perdita di identità dell’Europa cristiana.
Poi, nel novembre 2006, Benedetto XVI è andato
a Istanbul e ha detto di appoggiare il desiderio del
Paese di entrare un giorno in Europa: un passo in avanti,
un segnale importante. Dopo la vittoria elettorale di
Erdogan, il Vaticano sembra ora disposto ad abbattere
il muro opposto alla Turchia, almeno stando alle recenti
dichiarazioni del cardinale Bastianini: “Ora diventa
importante che l’Ue prenda sul serio il negoziato”.
In primo piano il grande capitolo dei diritti umani
e civili. L’Unione europea ha chiesto e ottenuto
dalla Turchia l’abolizione della pena di morte,
ma dovrà chiedere ancora molto al governo turco
sul piano della tutela delle minoranze, degli intellettuali
e degli artisti che con le loro opere denunciano le
ingiustizie e la corruzione politica diffuse, dei bambini
spesso costretti a lavori faticosi, delle donne, dei
malati, dei detenuti ai quali ancora viene inflitta
la tortura. Molto deve ancora essere fatto nel campo
dei diritti del lavoro, e moltissimo per la libertà
di associazione, di informazione e di stampa. Il premio
Nobel Ohran Pamuk è stato avversato per le sue
prese di posizione nella storica polemica sulle persecuzioni
degli armeni e dei curdi, ha rischiato il carcere, ha
ricevuto minacce di morte. Sorte peggiore è capitata
al suo amico, lo scrittore armeno-turco Hran Dink che
è stato ucciso, dopo essere stato bersaglio di
una lunga tortura psicologica.
Rimangono irrisolte tre questioni etnico-politiche
di estrema gravità: quella della discriminazione
della minoranza curda; la questione cipriota, con l’isola
tuttora divisa nelle due parti turca e greco-cipriota;
il dramma armeno, con il rifiuto della Turchia di riconoscere
e assumersi la responsabilità di uno dei più
gravi genocidi della storia. Argomenti che riconducono
al nazionalismo che si alimenta dell’intolleranza
religiosa e dell’integralismo di una parte consistente
della popolazione, al fianco della quale sta però
crescendo una borghesia laica che vuole difendere l’indipendenza
della Repubblica dalle autorità religiose.
La Turchia non è uno Stato islamico, anche se
la popolazione è per il 99 per cento musulmana.
L’ordinamento statale e le fonti del diritto penale
e civile turco non hanno radici nel Corano ma sono il
frutto della laicizzazione messa in atto dalla rivoluzione
kemalista di Ataturk che ha rivoluzionato la forma dello
Stato e ha inciso sulla vita privata, allentando le
gerarchie nella società e nelle famiglie, restituendo
dignità alla figura femminile. Le folle, guidate
soprattutto da donne, che sono scese in piazza la scorsa
primavera, hanno manifestato contro l’ipotesi
di candidatura alla presidenza della Repubblica del
ministro degli Esteri Abdullah Gul, noto per la sua
osservanza religiosa di stampo integralista e la cui
moglie indossa il velo. La Turchia laica, circa il 47
per cento dei cittadini, si è sollevata lanciando
un duro monito, rifiutando le spinte a ritroso verso
l’islamizzazione della nazione e l’indebolimento
della repubblica laica. E’ il segno di una coscienza
nuova, che in questi ultimi anni è cresciuta
anche grazie alla lungimiranza di Erdogan che ha proseguito
la modernizzazione del Paese iniziata negli anni ’70
con le riforme strutturali della società e dell’economia.
Alla guida del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo,
Erdogan ha dato segnali forti di rottura con una eredità
che pure appartiene alla sua forza politica, ha infatti
espulso personalità legate al Refah, l’ex
partito islamico di destra dichiarato incostituzionale,
e ha candidato 40 donne nelle liste per l’ultimo
rinnovo della Grande assemblea nazionale (Tbmn). In
Turchia è dunque in atto un processo di modernizzazione
che investe tutte le sfere della vita pubblica e privata,
e che solo un’Europa pigra e pavida può
far finta di non vedere, chiudendo le porte a un Paese
che vicende storiche e ragioni geopolitiche e religiose
hanno reso una cerniera indispensabile con una delle
zone più calde del mondo.
“Mi sembra orribile – ha detto Pamuk in
un’intervista a La Repubblica –
che quando si tratta di noi turchi si pensi innanzitutto
all’Islam. Mi sento fare continuamente domande
sulla religione, quasi sempre con un tono negativo che
mi fa infuriare. Chi vuol comprendere davvero il mio
Paese deve tener conto della sua storia, del suo sguardo
costantemente rivolto all’Europa”.
E adesso bisogna che sia l’Europa a volgere con
più convinzione, diremmo perfino con nuovo pathos,
lo sguardo verso la Turchia. Per impedire, ora che il
popolo turco ha confermato la fiducia a un governo islamico,
che il conflitto fra il regime moderato e le tentazioni
fondamentaliste torni a farsi aspro; per aiutare lo
sviluppo di un Paese che fa da anello per il dialogo
dell’Occidente con il vicino Oriente. E per veder
maturare in quell’area del mondo un Islam secolarizzato,
che abbia definitivamente assimilato il valore universale
della democrazia.
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