324 - 05.07.07


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Una partnership
sempre più fragile

Mario Del Pero
Federico Romero


Il testo che segue è un estratto dall’introduzione del libro Le crisi Transatlantiche. Continuità e trasformazioni, a cura di Mario Del Pero e Federico Romero, edito da Storia e Letteratura


Nei lunghi decenni della Guerra fredda Europa e Stati Uniti si sono assuefatti a sentirsi associati non solo in un’alleanza diplomatico- militare ma in un destino comune. Ciò non è stato messo in discussione dopo il 1989, quando anzi si è ritenuto che l’Occidente, avendo vinto la Guerra fredda, fosse più che mai l’indiscusso orizzonte del futuro. Ci si è chiesti però se l’alleanza diplomatico- militare avesse ancora un senso, vista la scomparsa dell’avversario, e la risposta degli anni Novanta è stata che una Nato, pur allargata e riconfigurata, tornava comoda a entrambi.

Ma la crisi esplosa all’inizio del 2003 sull’invasione dell’Iraq (e più in generale sulla gestione della “guerra al terrore”) ha improvvisamente aperto nuovi interrogativi più ampi: non tanto sulla Nato in quanto tale, ma sul desiderio e sull’utilità di proseguire nella partnership che negli ultimi 60 anni ha definito l’idea stessa di Occidente. Nel pensiero conservatore americano ricorre l’idea (ora un poco ammaccata eppure insita nell’enorme concentrazione di potenza di quel paese) che gli Stati Uniti debbano agire in proprio sullo scenario internazionale e fronteggiare le minacce solo con alleati fidati e scelti ad hoc, senza negoziare i termini di un’azione comune. Molti europei, e non solo quelli più tradizionalmente diffidenti verso gli Usa, vedrebbero invece l’Europa come potenziale campione di procedure e istituzioni multilaterali che, oltre a depotenziare le crisi, dovrebbero anche vincolare e tendenzialmente diminuire il divario di potenza di cui godono gli Usa.

Passato il momento più aspro della rottura, nelle diplomazie si è ora fatta strada l’idea di ricucire forme di cooperazione che, pur non negando le diversità di valutazioni e di interessi, cerchino non di meno di minimizzare gli attriti trans-atlantici e realizzare tutte le sinergie possibili. Tra gli studiosi, così come nel dibattito pubblico, ci si interroga sulla possibilità, e ovviamente sulla desiderabilità, che l’Occidente si scinda e si frammenti, con ogni spezzone intento a perseguire i propri interessi, o viceversa sulla sua fondamentale, necessaria unitarietà e sui mezzi per riaffermarla. Non si tratta solo di una questione analitica, o di una preferenza politico-ideologica, ma di un interrogativo angoscioso e necessariamente informe sui contorni del futuro e delle sfide che esso porrà. E non si è infatti giunti a risposte univoche, o anche solo nette, pur a tre anni di distanza dalla deflagrazione.

Quella che probabilmente comincia a delinearsi oggi è una dinamica più complessa della secca alternativa che molti commentatori hanno posto negli ultimi tre anni: una rottura epocale in cui perisce la nozione stessa di Occidente, oppure un’altra delle molte crisi che hanno punteggiato la storia dei rapporti euro-americani in modo ricorrente, e che sono state regolarmente superate. Siamo più probabilmente di fronte all’incedere accelerato di una divaricazione storica che avanza, pur in un contesto di fortissima interdipendenza e comunanza. Noi europei non abbiamo più, infatti, il potente cemento che derivava dalla grande debolezza e vulnerabilità di fronte a un avversario comune e non abbiamo neanche più quella percezione – così pervasiva tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta – che Europa e Stati Uniti stessero convergendo verso un modello largamente comune di società. Per gli Stati Uniti l’Europa è ovviamente meno centrale e importante ora che la faglia fondamentale di crisi non passa più per il nostro continente, e la libertà di manovra e di azione risolutiva sembra più preziosa dei vantaggi intangibili delle alleanze e del consenso internazionale. Le reciproche animosità pubbliche e le crescenti diffidenze culturali paiono riflettere – e ovviamente incrementare – queste condizioni che spingono verso la distanza e lo straniamento.

Ma è altrettanto vero che Europa e Stati Uniti rimangono fortemente congiunti da una miriade di fattori assai rilevanti: valori ideologici e stili di vita non solo largamente condivisi, ma ampiamente caratterizzanti rispetto al resto del mondo; assenza di minacce alla sicurezza o ai principali interessi reciproci; densissimi legami finanziari e commerciali tra economie fittamente interconnesse; discorsi culturali (sia di élite sia di massa) largamente compartecipati; reticoli di relazioni, associazioni, collegamenti e scambi tra molte componenti di entrambe le società; oltre ovviamente alle istituzioni, procedure e abitudini comuni maturate in più di mezzo secolo non solo di alleanza, ma di fittissima cooperazione e interscambio. Non a caso nel discorso degli ottimisti – quelli che ritengono che questa crisi non sia essenzialmente diversa dalle precedenti, e che l’unità d’intenti e d’azione si ristabilirà – ricorre sempre la metafora suggestiva, seppur analiticamente fuorviante, della famiglia (occidentale più ancora che atlantica) i cui legami non possono essere spezzati da dissidi ricorrenti e fisiologici.

 

 

 



 

 

 

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