Il testo
che segue è un estratto dall’introduzione
del libro Le crisi Transatlantiche. Continuità
e trasformazioni, a cura di Mario Del Pero e Federico
Romero, edito da Storia
e Letteratura
Nei lunghi decenni della Guerra fredda Europa e Stati
Uniti si sono assuefatti a sentirsi associati non solo
in un’alleanza diplomatico- militare ma in un
destino comune. Ciò non è stato messo
in discussione dopo il 1989, quando anzi si è
ritenuto che l’Occidente, avendo vinto la Guerra
fredda, fosse più che mai l’indiscusso
orizzonte del futuro. Ci si è chiesti però
se l’alleanza diplomatico- militare avesse ancora
un senso, vista la scomparsa dell’avversario,
e la risposta degli anni Novanta è stata che
una Nato, pur allargata e riconfigurata, tornava comoda
a entrambi.
Ma la crisi esplosa all’inizio del 2003 sull’invasione
dell’Iraq (e più in generale sulla gestione
della “guerra al terrore”) ha improvvisamente
aperto nuovi interrogativi più ampi: non tanto
sulla Nato in quanto tale, ma sul desiderio e sull’utilità
di proseguire nella partnership che negli ultimi
60 anni ha definito l’idea stessa di Occidente.
Nel pensiero conservatore americano ricorre l’idea
(ora un poco ammaccata eppure insita nell’enorme
concentrazione di potenza di quel paese) che gli Stati
Uniti debbano agire in proprio sullo scenario internazionale
e fronteggiare le minacce solo con alleati fidati e
scelti ad hoc, senza negoziare i termini di
un’azione comune. Molti europei, e non solo quelli
più tradizionalmente diffidenti verso gli Usa,
vedrebbero invece l’Europa come potenziale campione
di procedure e istituzioni multilaterali che, oltre
a depotenziare le crisi, dovrebbero anche vincolare
e tendenzialmente diminuire il divario di potenza di
cui godono gli Usa.
Passato il momento più aspro della rottura,
nelle diplomazie si è ora fatta strada l’idea
di ricucire forme di cooperazione che, pur non negando
le diversità di valutazioni e di interessi, cerchino
non di meno di minimizzare gli attriti trans-atlantici
e realizzare tutte le sinergie possibili. Tra gli studiosi,
così come nel dibattito pubblico, ci si interroga
sulla possibilità, e ovviamente sulla desiderabilità,
che l’Occidente si scinda e si frammenti, con
ogni spezzone intento a perseguire i propri interessi,
o viceversa sulla sua fondamentale, necessaria unitarietà
e sui mezzi per riaffermarla. Non si tratta solo di
una questione analitica, o di una preferenza politico-ideologica,
ma di un interrogativo angoscioso e necessariamente
informe sui contorni del futuro e delle sfide che esso
porrà. E non si è infatti giunti a risposte
univoche, o anche solo nette, pur a tre anni di distanza
dalla deflagrazione.
Quella che probabilmente comincia a delinearsi oggi
è una dinamica più complessa della secca
alternativa che molti commentatori hanno posto negli
ultimi tre anni: una rottura epocale in cui perisce
la nozione stessa di Occidente, oppure un’altra
delle molte crisi che hanno punteggiato la storia dei
rapporti euro-americani in modo ricorrente, e che sono
state regolarmente superate. Siamo più probabilmente
di fronte all’incedere accelerato di una divaricazione
storica che avanza, pur in un contesto di fortissima
interdipendenza e comunanza. Noi europei non abbiamo
più, infatti, il potente cemento che derivava
dalla grande debolezza e vulnerabilità di fronte
a un avversario comune e non abbiamo neanche più
quella percezione – così pervasiva tra
gli anni Cinquanta e gli anni Settanta – che Europa
e Stati Uniti stessero convergendo verso un modello
largamente comune di società. Per gli Stati Uniti
l’Europa è ovviamente meno centrale e importante
ora che la faglia fondamentale di crisi non passa più
per il nostro continente, e la libertà di manovra
e di azione risolutiva sembra più preziosa dei
vantaggi intangibili delle alleanze e del consenso internazionale.
Le reciproche animosità pubbliche e le crescenti
diffidenze culturali paiono riflettere – e ovviamente
incrementare – queste condizioni che spingono
verso la distanza e lo straniamento.
Ma è altrettanto vero che Europa e Stati Uniti
rimangono fortemente congiunti da una miriade di fattori
assai rilevanti: valori ideologici e stili di vita non
solo largamente condivisi, ma ampiamente caratterizzanti
rispetto al resto del mondo; assenza di minacce alla
sicurezza o ai principali interessi reciproci; densissimi
legami finanziari e commerciali tra economie fittamente
interconnesse; discorsi culturali (sia di élite
sia di massa) largamente compartecipati; reticoli
di relazioni, associazioni, collegamenti e scambi tra
molte componenti di entrambe le società; oltre
ovviamente alle istituzioni, procedure e abitudini comuni
maturate in più di mezzo secolo non solo di alleanza,
ma di fittissima cooperazione e interscambio. Non a
caso nel discorso degli ottimisti – quelli che
ritengono che questa crisi non sia essenzialmente diversa
dalle precedenti, e che l’unità d’intenti
e d’azione si ristabilirà – ricorre
sempre la metafora suggestiva, seppur analiticamente
fuorviante, della famiglia (occidentale più ancora
che atlantica) i cui legami non possono essere spezzati
da dissidi ricorrenti e fisiologici.
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