Parigi
- Nicolas Sarkozy è un grande uomo politico,
su questo non c’è alcun dubbio. L’egemonia
conquistata prima a destra e poi nel paese ne sono la
testimonianza, il successo alle elezioni del sei maggio
la conferma. La sua è una capacità politica
pragmatica, un mimetismo mobile che si serve della comunicazione
per infiltrare tutti i temi e rigirarli a proprio favore.
Un pragmatismo che lo svincola da un’ideologia
coattiva e gli rende movimento e spazio di manovra.
Questa libertà inspira il metodo che Sarkozy
ha potuto sperimentare nei cinque anni passati nei governi
di Jean Pierre Raffarin e Dominique de Villepin: creare
campi di rapporti di forza in cui assumere la parte
dell’oppositore al “vecchio”. Vecchio
di volta in volta declinato come ciò che non
funziona, ciò che ha portato la Francia o l’Europa
sull’orlo del baratro, ciò che i francesi
non vogliono, etc. Di fronte agli agenti della crisi
Sarkozy è naturalmente il rinnovatore, quello
che rimedierà ai danni perpetrati dagli “altri”.
Altri che di volta in volta prendono nelle sue parole
i sembianti dei socialisti, del Sessantotto, del Pensiero
Unico, della Banca Centrale, dell’euro, etc.
Dietro l’immagine della rupture, martellante
e totalizzante, la realtà di Sarkozy scompare
e le sue contraddizioni si dileguano. Rimane il paladino
del bene in perenne lotta con le forze del passato,
ché per conservarsi nella posizione vincente
Sarkozy è costretto a creare continui campi di
forza manichei. Il risultato è l’individuazione
infinita di nemici contro cui mobilitare le ansie del
cittadino e trascinarlo in una campagna elettorale permanente.
È dal 2002, da quella per l’elezione di
Jacques Chirac, che Sarkozy è in campagna e i
suoi primi giorni all’Eliseo non fanno presagire
nessuna inversione di tendenza.
Del resto l’attivismo e l’esposizione sono
necessità interne del sarkozismo, attributi che
non si possono eclissare neanche di fronte alle istituzioni
e alla presa di funzione ai vertici della Quinta Repubblica.
In passato il Presidente della République si
faceva necessariamente uomo ombra per incarnare una
carica che Charles de Gaulle aveva voluto come non partigiana.
Oggi invece, aiutato anche dalla riforma costituzionale
del 2001 che ha accorciato di due anni il mandato presidenziale,
il Presidente Sarkozy non può ritirarsi dalla
ribalta, deve prendere in carico tutto per alimentare
se stesso ed eliminare l’opposizione. Di fronte
al neo Presidente sono gli altri ad entrare nell’ombra:
il governo e il parlamento – esecutori della volontà
emanante dall’Eliseo – e l’opposizione
– ridotta al trascurabile rango del “vecchio”.
Di fronte al luccichio sfavillante della storia che
Sarkozy continua a raccontare ai francesi e al mondo,
le contraddizioni, dicevamo, scompaiono. Eppure sono
abbondanti e già visibili nei primi giorni di
mandato.
Esempi. Il debito pubblico: in campagna è una
piaga da risanare, all’Eliseo un accessorio della
crescita e dello sgravio fiscale. Il liberalismo: una
necessità quando parla ai capitani d’azienda,
un nemico quando si rivolge ai salariati che vuole proteggere.
Lo statalismo: roba vecchia da socialisti, tranne quando
la contingenza e lo spirito patriottico l’impongono.
Il pragmatismo sarkozista scopre le proprie contraddizioni
alla prova della realtà, ma, da calcolata strategia,
per ora a persistere è l’immagine del nuovo,
del Presidente che fa jogging, attivissimo su tutti
i fronti.
Presto, però, l’inquilino dell’Eliseo
dovrà fare i conti con i grandi potentati finanziari
e industriali, gli interessi rurali e la protesta operaia,
cioè con la maggioranza sociale che lo ha portato
dov’è. Il candidato Sarkozy li ha “pragmaticamente”
messi insieme contro qualcosa (il vecchio, il pensiero
unico, il sessantotto, i socialisti, l’assistenzialismo,
etc.) e ora dovrà comporre positivamente gli
interessi di tutti. Dalla parola alla prova dei fatti,
dalla campagna al test del governo.
Quella parte maggioritaria della classe lavoratrice
che prima delle ultime elezioni votava Le Pen, lo faceva
per protesta e, non dovendo il lepenismo dar prova al
governo, era in qualche modo la garanzia della protesta
permanente. Ora che questo voto è diventato uno
dei pilastri del blocco sociale sarkozista, il Presidente
non ha alibi, tanto più che, dando una sterzata
presidenzialista alle istituzioni della Quinta Repubblica,
non potrà giovarsi neanche del Primo ministro
fusibile da far saltare nei momenti di difficoltà.
Anche per questo il pragmatismo sarkozista ha bisogno
di essere continuamente in campagna, d’incarnare
l’opposizione anche dal governo.
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