L’energia.
Un argomento che ormai – più che essere
semplicemente all’ordine del giorno – fa
il bello e il cattivo tempo in ogni discussione che
riguardi il futuro dell’Europa. Oltre che del
pianeta, ovviamente. Niente di particolarmente nuovo,
sia chiaro. Ma il 2006 ha forse rappresentato l’anno
della svolta almeno da un punto di vista: l’opinione
pubblica, se non altro quella europea, è ormai
sensibilizzata all’argomento e sottoposta a dosi
massicce d’informazione a riguardo. Energia è
ormai la parola magica (e temuta) che ogni classe dirigente
d’Europa si sogna la notte. Ogni classe dirigente
che abbia a cuore lo sviluppo dell’Unione. Perché,
è ovvio, energia significa ambiente. O meglio:
senza il riferimento all’ambiente il tema dell’energia
non ha più senso di esistere. Ma energia significa
anche conflitto fra interessi non sempre convergenti.
E non c’è bisogno di attraversare l’Atlantico
per raggiungere gli Stati Uniti e la loro “allergia”
ai vincoli di Kyoto. Basta restare di qua dall’Oceano
e ripercorrere mentalmente quanto negli ultimi due anni
l’approvvigionamento energetico sia stato il termometro
(anche letteralmente) sulla base del quale i membri
della famiglia europea si sono dovuti regolare.
Posizione dominante da questo punto di vista –
non c’è bisogno di grande attitudine all’analisi
geopolitica per capirlo – è quella della
Russia. Almeno fino a quando petrolio e gas naturale
saranno irrinunciabili. In occasione delle crisi politico-diplomatiche
cui abbiamo assistito prima fra Ucraina e Russia e poi
fra Bielorussia e Russia, siamo puntualmente ricorsi
a metafore belliche per descrivere la situazione: la
guerra del gas. Un fatto che dovrebbe dirla lunga sul
livello di allerta che l’argomento suscita. Certo:
c’è chi delle carenze nel rifornimento
di gas ne fa le spese in maniera più pesante
e chi invece ne accusa le ricadute solo di riflesso.
In Italia, ad esempio, le cronache ci raccontano che
smettiamo in massa di cucinare pollo alla cacciatora
dopo aver ascoltato il servizio del tiggì sull’aviaria
in Estremo Oriente. Poi, magari, quando i casi si moltiplicano
anche alle porte di casa nostra, ormai ci abbiamo fatto
l’orecchio e abbiamo smesso di preoccuparci.
Con il gas – fatte le dovute proporzioni –
è successo qualcosa di simile. L’Italia,
nella famiglia dei Ventisette, è certamente un
Paese che ha avuto ripercussioni contenute in occasione
dei bisticci sui rifornimenti di gas fra Mosca e Kiev
prima e fra Mosca e Minsk poi. Il nostro Paese dipende
infatti dal gas russo per il 29%. Una quantità
niente affatto irrilevante. Ma che passa del tutto in
secondo piano (e giustifica dunque solo in parte l’allarmismo
spesso gratuito fatto a spese dell’utente ultimo
che, sempre stando alle cronache italiane, raramente
si è visto costretto a passare l’inverno
senza riscaldamento in casa) se paragonato con il dato
della Germania (44%), dell’Austria (60%), della
Polonia (63%). Fino ad arrivare ai Paesi Baltici che
dipendono per il 100% dalle risorse di combustibile
naturale che arrivano dalla Federazione Russa.
Certo, non va dimenticato che si parla esclusivamente
di gas. Ma questi dati rendono più comprensibile
la posizione critica che Polonia, Lituania, Lettonia
ed Estonia hanno assunto nei confronti di Germania e
Russia e del progetto North Stream, il gasdotto del
Baltico, tenuto a battesimo dall’ex Cancelliere
Gerhard Schroeder e dal Presidente russo Vladimir Putin.
La pipeline che fa viaggiare il gas allo stato
liquido sul fondo del Mar Baltico, direttamente fino
alla Germania. Lasciando all’asciutto Varsavia,
Vilnius, Riga e Tallin, tagliate fuori dalla linea d’approvvigionamento.
In questo panorama delicato e cruciale, la posizione
della Lituania assume un particolare rilievo ed interesse.
In vista della sua entrata nell’Unione Europea,
avvenuta il 1 maggio 2004, Vilnius si era impegnata
con Bruxelles a rispettare determinate condizioni. Nel
trattato di adesione compariva anche l’impegno
a chiudere, entro il 31 dicembre 2009, la centrale nucleare
di Ignalina. Sono ben nove gli impianti nucleari nell’area
del Mar Baltico: Barseback (ad appena 20 Km da Copenhagen),
Forsmacrk, Oskarshamn e Ringhals, in Svezia; Loviisa
e Olkiluoto, in Finlandia; Leningrad, in Russia; Greifswald,
in Germania. E poi, appunto, Ignalina, in Lituania.
Il progetto di costruzione del sito risale al 1974 e
prevedeva tre reattori. Si tratta del tipo tristemente
famoso RBMK-1500, lo stesso di Chernobyl. Il primo reattore
entra in servizio nel 1983. Il secondo, coincidenza
nefasta, prevede l’apertura per il 1986 ma ritarda
poi di un anno l’inaugurazione proprio a causa
del disastro che sconvolse la Bielorussia il 26 aprile
di quell’anno. Il terzo reattore è rimasto
incompiuto. Parliamo insomma di una tecnologia di epoca
sovietica che, fosse anche soltanto per l’impressione
negativa che inevitabilmente l’opinione pubblica
europea associa con la coppia di parole “nucleare”
e “sovietico”, è destinata a rappresentare
il passato. Sostituita, magari, dai reattori di quarta
generazione, prototipo alla realizzazione del quale
stanno lavorando i ricercatori di una decina di Paesi.
In testa i fisici francesi, in concomitanza con il fatto
che proprio Parigi ha assunto nel 2006 e per tre anni
la presidenza del Forum Internazionale Generazione IV,
l’iniziativa pilota del settore, avviata nel 2000.
Ma la chiave di volta è proprio questa: il piccolo
stato baltico che non raggiunge nemmeno i 3 milioni
e mezzo di abitanti e che, insieme alla Francia, è
lo Stato che più al mondo dipende dal nucleare,
non ci sta a cambiare pagina del tutto. E vuole di nuovo
scommettere sull’energia dell’atomo. Appena
qualche tempo fa il Direttore del Dipartimento per le
Politiche Economiche del ministero lituano degli Affari
Esteri, Deividas Matulionis, dichiarava ai microfoni
di EuroNews che “il nucleare è la sola
opzione commerciale verosimile per affrontare il problema
delle emissioni di Co2”. Aggiungendo che tutte
le altre ipotesi sono economicamente più svantaggiose
e che quindi “il rilancio del nucleare è
essenziale”. Ma la Lituania ha progetti ambizioni
e punta non soltanto a diventare il traino per i Paesi
dell’aera, ma anche, logicamente, a fare affari
mettendosi nella posizione di poter vendere energia.
In cantiere non per nulla c’è la costruzione
di nuove centrali che, almeno sulla carta, dovrebbero
essere operative nel 2015. Un investimento da 6 miliardi
di euro difeso a spada tratta dal Presidente lituano
Valdas Adamkus.
Una scelta politica che ben si sposa con le conclusioni
del summit europeo di inizio marzo: l’impegno
dell’Unione Europea a ridurre del 20% le emissioni
di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990
e, parallelamente, l’aumento del 20% delle energie
rinnovabili. Il nucleare, che come noto non è
un’energia rinnovabile, è pur tuttavia
un’energia pulita, che evita l’emissione
di anidride carbonica nell’atmosfera. È
proprio questo il grande punto messo a segno dalla Francia
di Jacques Chirac che si è così congedato
a testa alta dal suo ultimo vertice europeo: la famiglia
dei Ventisette tiene ufficialmente aperta la porta all’energia
nucleare come strumento per la lotta (ritenuta prioritaria)
al riscaldamento del pianeta. Ecco allora che non può
apparire un caso che alla vigilia dell’anniversario
della catastrofe di Chernobyl (lo scorso 25 aprile)
una delegazione del Cea (Commissariato per l'energia
atomica), massimo organo di ricerca pubblico francese,
si sia recato in visita ufficiale a al sito di Ignalina.
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