322 - 07.06.07


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La Lituania scommette sul nucleare

Andrea Neri


L’energia. Un argomento che ormai – più che essere semplicemente all’ordine del giorno – fa il bello e il cattivo tempo in ogni discussione che riguardi il futuro dell’Europa. Oltre che del pianeta, ovviamente. Niente di particolarmente nuovo, sia chiaro. Ma il 2006 ha forse rappresentato l’anno della svolta almeno da un punto di vista: l’opinione pubblica, se non altro quella europea, è ormai sensibilizzata all’argomento e sottoposta a dosi massicce d’informazione a riguardo. Energia è ormai la parola magica (e temuta) che ogni classe dirigente d’Europa si sogna la notte. Ogni classe dirigente che abbia a cuore lo sviluppo dell’Unione. Perché, è ovvio, energia significa ambiente. O meglio: senza il riferimento all’ambiente il tema dell’energia non ha più senso di esistere. Ma energia significa anche conflitto fra interessi non sempre convergenti. E non c’è bisogno di attraversare l’Atlantico per raggiungere gli Stati Uniti e la loro “allergia” ai vincoli di Kyoto. Basta restare di qua dall’Oceano e ripercorrere mentalmente quanto negli ultimi due anni l’approvvigionamento energetico sia stato il termometro (anche letteralmente) sulla base del quale i membri della famiglia europea si sono dovuti regolare.

Posizione dominante da questo punto di vista – non c’è bisogno di grande attitudine all’analisi geopolitica per capirlo – è quella della Russia. Almeno fino a quando petrolio e gas naturale saranno irrinunciabili. In occasione delle crisi politico-diplomatiche cui abbiamo assistito prima fra Ucraina e Russia e poi fra Bielorussia e Russia, siamo puntualmente ricorsi a metafore belliche per descrivere la situazione: la guerra del gas. Un fatto che dovrebbe dirla lunga sul livello di allerta che l’argomento suscita. Certo: c’è chi delle carenze nel rifornimento di gas ne fa le spese in maniera più pesante e chi invece ne accusa le ricadute solo di riflesso. In Italia, ad esempio, le cronache ci raccontano che smettiamo in massa di cucinare pollo alla cacciatora dopo aver ascoltato il servizio del tiggì sull’aviaria in Estremo Oriente. Poi, magari, quando i casi si moltiplicano anche alle porte di casa nostra, ormai ci abbiamo fatto l’orecchio e abbiamo smesso di preoccuparci.
Con il gas – fatte le dovute proporzioni – è successo qualcosa di simile. L’Italia, nella famiglia dei Ventisette, è certamente un Paese che ha avuto ripercussioni contenute in occasione dei bisticci sui rifornimenti di gas fra Mosca e Kiev prima e fra Mosca e Minsk poi. Il nostro Paese dipende infatti dal gas russo per il 29%. Una quantità niente affatto irrilevante. Ma che passa del tutto in secondo piano (e giustifica dunque solo in parte l’allarmismo spesso gratuito fatto a spese dell’utente ultimo che, sempre stando alle cronache italiane, raramente si è visto costretto a passare l’inverno senza riscaldamento in casa) se paragonato con il dato della Germania (44%), dell’Austria (60%), della Polonia (63%). Fino ad arrivare ai Paesi Baltici che dipendono per il 100% dalle risorse di combustibile naturale che arrivano dalla Federazione Russa.

Certo, non va dimenticato che si parla esclusivamente di gas. Ma questi dati rendono più comprensibile la posizione critica che Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia hanno assunto nei confronti di Germania e Russia e del progetto North Stream, il gasdotto del Baltico, tenuto a battesimo dall’ex Cancelliere Gerhard Schroeder e dal Presidente russo Vladimir Putin. La pipeline che fa viaggiare il gas allo stato liquido sul fondo del Mar Baltico, direttamente fino alla Germania. Lasciando all’asciutto Varsavia, Vilnius, Riga e Tallin, tagliate fuori dalla linea d’approvvigionamento. In questo panorama delicato e cruciale, la posizione della Lituania assume un particolare rilievo ed interesse.

In vista della sua entrata nell’Unione Europea, avvenuta il 1 maggio 2004, Vilnius si era impegnata con Bruxelles a rispettare determinate condizioni. Nel trattato di adesione compariva anche l’impegno a chiudere, entro il 31 dicembre 2009, la centrale nucleare di Ignalina. Sono ben nove gli impianti nucleari nell’area del Mar Baltico: Barseback (ad appena 20 Km da Copenhagen), Forsmacrk, Oskarshamn e Ringhals, in Svezia; Loviisa e Olkiluoto, in Finlandia; Leningrad, in Russia; Greifswald, in Germania. E poi, appunto, Ignalina, in Lituania. Il progetto di costruzione del sito risale al 1974 e prevedeva tre reattori. Si tratta del tipo tristemente famoso RBMK-1500, lo stesso di Chernobyl. Il primo reattore entra in servizio nel 1983. Il secondo, coincidenza nefasta, prevede l’apertura per il 1986 ma ritarda poi di un anno l’inaugurazione proprio a causa del disastro che sconvolse la Bielorussia il 26 aprile di quell’anno. Il terzo reattore è rimasto incompiuto. Parliamo insomma di una tecnologia di epoca sovietica che, fosse anche soltanto per l’impressione negativa che inevitabilmente l’opinione pubblica europea associa con la coppia di parole “nucleare” e “sovietico”, è destinata a rappresentare il passato. Sostituita, magari, dai reattori di quarta generazione, prototipo alla realizzazione del quale stanno lavorando i ricercatori di una decina di Paesi. In testa i fisici francesi, in concomitanza con il fatto che proprio Parigi ha assunto nel 2006 e per tre anni la presidenza del Forum Internazionale Generazione IV, l’iniziativa pilota del settore, avviata nel 2000.

Ma la chiave di volta è proprio questa: il piccolo stato baltico che non raggiunge nemmeno i 3 milioni e mezzo di abitanti e che, insieme alla Francia, è lo Stato che più al mondo dipende dal nucleare, non ci sta a cambiare pagina del tutto. E vuole di nuovo scommettere sull’energia dell’atomo. Appena qualche tempo fa il Direttore del Dipartimento per le Politiche Economiche del ministero lituano degli Affari Esteri, Deividas Matulionis, dichiarava ai microfoni di EuroNews che “il nucleare è la sola opzione commerciale verosimile per affrontare il problema delle emissioni di Co2”. Aggiungendo che tutte le altre ipotesi sono economicamente più svantaggiose e che quindi “il rilancio del nucleare è essenziale”. Ma la Lituania ha progetti ambizioni e punta non soltanto a diventare il traino per i Paesi dell’aera, ma anche, logicamente, a fare affari mettendosi nella posizione di poter vendere energia. In cantiere non per nulla c’è la costruzione di nuove centrali che, almeno sulla carta, dovrebbero essere operative nel 2015. Un investimento da 6 miliardi di euro difeso a spada tratta dal Presidente lituano Valdas Adamkus.

Una scelta politica che ben si sposa con le conclusioni del summit europeo di inizio marzo: l’impegno dell’Unione Europea a ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990 e, parallelamente, l’aumento del 20% delle energie rinnovabili. Il nucleare, che come noto non è un’energia rinnovabile, è pur tuttavia un’energia pulita, che evita l’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera. È proprio questo il grande punto messo a segno dalla Francia di Jacques Chirac che si è così congedato a testa alta dal suo ultimo vertice europeo: la famiglia dei Ventisette tiene ufficialmente aperta la porta all’energia nucleare come strumento per la lotta (ritenuta prioritaria) al riscaldamento del pianeta. Ecco allora che non può apparire un caso che alla vigilia dell’anniversario della catastrofe di Chernobyl (lo scorso 25 aprile) una delegazione del Cea (Commissariato per l'energia atomica), massimo organo di ricerca pubblico francese, si sia recato in visita ufficiale a al sito di Ignalina.

 



 

 

 

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