L’ecologia
è una specie di frontiera dei profitti, in un
gioco di intersezioni per cui, per quanto paradossale
possa sembrare alla luce della recente storia di movimenti
ambientalisti e di opinione, sarà proprio l’effetto
serra (additato dagli ambientalisti come il prodotto
di una gestione energetica e industriale sciagurata)
a salvare e rivalutare il nucleare (che non molto tempo
fa fu avversato con determinazione dagli stessi ambientalisti).
Paradosso? Assurdità? Ironia della Storia? Marc
Guillaume, ecnomista e sociologo francese autore che
ha dedicato molta attenzione, e qualche libro, ai temi
dello sviluppo ambientale, risponde centrando lo sguardo
laddove ecologia ed economia si toccano, a volte si
scontrano, sempre si influenzano, perché, spiega
Guillaume, “quando le risorse diventano sempre
più rare, l’inquinamento sale, e i vincoli
si fanno stringenti, i prezzi salgono e con essi i benefici”.
Nel 1973 lei ha scritto con Jacques Attali
L’antieconomia, un “contromanuale”
nel quale faceva riferimento alla corrente europea dell’economia
radicale, sensibile ai temi dell’ambiente e critica
dell’economismo come falso scientismo. A più
di trent’anni di distanza, che fine ha fatto questa
corrente?
Non è rimasto granché. Certo, questo
tipo di critica ha influenzato la sensibilità
ecologica allora nascente, si pensi all’importanza
di Galbraith in Europa, ma si può dire che per
trent’anni la critica della società dei
consumi, nelle sue componenti economico-politiche, ma
anche filosofiche o sociologiche (Marcuse), è
stata anestetizzata dalla crisi economica. Questa è
stata una grande occasione per lo sviluppo del capitalismo
nella sua forma più ideologica e ortodossa, una
specie di ritorno all’ordine: una volta arrestata
la crescita ed aumentata la disoccupazione, nel 1973,
non si poteva più criticare la crescita economica,
che significava impiego e benessere. Quindi: accelerazione
della fine del marxismo al punto che a tutt’oggi,
malgrado i tentativi di J. Derrida di conservarne la
forza critica, non esiste più come forza politica
viva; mentre rimane l’ecologia, sfortunatamente
sotto forme discutibili. Dalla fine degli anni ’90
la corrente altermondialista cerca in qualche modo di
ricomporre le varie anime del marxismo, ma in forme
locali e, mi sembra, non tanto influenti. In ogni modo
sono convinto che una critica radicale non possa più
darsi nel modo della resistenza, sia nella sua versione
frontale, marxista, sia nella sua versione molecolare,
alla Guattari. Mi sento un po’ triste a dirlo,
ma alla fine mi sembra che oggi l’appiattimento
ideologico e politico sia tale che forse l’unica
strategia è, per dirla con J. Baudrillard, attendere
semplicemente che il sistema imploda, che si suicidi
con un atto assolutamente imprevedibile.
Questa idea della crisi come preservazione
dell’ordine economico è ripresa nel suo
libro Virus Vert a proposito dell’ecologia. Lei
sostiene che l’opposizione tra ecologia ed economia
è una grande illusione, perché?
Gli americani parlano di green economy, perché
in fondo l’ecologia difende la natura, ma non
dimentichiamo che anche il dollaro è verde! Ogni
economista sa che è la rarità
che fa il prezzo, ovvero un dispositivo d’attribuzione
di risorse rare. Se l’abbondanza di una risorsa
la rende gratuita, quando la rarità diventa assoluta
non vi è più economia. Fino a poco tempo
fa pensavamo che l’aria fosse gratuita: beh, ora
anche l’aria pura è rara e quindi ha un
prezzo, in compenso quando non vi sarà più
aria allora finirà anche il mercato dell’aria.
In altri termini, quando le risorse rare diventano ancora
più rare, quando l’inquinamento diventa
più minaccioso, quando i vincoli ecologici diventano
stringenti, i prezzi salgono e i benefici anche. In
questo senso l’ecologia è una specie di
nuova frontiera per i profitti. Facciamo un altro esempio:
se da domani le pile al cadmio fossero proibite i produttori
sarebbero rovinati, ma se invece li si obbligasse ad
usare un cadmio di qualità il prezzo salirebbe
e per i fabbricanti sarebbe una buona notizia. Semmai
il punto è che la ristrutturazione economica
imposta dai vincoli ecologici crea dei vincenti e dei
perdenti. Si pensi al nucleare in Francia: Anne Lauvergeon,
presidente d'Areva, non può impedirsi di sorridere
quando parla dell’effetto serra perché
è esattamente ciò che salverà il
suo gruppo e forse il nucleare stesso nel mondo intero.
D’altronde anche i perdenti ci sono, e si lamentano,
da qui l’impressione che l’ecologia ostacoli
l’economia…
Qual è il suo avviso sul nucleare? Pensa
che sia una risorsa praticabile e che la Francia sia
quindi un buon modello per l’Europa?
Ho l’impressione che in questo momento vi sia
un consenso degli esperti in favore del nucleare. Negli
anni ’70 in Francia vi è stata un’opposizione
molto forte alla politica nucleare di Edf, che rispose
con grande professionalità: per una volta gli
ingegneri di Edf si sono trasformati in sociologi, passando
per il locale, convincendo i sindaci. Ma, come sottolineò
Puiseux all’epoca, rimaneva il problema delle
scorie: la radioattività dura per centinaia forse
migliaia di secoli, è semplicemente qualcosa
di eterno rispetto a voi e quindi fa paura. Forse qui
c’è un timore un po’ religioso, un’ansia
irrazionale, mentre credo che tecnicamente l’interramento
delle scorie non sia un grosso problema. E questo perché
un anno di produzione di nucleare nell’intera
Francia produce un volume di scorie corrispondente più
o meno a questa stanza, non è insomma difficile
seppellirle a 3-4 km di profondità in un suolo
granitico e antisismico. Perché allora tanta
paura? Non sarà che termini come “atomico”
e “nucleare” ricordano Hiroshima, rinviano
al nostro rapporto con l’apocalisse, al punto
che si preferiscono soluzioni completamente irragionevoli?
Penso al successo che sta riscontrando un altro metodo
di eliminazione dei rifiuti industriali, il cosiddetto
“sequestro della CO2”, che affianca un dispositivo
di cattura e sotterramento della CO2 alle centrali termiche
che funzionano a carbone. Claude Allègre ne ha
parlato al Senato come se fosse l’avvenire: di
carbone ne abbiamo ancora per secoli, dunque si può
finalmente rinunciare al nucleare e al petrolio. Si
vede bene l’interesse economico: una nuova tecnologia
di smaltimento di rifiuti vuol dire nuovi profitti.
Ma la cosa veramente stupefacente è che nessuno
ha obbiettato che la CO2 non è un rifiuto qualsiasi,
è una materia prima che va liquefatta, formerà
insomma un enorme lago sotterraneo ben più pericoloso
dell’uranio! Eppure, poiché non c’è
di mezzo l’atomo e le emozioni che suscita, sembra
una soluzione più ragionevole.
A suo avviso come è cambiata la percezione
di questi rischi legati allo sviluppo e quanto vi hanno
influito le tematiche ecologiche?
Direi che ci sono diverse componenti che hanno agito
contemporaneamente. Una componente essenziale è
l’industria e il mercato del rischio: le assicurazioni
che insistono sui rischi per vendere di più,
le Ong che proliferano intorno ai nuovi rischi ambientali,
oppure la campagna di sicurezza sulle strade, che fa
del minor numero di morti sulle strade un obbiettivo
politico, amministrativo ed economico. Vorrei ricordare
come questo tema della sicurezza stradale e dei rischi
ambientali connessi all’automobile sia perfettamente
funzionale all’industria automobilistica: nuove
automobili, sempre più sicure, sempre più
ecologiche, sempre più costose! Come si integra
la coscienza ecologica a questo mercato della sicurezza?
Da una parte ci sono i privilegiati, quelli che qui
chiamiamo i bobos, i bourgeois bohèmes,
i quali, stanchi del consumismo tradizionale, ora vogliono
la qualità di vita, il cibo biologico, la sicurezza
ambientale. Purtroppo questa concezione spesso serve
a creare una distinzione, quasi fosse un mezzo ecologico
per prendere un po’ di distanza dai proletari,
se non ad allontanarli: “andate a farli altrove
gli alloggi popolari, qui è antiecologico!”.
Poi ci sono i marxisti delusi come Alain Lipietz, che
hanno sostituito le contraddizioni interne del capitale
con i vincoli ecologici all’economia: qui il malinteso
consiste nel parlare di catastrofi servendosi degli
stessi temi che sfrutta il nuovo capitalismo ecologico.
Parimenti la deep ecology, con la sua visione
integralista della natura e la demonizzazione di ogni
azione umana, finisce per essere addirittura organica
al sistema perché rifiuta ogni tipo di compromesso.
Infine c’è una specie di ecologismo di
superficie, generato da un vago senso di colpa che per
lo più è compensatorio, nel senso
che impedisce di rimettere in causa profondamente il
modo di sviluppo e risulta ancora una volta funzionale
all’economia: l’idealizzazione ingenua del
paesaggio naturale, del contadino, della tradizione
è forse l’atteggiamento più diffuso
di intere schiere di consumatori.
Quello che manca, mi sembra, è una riflessione
seria della società su se stessa. Nel suo libro
La società del rischio, Ulrich Beck
propone quest’idea di modernità riflessiva,
capace di pensarsi, un compito nient’affatto facile
e per nulla nuovo. La novità consiste nell’affermare
che lo Stato non può più farsi carico
di questa presa di coscienza, mentre credo che ormai
stia alle imprese, nella misura in cui sono attori con
una grande responsabilità sociale e ambientale,
creare dei veri sindacati di riflessione sui rischi,
e questo proprio perché il rischio è un
mercato. Infine non bisogna dimenticare che il rapporto
individuale e collettivo al rischio è un rapporto
alla paura, bisognerebbe decostruire questo
flusso di paura che fa parte ormai del quotidiano:
che cos’è la paura? Perché abbiamo
bisogno di prendere dei rischi per agire e quanto invece
la paura ci paralizza? La mia impressione è che
questi “mercanti del rischio”, che si tratti
del sistema politico-amministrativo, dei media o delle
imprese, sfruttino questo desiderio di paura che rende
la vita interessante, si pensi alla minaccia terroristica
e a quanto ha reso “tragiche” le nostre
vite… Insomma, a diversi livelli la paura si consuma,
e può darsi benissimo che questa commedia spesso
nasconda delle paure ben reali e giustificate.
Nei suoi lavori lei contrappone l’idea
di sviluppo equo a quella di sviluppo sostenibile, può
spiegarci questa contraddizione e la sua concezione
di eco-sviluppo?
Per noi ormai la crescita non è più l’automobile
o la seconda casa, ma un altro tenore di salute, di
formazione, di capacità culturale, mentre certe
grandi potenze come la Cina, l’India, il Brasile
hanno ancora bisogno di crescita materiale: vogliono
produrre elettrodomestici, automobili, case. Evidentemente
questo aggrava la situazione ecologica: già ora
se si guarda al riscaldamento climatico per emissione
di gas nell’atmosfera dal punto di vista mondiale,
ci si accorge che il problema non è europeo,
ma cinese, per cui non credo valga la pena di andare
tutti in bicicletta. Naturalmente non si può
impedire a questi paesi di crescere economicamente,
ma almeno si può accelerare il loro sviluppo
e fare in modo che abbiano automobili meno inquinanti,
dell’energia rinnovabile, etc. Quello che chiamo
“sviluppo equo” consiste allora nell’esportare
in quei paesi tecnologie, sicurezza e formazione in
modo che la fase dell’industrializzazione-consumo,
che abbiamo conosciuto anche noi, sia ecologicamente
accettabile. Ci vuole insomma una vera gouvernance
mondiale, nella quale l’Europa, con il suo
metissage culturale e i suoi rapporti privilegiati
con molti di questi paesi, può svolgere un vero
ruolo di mediazione. Ma allora, ed è qui che
entra in campo l’opzione politica, bisogna che
siamo noi per primi ad orientarci verso una nuova forma
di crescita e sviluppo, che chiamo uno “sviluppo
qualitativo”, ovvero puntare sull’immenso
ambito della sanità, della formazione, della
ricerca, della cultura, della creazione artistica, insomma
tutti i settori che consumano poca energia, producono
pochi rifiuti. Il problema qui è duplice, economico
e filosofico. Il problema economico è che queste
funzioni essenziali sono sotto la tutela dello Stato
e non è facile sviluppare economicamente ciò
che è già gestito da enti pubblici. Ad
esempio nel caso della sanità credo che bisognerebbe
alzare il prezzo al pubblico di certe prestazioni sanitarie,
nel caso dell’insegnamento sarei favorevole ad
un po’ più di concorrenza e competizione:
si tratta di recuperare allo stato alcuni settori sui
quali c’è una sorta di monopolio.
Come organizzare allora un partenariato pubblico-privato?
Si vede bene l’enorme difficoltà economico-politica
di quest’affare. Il problema filosofico non è
meno grave, e qui mi trovo in sintonia con Sloterdijk:
se cominciamo a far agire le forze del mercato direttamente
su noi stessi, non andiamo forse verso un nuovo totalitarismo
che ha come scopo la produzione dell’umano stesso?
Un conto è un sistema produttivo che produce
oggetti, ma ora lo scopo non è più la
crescita del Pil, ora abbiamo un sistema che produce
noi stessi, come esseri culturali, come uomini sani
e che ha come scopo limite quello di portare a zero
il numero delle morti. C’è una specie di
tentazione eugenetica in questa concezione, e l’avvenire
non è necessariamente luminoso.
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