Una petite
coalition, un governo composto di ministri di destra,
di centro e di sinistra. Il nuovo presidente della Repubblica,
Nicolas Sarkozy, sta inscrivendo queste sue prime settimane
in carica sotto il segno “dell’apertura”
sia per incarnare quella funzione che il Generale De
Gaulle ha voluto al di sopra delle divisioni partigiane,
sia, e soprattutto, per completare la sua strategia
politica.
Dopo aver vinto le elezioni presidenziali, è
infatti a quelle legislative di giugno che il neo inquilino
dell’Eliseo sta guardando per conquistare, con
una solida maggioranza all’Assemblea nazionale,
i mezzi politici che gli permettano di mettere in opera
la sua rupture.
Per raggiungere il suo obiettivo Sarkozy non ha esitato
ad allargare l’apertura ben al di là dei
confini della destra, suscitando anche qualche malumore
all’interno del suo partito. Non tutti nell’Ump
vedono di buon occhio la nomina di un ministro socialista,
Bernard Kouchner – oltre a quella di altri ex
socialisti in posti minori - nel governo guidato da
François Fillon, soprattutto quelli che si vedevano
già di diritto nell’esecutivo sarkozysta.
Anche se in realtà l’ouverture
Sarko non ha nessuna sostanza politica, è l’immagine
che conta e il risultato che verrà capitalizzato
in termini di consenso. Kouchner gode in Francia di
una popolarità che solo l’anno scorso i
sondaggi misuravano intorno a quella di Ségolène
Royal. Come l’ex candidata socialista anche il
fondatore di Medici senza frontiere e Medici del mondo
è sempre stato allergico alle gerarchie dell’organizzazione
e alle correnti. La sua è stata una posizione
appartata e il suo percorso solitario. In quarant’anni
di carriera si è recato in tutti i luoghi del
mondo in cui lo spingeva la sua spinta morale: in Biafra,
con i Boat people vietnamiti, nella Serajevo assediata
in compagnia di François Mitterrand e più
tardi alla guida della missione Onu in Kosovo. Puro
prodotto di quel Sessantotto contro cui Sarkozy ha costruito
la propria egemonia culturale, sarà interessante
stare a vedere come riuscirà a comporre il “diritto
d’ingerenza umanitaria” da lui stesso teorizzato,
con la ragion di Stato di cui il ministero degli Affari
esteri è il santuario.
Ma a sessantasette anni, e vista la situazione nel
Partito socialista, quella offertagli da Sarkozy era
la sua ultima opportunità di ricoprire un ruolo
importante in patria. All’Eliseo lo sapevano perfettamente,
hanno agito con le lusinghe e portato a casa il risultato.
Quello che interessava era approfittare della debolezza
dei socialisti per dare sfoggio di forza, mettere uno
di fronte all’altro il campo terremotato della
sconfitta e quello vigoroso della vittoria.
Vittoria principalmente del presidente della Repubblica,
che è così che Sarkozy l’ha concepita.
Completata la settimana scorsa la trasmissione delle
cariche è infatti il nuovo profilo sarkozista
del potere e delle istituzioni della Quinta Repubblica
che comincia a stagliarsi con nettezza. Contrariamente
a quanto avveniva spesso in passato, con un Eliseo più
discreto che almeno apparentemente incarnava l’unità
della Francia e lasciava al Primo ministro e al governo
il proscenio, con la nuova coppia “esecutiva”
Sarkozy-Fillon è un’altra concezione della
funzione presidenziale che si fa avanti: Sarko sarà
un presidente che governa e userà il Primo ministro
come secondo, come una specie di supersegretario che
gestisca i ministri ombra.
Del resto i due costituiscono un paio inseparabile
da almeno due anni e col tempo sono diventati uno il
complemento dell’altro: tanto è impulsivo
Sarko quanto è calmo Fillon, tanto è frenetico
l’uno quanto discreto e misurato il secondo. Se
l’ex ministro dell’Interno è spesso
stato accusato di brutalità, il neo capo dell’esecutivo,
invece, è stato motteggiato più volte
per l’eccessiva prudenza, tanto che ancora oggi
nel suo partito usano chiamarlo “coraggio Fillon!”.
Insomma, l’ideale per un presidente che non vuole
lasciare spazio di manovra a chi potrebbe fargli ombra.
Anche nel partito Sarkozy ha agito allo stesso modo
e ha immediatamente neutralizzato la possibilità
che dalla sua famiglia emerga qualche nuova personalità
in grado di rosicchiare un po’ del suo spazio
che si vuole totalizzante. Nel lasciare la carica di
presidente dell’Ump, Sarkozy ha infatti abolito
l’elezione diretta del presidente attraverso il
voto dei tesserati – che lui stesso aveva voluto
per legittimarsi contro gli chiracchiani – e ha
istituito una direzione collegiale coordinata da un
segretario che sarà, manco a dirlo, un suo fedele,
magari discreto e dissimulato come il primo ministro.
Il controllo dell’Ump gli è necessario
oltre che per vegliare sul gruppo parlamentare che dovrà
lavorare alla rupture di concerto col governo,
anche per preparare l’elezione al suo secondo
mandato, quello del 2012. Come l’uscente Tony
Blair in Gran Bretagna (che a Parigi ha già fatto
una capatina) ha impiegato dieci anni per installare
in maniera duratura l’egemonia del blairismo,
così Sarkozy è convinto che anche per
il sarkozismo siano indispensabili un paio di mandati
all’Eliseo. Un’eventualità che, data
l’illusione centrista di François Bayrou
e le divisioni che esploderanno eclatanti nel Partito
socialista dopo le legislative di giugno, sembra tutt’altro
che improbabile a quest’altezza.
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