Il 25 marzo,
alla festa del cinquantesimo anniversario della firma
dei Trattati di Roma, Angela Merkel ha scoperto le sue
carte, indicando una ricetta per uscire dalla crisi
delle ratifiche del Trattato costituzionale europeo.
L’idea è di organizzare una rapidissima
conferenza intergovernativa, che adotti un nuovo trattato
per la riforma dell’Unione europea. La conferenza
dovrebbe chiudersi entro la fine del 2007, sotto presidenza
portoghese, in modo da lasciare tutto il 2008 per le
ratifiche dei 27 Parlamenti nazionali. L’obbiettivo
dichiarato è quello di chiudere il processo di
revisione prima delle elezioni del Parlamento europeo
del 2009.
La via indicata dalla cancelliera tedesca è
dunque quella classica, “intergovernativa”,
della conferenza diplomatica, seguita ovviamente dalle
ratifiche nazionali (trattandosi di un nuovo trattato
dovranno essere di nuovo effettuate da tutti i ventisette
Stati). Non si ritiene necessario percorrere la via
più “partecipata” della Convenzione
costituente, in quanto i lavori avranno come base il
Trattato costituzionale che era stato a sua volta elaborato
dalla Convenzione Giscard.
Da più parti viene però indicata, come
alternativa, un’altra via, più democratica:
un referendum europeo, da tenersi simultaneamente in
tutti gli Stati membri, per l’approvazione del
nuovo Trattato. Il movimento federalista europeo, in
particolare, ha predisposto un sistema di raccolte di
firme online (https://www.europeanreferendum.eu/)
per promuovere un referendum consultivo paneuropeo nel
2009 assieme alle votazioni del Pe.
Dato che allo stato attuale nel diritto dell’Unione
europea un simile referendum non è previsto,
si tratterebbe del coordinamento di referendum nazionali,
al fine di renderli il più possibile contestuali
ed omogenei nell’oggetto. L’indizione di
tale referendum potrebbe essere raccomandata dal Consiglio
europeo o, in alternativa, dal Parlamento europeo. Naturalmente
dovrebbero essere i singoli Stati membri a decidere
se indire un tale referendum (nessuna raccomandazione
può costringerli a farlo) e quale valore attribuirgli.
In alcuni Stati il valore non può che essere
consultivo perché le costituzioni nazionali (in
particolare quelle italiana e tedesca) vietano il referendum
(legislativo o abrogativo) su questioni di politica
estera. In ogni caso, poiché i trattati vigenti,
per poter essere riformati, richiedono comunque, referendum
o non referendum, la ratifica da parte di tutti i Parlamenti
nazionali, non è certo ipotizzabile che possa
bastare l’approvazione da parte di una maggioranza
dei cittadini europei. Una simile scelta dovrebbe esser
accettata a priori ad un altro trattato ratificato da
tutti i Parlamenti nazionali (cosa al momento del tutto
inverosimile).
Nonostante questi limiti, un simile referendum, rappresenterebbe
comunque un significativo passo in avanti nel processo
di integrazione europea. Sicuramente determinerebbe
una mobilitazione politica che darebbe nuovo vigore
alle elezioni europee (sempre più disertate dai
cittadini), vincolerebbe le campagne elettorali (troppo
spesso incentrate su questioni domestiche che nulla
hanno a che vedere con l’Ue) a contenuti propriamente
europei. Inoltre si lascerebbero meno soli quegli Stati
(Irlanda e in pratica anche Danimarca) nei quali il
referendum è imposto dalle regole costituzionali
interne. Lo strumento di consultazione diretta ha inoltre
il merito di avvicinare l’Unione ai suoi cittadini,
evitando la percezione che le grandi decisioni siano
prese in sedi lontane da loro e senza il loro consenso.
Un referendum europeo sarebbe senz’altro un momento
di grande crescita politica dell’ordinamento dell’Unione.
Ed offrirebbe uno slogan di mobilitazione di facile
presa, fenomeno che attrae anche i politici. Ma perché
lo slogan non resti tale occorre studiare a fondo come
trasformarlo in un’azione concreta.
Le azioni sin qui proposte sono invece piuttosto vaghe
e contraddittorie nelle proposte dei tempi e dei modi
di realizzazione del referendum Si tende infatti a trascurare,
come se fosse un aspetto del tutto secondario, quale
dovrebbe essere l’oggetto di un simile referendum.
Va innanzitutto scartata l’idea di sottoporre
al quesito referendario il Trattato costituzionale nella
sua veste attuale: esso è già stato oggetto
di referendum in quattro Stati, due dei quali l’hanno
accettato (Spagna e Lussemburgo) e due l’hanno
respinto (Francia e Paesi Bassi), e dunque non avrebbe
molto senso riproporlo in termini immutati tanto agli
uni quanto agli altri. Inoltre, dato l’inasprimento
del dibattito, tale trattato rischierebbe di essere
respinto non solo negli Stati che non l’hanno
ancora ratificato, ma anche in alcuni che l’hanno
approvato in via parlamentare.
Si potrebbe pensare di sottoporre a referendum il testo
che uscirà dalla conferenza intergovernativa
preannunciata da Angela Merkel. Certo, nessuno sa ancora
quali saranno i termini dell’eventuale futuro
compromesso che possa essere raggiunto in tempi così
brevi, e forse potrebbe essere azzardato promuovere,
a priori, entusiastiche campagne popolari per il sì.
Ma anche ammettendo che, come è sperabile, la
via intergovernativa pervenga a un risultato soddisfacente,
vi è comunque un problema di tempi.
Il nuovo trattato non può infatti aspettare
le elezioni del Parlamento europeo per potere entrare
in vigore. La revisione, una revisione, è resa
urgente e improcrastinabile da una disposizione allegata
al trattato di Nizza, secondo la quale a partire dal
momento in cui l’Unione europea raggiunge 27 Stati
membri, nella successiva formazione della Commissione,
il numero dei Commissari dovrà essere minore
di quello degli Stati. In altre parole: se il Trattato
di Nizza (vigente) non sarà modificato prima
della formazione della prossima Commissione (che
deve avvenire nel 2009 subito dopo le elezioni del PE),
gli Stati membri dovrebbero rinunciare a nominare un
membro a testa, in assenza di un quadro normativo di
riferimento per la formazione della nuova Comissione.
Il Parlamento europeo del 2009 potrebbe – e dovrebbe
– rifiutarsi di nominare una Commissione con una
composizione contraria al trattato in vigore (Nizza)
e magari potrebbe esso stesso decidere quanti e quali
commissari eleggere fra quelli indicati dai Governi
e dal Presidente della futura Commissione. Il Pe non
esiterebbe ad utilizzare un simile potere, perché
accrescerebbe enormemente il proprio ruolo ed il proprio
peso politico. Evidentemente questa situazione costituisce
una spada di Damocle che nessuno degli attuali governi
degli Stati membri, a cominciare da quelli più
euroscettici, vorrebbe affrontare. Quando si dice che
un nuovo trattato è necessario al funzionamento
dell’Unione non si pensa dunque solo ad un nuovo
Ministro degli Esteri o a un ipotetico Presidente dell’Unione
europea (innovazioni contenute nel Trattato costituzionale),
ma proprio, in primo luogo, alla composizione della
Commissione.
Da qui l’urgenza di rivedere il Trattato di Nizza
e da qui la speranza fondata di Angela Merkel che una
revisione possa essere fatta in tempi rapidi, con una
sorta di quick fix, che cerchi, se possibile,
di recuperare anche il maggior numero elementi del Trattato
costituzionale.
È dunque evidente che il nuovo trattato non
potrebbe un referendum che si tenesse in occasione delle
elezioni del Parlamento europeo, cui dovrebbero comunque
aggiungersi anche le ventisette ratifiche. Bisogna realisticamente
ammettere che i casi sono due: o si organizza un referendum
prima di tale data, o si immagina un referendum che
abbia un oggetto diverso da quel Trattato. La prima
ipotesi sembra da scartare, non solo per i tempi troppo
ristretti, ma anche per i costi, a meno che si rinunci
ad un referendum vero e proprio e si indichino consultazioni
più informali, ad esempio elettroniche.
Più convincente sembra la seconda opzione. Credo
che il quesito referendario non dovrebbe avere per oggetto
un trattato. Studiare e valutare complessi accordi internazionali
non è appassionante per i cittadini e non è
normalmente nemmeno alla loro portata. Il referendum
dovrebbe essere fatto su un’idea chiara e comprensibile.
Questa idea è la Costituzione. Il nuovo trattato
che uscirà dalla conferenza intergovernativa
non si chiamerà, con tutta probabilità,
Costituzione. E forse avrà perso per la strada
anche molti degli elementi che caratterizzavano quest’ultima.
Ma l’idea di una Costituzione europea, dopo anni
che se ne discute, è ormai entrata nella testa
e forse anche nel cuore dei cittadini.
Ecco dunque la mia proposta: lasciare che la conferenza
intergovernativa faccia il suo lavoro, che la presidenza
tedesca e poi quella portoghese cerchino di salvare
il più possibile i passi avanti che il Trattato
costituzionale avrebbe fatto e che i parlamenti nazionali
ratifichino alla svelta il nuovo trattato. Si potrà
allora indire un referendum consultivo contestuale alle
elezioni del Pe, che abbia per oggetto il seguente quesito:
“Volete voi una Costituzione europea?”
Un tale quesito potrebbe essere accompagnato da qualche
altra precisazione (ad esempio: “nel rispetto
delle Costituzioni nazionali”), ma senza appesantire
e complicare la chiarezza dell’idea.
È l’idea della Costituzione che deve passare
dai cittadini e da essi essere accettata, non un testo
giuridico più o meno corposo, le cui sottigliezze
sfuggirebbero a chiunque non sia un addetto ai lavori.
La democrazia diretta ha dei limiti, primo fra tutti
quello di offrire il fianco alle strumentalizzazioni
populistiche, che attecchiscono tanto più facilmente
quanto meno le implicazioni della scelta sono chiare.
Se l’idea passa, si aprirà poi un’altra
fase costituente, questa volta legittimata dal basso
e non imposta dall’alto: si può star sicuri
che spunterà una folla di aspiranti Padri Fondatori
ansiosi di conquistare un posto nella Storia. Se l’idea
non passa, è giusto che vi sia una pausa nel
processo costituente. E se l’idea segna confini
chiari dentro l’Europa, enucleando grandi differenze
fra popoli favorevoli e popoli contrari, si potrà
con minori traumi procedere poi ad integrazioni differenziate,
perché, com’è successo negli ultimi
cinquant’anni, alcuni possano aprire oggi strade
che domani anche altri vogliano imboccare.
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