Il cammino
dell’Unione europea è iniziato dall’economia.
Ha avuto la concorrenza e il mercato come parole d’ordine
e da qui ha mosso i primi passi nel dopoguerra. L’idea
del Trattato di Roma del ’57 era di creare un
mercato comune per riportare la pace nel continente
e scongiurare guerre future. “Fu un’astuzia
geniale per accelerare la storia” dice Marc Guillaume,
economista e sociologo francese, docente universitario,
direttore dell’Iris (Institut de Recherches et
d'Informations Socio-économiques) e autore di
numerosi volumi.
“Cominciare dall’economia – continua
Guillaume – era una buona idea perché effettivamente
c’era il problema di ricostruire, di organizzare,
di crescere, e sappiamo che quando si vuole lo sviluppo
economico le regole del mercato e della concorrenza
sono un mezzo efficace. Ma c’era anche l’idea
che il solo punto nel quale potevano incontrarsi dei
paesi con storie, culture, religioni diverse, che uscivano
da uno stato di guerra pressoché continua da
secoli, erano le regole del mercato. Questa è
stata in fondo l’astuzia di Jean Monnet, perché
se si fosse voluta creare l’Europa attraverso
la politica o la cultura ci sarebbero voluti 50 anni
mentre in pochi anni è stato messo in moto un
meccanismo efficiente.”
La Germania del dopoguerra è stata ricostruita
seguendo la stessa idea: dopo il dirigismo del nazismo
la creazione del mercato doveva in primo luogo essere
fonte di legittimità giuridica, consenso e infine
sovranità politica. Pensa che il modello tedesco
abbia influito nella creazione della comunità
economica europea?
L’Europa si è costruita originariamente
intorno all’alleanza franco-tedesca. Penso che
dal punto di vista tedesco questa idea fosse presente
ed utile, ma per Monnet, al contrario, è la concezione
inglese, o americana, che prevale: l’idea che
il commercio genera pace o, per dirla con Montesquieu,
“ingentilisce i costumi”. Bisogna ricordare
che la Germania ha commerciato con il resto del mondo
fino al 1939, il commercio resiste alla guerra stessa.
Ma, come afferma Michel Foucault, quest’idea è
tipica della filosofia inglese ed ispira tutta la loro
visione economica, che si tratti dei “vantaggi
comparativi” di Ricardo o della concezione di
Smith: lasciamo sviluppare liberamente l’economia
e controlliamo piuttosto la sfera globale della società.
Monnet, che conosceva bene il mondo anglosassone e proveniva
da una famiglia di commercianti di cognac, cerca di
portare quest’idea dell’unità attraverso
il commercio.
D’altronde la stessa Omc era costruita seguendo
la legislazione commerciale americana che pure ha le
sue origini nel XVIII secolo. C’è quindi
una grande tradizione anglosassone che ispira almeno
una componente essenziale del mercato comune, l’altra
componente era l’idea tedesca della costruzione
della sovranità politica a partire dal mercato.
Arriviamo al 1972, anno della creazione dell’Mtc,
il meccanismo che regola i tassi di cambio tra le valute
europee che annuncia il passaggio all’euro. Dall’esigenza
di avere un mercato comune cosa ha condotto alla progettazione
della moneta unica?
Bisogna ricordare che nel 1971 il dollaro viene sganciato
dalla convertibilità con l’oro, annullando
di fatto gli accordi di Bretton Woods. Il dollaro è
la moneta chiave del sistema di cambi mondiale, la moneta
che permette agli Stati Uniti di mantenere un deficit
considerevole e una situazione di vero e proprio imperialismo
monetario: ricordiamo che il Giappone ne fece le spese
alle fine degli anni ’80. Certo, la stesse legge
dei “35 dollari per oncia” era un po’
fittizia, ma in fondo aveva retto per ben 30 anni, e
con il suo annullamento è il sistema mondiale
dei cambi e delle quotazioni ad essere compromesso.
Dal momento in cui il dollaro era autorizzato a fluttuare
ampiamente e gli americani potevano servirsene a scopi
di deflazione competitiva, il rischio d’instabilità
aumentava esponenzialmente per ogni moneta presa singolarmente:
forse meno per il marco, già di più per
il franco, considerevolmente per la lira o la peseta.
L’intero mercato europeo si trovava così
in balia delle politiche monetarie statunitensi: da
qui l’idea dell’unità, del riavvicinamento
delle valute europee e la definizione di un margine
massimo di fluttuazione tra le monete europee, meccanismo
che prende il nome di “serpente” perché
la curva risultante assomiglia ad un serpente che si
muove nel tunnel del margine massimo definito rispetto
al dollaro. Insomma, credo che l’Mtc fosse una
risposta al pericolo rappresentato dalla politica monetaria
statunitense: in fondo cos’è l’euro
se non il tentativo di mettere fine al monopolio del
dollaro? Certo ne siamo ancora lontani, ma ci muoviamo
in questa direzione.
Si può dire che ancora in questa fase
la costruzione dell’Europa è puramente
economica, come viene concepito e percepito in Francia
il cambiamento d’equilibrio tra economia e politica
con l’Atto Unico del 1987 e successivamente, nel
1992, con il Trattato di Maastricht?
Mi sembra che negli anni ’80 siano proprio i
governi socialisti a giocare la carta del liberismo:
sono i socialisti come François Mitterrand e
Jacques Delors che attuano una politica liberale, sono
loro che spingono la Francia ad accettare certe regole
del mercato, fanno insomma del tatcherismo ed reaganismo
senza dirlo. Delors, Rocard, Mitterand, in un certo
senso Attali, si servono dell’Unione Europea per
modernizzare il sistema finanziario e far accettare
un po’ più di liberalismo in Francia, ma
al tempo stesso c’è il problema di conservare
l’ispirazione, tutta francese, ad un modello sociale
europeo. Per questo si forma una vera lobby, contraria
alle privatizzazioni di Edf, Telecom France e di altre
imprese statali, che cerca di far passare in Europa
la concezione di un servizio pubblico alla francese.
Più in generale direi che tutto il sud Europa,
la Francia, la Spagna, forse l’Italia, un po’
meno la Grecia cerca di negoziare questa doppia svolta:
da una parte lo sforzo di creare un mercato comune,
e dall’altra c’è una sorta di colbertismo
europeo, la sensazione sempre più forte di dover
difendere la dimensione sociale.
Mi sembra che questa tensione tra dimensione
economica e politico-sociale europee sia avvertita in
modo molto forte proprio in Francia. A suo avviso potrebbe
essere una delle ragioni del “no” al referendum
sull’adozione della costituzione europea nel 2005?
Innanzitutto c’è stata una straordinaria
incapacità di svelare l’astuzia: l’idea
di un mercato comune europeo era in fondo accettabile
per la saggezza popolare, ma farne l’essenziale
del Trattato e voler mettere in forma di Costituzione
un’astuzia del mercato era una doppia provocazione.
Di fatto l’accettazione della Costituzione è
apparsa come una sorta di sottomissione alle leggi del
mercato, mentre il mercato non ha nulla a che vedere
con la legge: il mercato è un processo, un insieme
di meccanismi che d’altronde, come diceva Foucault,
sono stati inventati dallo Stato per delegare in un
certo senso la sua potenza economica e sono quindi sempre
soggetti ad un insieme di trasformazioni e d’interventi.
Foucault avrebbe potuto dire: per mettere in Costituzione
il mercato bisogna che ci sia uno Stato europeo. Invece
il meccanismo della Commissione Europea è alquanto
strano, ad esempio la commissione per la concorrenza,
la Dg4, non risponde affatto al principio di sussidiarietà
perché legifera in tutti i settori pur di far
rispettare le regole della concorrenza. In secondo luogo,
non c’è un solo liberalismo ma diversi:
c’è un liberalismo colbertista nel quale
l’intervento statale è determinante, c’è
un liberalismo anglo-americano nel quale lo Stato è
secondario (è il sistema delle public utilities),
che come abbiamo visto ha impregnato le istituzioni
europee. Ora, da parte di una certa corrente socialista,
di cui facevo parte assieme a Fabius ed altri, c’era
la sensazione che si fosse andati troppo oltre nell’accettazione
di un liberalismo esclusivamente legato al mercato che
sarebbe stato traumatico per la nostra cultura. Io mi
dicevo: così ci stanno imponendo un mercato
flaccido, un mercato nel quale non ci sarà
più gente capace di dire: “facciamo delle
grandi imprese comuni come il Concorde, Airbus, il Cern”.
E invece quando si guarda concretamente agli Usa cosa
si vede? Che hanno una politica economica colbertista,
interventista, protezionista mentre a noi veniva proposta
proprio la versione di facciata, le regole del mercato.
Per rispettare la concorrenza le commissioni demoliscono
ogni politica industriale seria con il pretesto che
si tratta di un monopolio: così si rischia di
consegnare agli Usa un’Europa indebolita dal liberalismo
stesso, un liberalismo non più adatto alla visione
mondiale, con il problema della Cina, dell’ambiente,
e molti altri ancora.
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