318 - 30.03.07


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Economia: dai
mercati nasceva l’Unione

Marc Guillaume
con Luca Paltrinieri


Il cammino dell’Unione europea è iniziato dall’economia. Ha avuto la concorrenza e il mercato come parole d’ordine e da qui ha mosso i primi passi nel dopoguerra. L’idea del Trattato di Roma del ’57 era di creare un mercato comune per riportare la pace nel continente e scongiurare guerre future. “Fu un’astuzia geniale per accelerare la storia” dice Marc Guillaume, economista e sociologo francese, docente universitario, direttore dell’Iris (Institut de Recherches et d'Informations Socio-économiques) e autore di numerosi volumi.
“Cominciare dall’economia – continua Guillaume – era una buona idea perché effettivamente c’era il problema di ricostruire, di organizzare, di crescere, e sappiamo che quando si vuole lo sviluppo economico le regole del mercato e della concorrenza sono un mezzo efficace. Ma c’era anche l’idea che il solo punto nel quale potevano incontrarsi dei paesi con storie, culture, religioni diverse, che uscivano da uno stato di guerra pressoché continua da secoli, erano le regole del mercato. Questa è stata in fondo l’astuzia di Jean Monnet, perché se si fosse voluta creare l’Europa attraverso la politica o la cultura ci sarebbero voluti 50 anni mentre in pochi anni è stato messo in moto un meccanismo efficiente.”

La Germania del dopoguerra è stata ricostruita seguendo la stessa idea: dopo il dirigismo del nazismo la creazione del mercato doveva in primo luogo essere fonte di legittimità giuridica, consenso e infine sovranità politica. Pensa che il modello tedesco abbia influito nella creazione della comunità economica europea?

L’Europa si è costruita originariamente intorno all’alleanza franco-tedesca. Penso che dal punto di vista tedesco questa idea fosse presente ed utile, ma per Monnet, al contrario, è la concezione inglese, o americana, che prevale: l’idea che il commercio genera pace o, per dirla con Montesquieu, “ingentilisce i costumi”. Bisogna ricordare che la Germania ha commerciato con il resto del mondo fino al 1939, il commercio resiste alla guerra stessa. Ma, come afferma Michel Foucault, quest’idea è tipica della filosofia inglese ed ispira tutta la loro visione economica, che si tratti dei “vantaggi comparativi” di Ricardo o della concezione di Smith: lasciamo sviluppare liberamente l’economia e controlliamo piuttosto la sfera globale della società. Monnet, che conosceva bene il mondo anglosassone e proveniva da una famiglia di commercianti di cognac, cerca di portare quest’idea dell’unità attraverso il commercio.
D’altronde la stessa Omc era costruita seguendo la legislazione commerciale americana che pure ha le sue origini nel XVIII secolo. C’è quindi una grande tradizione anglosassone che ispira almeno una componente essenziale del mercato comune, l’altra componente era l’idea tedesca della costruzione della sovranità politica a partire dal mercato.

Arriviamo al 1972, anno della creazione dell’Mtc, il meccanismo che regola i tassi di cambio tra le valute europee che annuncia il passaggio all’euro. Dall’esigenza di avere un mercato comune cosa ha condotto alla progettazione della moneta unica?

Bisogna ricordare che nel 1971 il dollaro viene sganciato dalla convertibilità con l’oro, annullando di fatto gli accordi di Bretton Woods. Il dollaro è la moneta chiave del sistema di cambi mondiale, la moneta che permette agli Stati Uniti di mantenere un deficit considerevole e una situazione di vero e proprio imperialismo monetario: ricordiamo che il Giappone ne fece le spese alle fine degli anni ’80. Certo, la stesse legge dei “35 dollari per oncia” era un po’ fittizia, ma in fondo aveva retto per ben 30 anni, e con il suo annullamento è il sistema mondiale dei cambi e delle quotazioni ad essere compromesso. Dal momento in cui il dollaro era autorizzato a fluttuare ampiamente e gli americani potevano servirsene a scopi di deflazione competitiva, il rischio d’instabilità aumentava esponenzialmente per ogni moneta presa singolarmente: forse meno per il marco, già di più per il franco, considerevolmente per la lira o la peseta. L’intero mercato europeo si trovava così in balia delle politiche monetarie statunitensi: da qui l’idea dell’unità, del riavvicinamento delle valute europee e la definizione di un margine massimo di fluttuazione tra le monete europee, meccanismo che prende il nome di “serpente” perché la curva risultante assomiglia ad un serpente che si muove nel tunnel del margine massimo definito rispetto al dollaro. Insomma, credo che l’Mtc fosse una risposta al pericolo rappresentato dalla politica monetaria statunitense: in fondo cos’è l’euro se non il tentativo di mettere fine al monopolio del dollaro? Certo ne siamo ancora lontani, ma ci muoviamo in questa direzione.

Si può dire che ancora in questa fase la costruzione dell’Europa è puramente economica, come viene concepito e percepito in Francia il cambiamento d’equilibrio tra economia e politica con l’Atto Unico del 1987 e successivamente, nel 1992, con il Trattato di Maastricht?

Mi sembra che negli anni ’80 siano proprio i governi socialisti a giocare la carta del liberismo: sono i socialisti come François Mitterrand e Jacques Delors che attuano una politica liberale, sono loro che spingono la Francia ad accettare certe regole del mercato, fanno insomma del tatcherismo ed reaganismo senza dirlo. Delors, Rocard, Mitterand, in un certo senso Attali, si servono dell’Unione Europea per modernizzare il sistema finanziario e far accettare un po’ più di liberalismo in Francia, ma al tempo stesso c’è il problema di conservare l’ispirazione, tutta francese, ad un modello sociale europeo. Per questo si forma una vera lobby, contraria alle privatizzazioni di Edf, Telecom France e di altre imprese statali, che cerca di far passare in Europa la concezione di un servizio pubblico alla francese. Più in generale direi che tutto il sud Europa, la Francia, la Spagna, forse l’Italia, un po’ meno la Grecia cerca di negoziare questa doppia svolta: da una parte lo sforzo di creare un mercato comune, e dall’altra c’è una sorta di colbertismo europeo, la sensazione sempre più forte di dover difendere la dimensione sociale.

Mi sembra che questa tensione tra dimensione economica e politico-sociale europee sia avvertita in modo molto forte proprio in Francia. A suo avviso potrebbe essere una delle ragioni del “no” al referendum sull’adozione della costituzione europea nel 2005?

Innanzitutto c’è stata una straordinaria incapacità di svelare l’astuzia: l’idea di un mercato comune europeo era in fondo accettabile per la saggezza popolare, ma farne l’essenziale del Trattato e voler mettere in forma di Costituzione un’astuzia del mercato era una doppia provocazione. Di fatto l’accettazione della Costituzione è apparsa come una sorta di sottomissione alle leggi del mercato, mentre il mercato non ha nulla a che vedere con la legge: il mercato è un processo, un insieme di meccanismi che d’altronde, come diceva Foucault, sono stati inventati dallo Stato per delegare in un certo senso la sua potenza economica e sono quindi sempre soggetti ad un insieme di trasformazioni e d’interventi. Foucault avrebbe potuto dire: per mettere in Costituzione il mercato bisogna che ci sia uno Stato europeo. Invece il meccanismo della Commissione Europea è alquanto strano, ad esempio la commissione per la concorrenza, la Dg4, non risponde affatto al principio di sussidiarietà perché legifera in tutti i settori pur di far rispettare le regole della concorrenza. In secondo luogo, non c’è un solo liberalismo ma diversi: c’è un liberalismo colbertista nel quale l’intervento statale è determinante, c’è un liberalismo anglo-americano nel quale lo Stato è secondario (è il sistema delle public utilities), che come abbiamo visto ha impregnato le istituzioni europee. Ora, da parte di una certa corrente socialista, di cui facevo parte assieme a Fabius ed altri, c’era la sensazione che si fosse andati troppo oltre nell’accettazione di un liberalismo esclusivamente legato al mercato che sarebbe stato traumatico per la nostra cultura. Io mi dicevo: così ci stanno imponendo un mercato flaccido, un mercato nel quale non ci sarà più gente capace di dire: “facciamo delle grandi imprese comuni come il Concorde, Airbus, il Cern”. E invece quando si guarda concretamente agli Usa cosa si vede? Che hanno una politica economica colbertista, interventista, protezionista mentre a noi veniva proposta proprio la versione di facciata, le regole del mercato. Per rispettare la concorrenza le commissioni demoliscono ogni politica industriale seria con il pretesto che si tratta di un monopolio: così si rischia di consegnare agli Usa un’Europa indebolita dal liberalismo stesso, un liberalismo non più adatto alla visione mondiale, con il problema della Cina, dell’ambiente, e molti altri ancora.

 

 

 

 



 

 

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