318 - 30.03.07


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Quel giorno iniziò un
cammino di libertà

Pier Virgilio Dastoli
con Mauro Buonocore


Roma, 25 marzo 1957. Nella sala Orazi e Curiazi in Campidoglio, i rappresentanti di Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Olanda e Repubblica Federale Tedesca firmavano gli accordi che davano vita alla Cee, e gettavano le basi per la futura Unione europea. “Fu il Trattato in cui si stabilirono le libertà di circolazione di persone, capitali, beni e servizi, ma oltre a questi aspetti tecnici, fu il giorno dell’affermazione di quel principio di libertà che è prevalente nel processo di integrazione europea, un principio che ha guidato verso l’allargamento degli spazi di libertà per i cittadini”. Pier Virgilio Dastoli,
direttore della Rappresentanza della Commissione europea a Roma, trova nella libertà la parola chiave per celebrare questo mezzo secolo di storia europea, ma vuole sottolineare anche un altro aspetto:
“Quel giorno si fece un passo irreversibile, si sottoscrisse un patto da cui non era più possibile tornare indietro”. Da allora l’Europa è andata avanti, i paesi membri da sei sono diventati nove, poi dieci, poi dodici, quindici, venticinque, e oggi ventisette. L’allargamento è uno dei temi più caldi delle politiche europee e il cammino dell’integrazione è vivo. Rallentando, a volte fermandosi, ma senza guardare indietro.

I giorni che viviamo oggi, proprio mentre festeggiamo questi cinquant’anni, incarnano uno di quei momenti di difficoltà, di impasse (per usare una parola che ricorre spesso tra gli addetti ai lavori), e gli interessi nazionali sembrano venire sempre prima rispetto alle politiche dell’Unione. A volte il governo dell’Ue sembra proprio una di quelle famiglie dove tutti litigano, anche quando ci si incontra per far festa. E allora si discute animatamente perfino su come bisogna spegnere le candeline della torta europea, si litiga sui temi che la Merkel vuole inserire nella dichiarazione da pronunciare il 25 marzo. Il cancelliere, titolare del semestre europeo, vorrebbe citare Schengen e la libertà di movimento tra i meriti conquistati dall’Unione, ma soprattutto vorrebbe chiudere la dichiarazione chiamando a raccolta i 27 per stringere sulla Costituzione, superare la “pausa di riflessione” e lanciare al Consiglio europeo tedesco di giugno 2007 una conferenza intergovernativa che porti poi alla ratifica di un testo definitivo entro la fine dell’anno. Forti opposizioni su quest’ultimo aspetto, soprattutto dalla Polonia, mentre il Regno Unito, che sembra aver ceduto affinché si menzioni la moneta unica come una delle conquiste europee, non accetta invece che Schengen sia citata tra gli elementi fondanti del processo di integrazione.

I membri dell’Unione discutono perfino su cosa vada considerato un risultato positivo del processo di integrazione e cosa no. Come possiamo interpretare questa situazione, non è forse la testimonianza che i meccanismi istituzionali europei non funzionino?

È evidente che nel momento in cui si limita il negoziato ai governi, questi tendono a salvaguardare le apparenti sovranità nazionali, quindi se il negoziato rimarrà fra governi il risultato finale non potrà che essere insoddisfacente. Se ogni decisione, che sia sulla dichiarazione di Berlino (la dichiarazione cui sta lavorando Angela Merkel, ndr) o sulla costituzione, è negoziata tra governi, si potrebbe dire che i dadi sono truccati perché ciascun governo immette nel negoziato una dose di impegno e di temi esclusivamente nell’interesse nazionale. Però allo stesso tempo c’è da parte dei governi una volontà di rilanciare il discorso. Visto che tra di loro c’è chi vuole andare più avanti e chi invece vuole tornare un po’ indietro, si renderanno conto che il testo del Trattato per la costituzione firmato a Roma è un buon compromesso.

Nel dibattito intorno alla dichiarazione di Berlino, la costituzione è uno dei punti nevralgici, uno degli argomenti che più crea disaccordo. La Merkel vorrebbe chiudere la partita entro il 2007, la Polonia, invece, dice che fino al 2011 tutto rimarrà fermo.

Se nel testo della dichiarazione ci sarà un esplicito riferimento all’impegno di rilanciare il processo costituzionale, sarà più facile arrivare al Consiglio europeo di giugno con la speranza di raggiungere un accordo.
La dichiarazione di Berlino andrà letta nell’ottica dei punti e degli argomenti che vi saranno inseriti, e in questo senso vedo tre punti importanti.
Primo: sarà importante vedere se nella dichiarazione entreranno temi su cui molti sono d’accordo ma non tutti. Se ad esempio vi saranno menzionati la moneta unica e gli accordi di Schengen come caratteristiche essenziali del processo di integrazione, argomenti su cui c’è una netta opposizione da parte del Regno Unito, allora vorrà dire che l’integrazione, in alcuni settori, potrà andare avanti solo tra i paesi che sono d’accordo, senza il necessario consenso di tutti; se al contrario, passerà la linea inglese, per cui euro e Schengen non saranno citati, si sarà accettato il principio per cui se un paese mette il veto, assume una posizione vincolante per tutti gli altri.

Il secondo aspetto per cui vale questo ragionamento riguarda la richiesta di alcuni di inserire nella dichiarazione un esplicito impegno sull’Europa sociale, e anche qui la Gran Bretagna non è d’accordo.
Il terzo aspetto riguarda la volontà tedesca di voler inserire nella dichiarazione un’ultima parte dedicata al rilancio del processo costituzionale. Se questo aspetto comparirà nella dichiarazione ci sarà, avremo un segno positivo per l’accordo da trovare al Consiglio europeo di giugno; se non comparirà il segno sarà negativo.

Secondo lei che colore avrà questo segno?

Sono convinto che sarà positivo. E allora ci troveremo a discutere su un problema di metodo e di data. Dovremo stabilire se il negoziato e le nuove ratifiche vadano fatti prima delle elezioni europee del 2009. In questo caso il negoziato dovrebbe concludersi entro la primavera del 2008 al più tardi, in modo da consentire le ratifiche tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.
Ma la data delle ratifiche impone il metodo, perché se si intende convocare una classica conferenza intergovernativa a 27 ci vorranno almeno due anni; se invece si darà un mandato alla presidenza tedesca portoghese e slovena (titolari dei due semestri successivi), insieme al Parlamento e alla Commissione, di mettere sul tavolo un testo di compromesso da accettare o rifiutare, un testo che lasci inalterata la parte fondamentale di quanto sottoscritto a Roma nel 2004, allora ci sono buone speranze che si faccia un accordo tra il 2007 e il 2008 in modo che le ratifiche si concludano entro il 2009.

Anche le ratifiche, però possono essere fatte in modo diverso. C’è che sostiene la via parlamentare e chi invece non vuole rinunciare al referendum. Nella campagna elettorale francese Sarkozy e Royal si affrontano anche su questo, il primo per la ratifica parlamentare, la seconda per la consultazione popolare. Lei cosa ne pensa?

Questo testo rappresenta secondo me un buon compromesso e quindi non vale la pena, credo, sottoporlo a referendum. Mi spiego meglio. Il trattato di cui stiamo parlando non può rappresentare una soluzione definitiva al problema della democrazia europea, questa è una domanda cui si può trovare risposta soltanto mettendo in piedi un meccanismo che consenta ai cittadini europei di determinare con il voto la formazione di un governo europeo. Nel testo attuale questo problema non è affrontato e non è risolto, perché si tratta di un testo intermedio, una tappa sulla via del processo costituzionale.
Infatti, ritengo necessario inserire nel Trattato una clausola per un appuntamento futuro. In altre parole: si stabilisca che nella prossima legislatura ci sia o una nuova convenzione o una sorta di co-decisione tra Parlamento e Consiglio che consenta di fare un ulteriore passo in avanti e immaginare così nel futuro una data per un referendum, che allora però dovrà essere europeo, non più nazionale. Credo che sia sbagliato dal punto di vista democratico che un testo che ha per argomento l’Europa, le istituzioni e le politiche europee, sia ratificato per via nazionale; un referendum è accettabile solo nella misura in cui sia europeo.

 

 

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