Roma, 25
marzo 1957. Nella sala Orazi e Curiazi in Campidoglio,
i rappresentanti di Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo,
Olanda e Repubblica Federale Tedesca firmavano gli accordi
che davano vita alla Cee, e gettavano le basi per la
futura Unione europea. “Fu il Trattato in cui
si stabilirono le libertà di circolazione di
persone, capitali, beni e servizi, ma oltre a questi
aspetti tecnici, fu il giorno dell’affermazione
di quel principio di libertà che è prevalente
nel processo di integrazione europea, un principio che
ha guidato verso l’allargamento degli spazi di
libertà per i cittadini”. Pier Virgilio
Dastoli,
direttore della Rappresentanza della Commissione europea
a Roma, trova nella libertà la parola chiave
per celebrare questo mezzo secolo di storia europea,
ma vuole sottolineare anche un altro aspetto:
“Quel giorno si fece un passo irreversibile, si
sottoscrisse un patto da cui non era più possibile
tornare indietro”. Da allora l’Europa è
andata avanti, i paesi membri da sei sono diventati
nove, poi dieci, poi dodici, quindici, venticinque,
e oggi ventisette. L’allargamento è uno
dei temi più caldi delle politiche europee e
il cammino dell’integrazione è vivo. Rallentando,
a volte fermandosi, ma senza guardare indietro.
I giorni che viviamo oggi, proprio mentre festeggiamo
questi cinquant’anni, incarnano uno di quei momenti
di difficoltà, di impasse (per usare una parola
che ricorre spesso tra gli addetti ai lavori), e gli
interessi nazionali sembrano venire sempre prima rispetto
alle politiche dell’Unione. A volte il governo
dell’Ue sembra proprio una di quelle famiglie
dove tutti litigano, anche quando ci si incontra per
far festa. E allora si discute animatamente perfino
su come bisogna spegnere le candeline della torta europea,
si litiga sui temi che la Merkel vuole inserire nella
dichiarazione da pronunciare il 25 marzo. Il cancelliere,
titolare del semestre europeo, vorrebbe citare Schengen
e la libertà di movimento tra i meriti conquistati
dall’Unione, ma soprattutto vorrebbe chiudere
la dichiarazione chiamando a raccolta i 27 per stringere
sulla Costituzione, superare la “pausa di riflessione”
e lanciare al Consiglio europeo tedesco di giugno 2007
una conferenza intergovernativa che porti poi alla ratifica
di un testo definitivo entro la fine dell’anno.
Forti opposizioni su quest’ultimo aspetto, soprattutto
dalla Polonia, mentre il Regno Unito, che sembra aver
ceduto affinché si menzioni la moneta unica come
una delle conquiste europee, non accetta invece che
Schengen sia citata tra gli elementi fondanti del processo
di integrazione.
I membri dell’Unione discutono perfino
su cosa vada considerato un risultato positivo del processo
di integrazione e cosa no. Come possiamo interpretare
questa situazione, non è forse la testimonianza
che i meccanismi istituzionali europei non funzionino?
È evidente che nel momento in cui si limita
il negoziato ai governi, questi tendono a salvaguardare
le apparenti sovranità nazionali, quindi se il
negoziato rimarrà fra governi il risultato finale
non potrà che essere insoddisfacente. Se ogni
decisione, che sia sulla dichiarazione di Berlino (la
dichiarazione cui sta lavorando Angela Merkel, ndr)
o sulla costituzione, è negoziata tra governi,
si potrebbe dire che i dadi sono truccati perché
ciascun governo immette nel negoziato una dose di impegno
e di temi esclusivamente nell’interesse nazionale.
Però allo stesso tempo c’è da parte
dei governi una volontà di rilanciare il discorso.
Visto che tra di loro c’è chi vuole andare
più avanti e chi invece vuole tornare un po’
indietro, si renderanno conto che il testo del Trattato
per la costituzione firmato a Roma è un buon
compromesso.
Nel dibattito intorno alla dichiarazione di
Berlino, la costituzione è uno dei punti nevralgici,
uno degli argomenti che più crea disaccordo.
La Merkel vorrebbe chiudere la partita entro il 2007,
la Polonia, invece, dice che fino al 2011 tutto rimarrà
fermo.
Se nel testo della dichiarazione ci sarà un
esplicito riferimento all’impegno di rilanciare
il processo costituzionale, sarà più facile
arrivare al Consiglio europeo di giugno con la speranza
di raggiungere un accordo.
La dichiarazione di Berlino andrà letta nell’ottica
dei punti e degli argomenti che vi saranno inseriti,
e in questo senso vedo tre punti importanti.
Primo: sarà importante vedere se nella dichiarazione
entreranno temi su cui molti sono d’accordo ma
non tutti. Se ad esempio vi saranno menzionati la moneta
unica e gli accordi di Schengen come caratteristiche
essenziali del processo di integrazione, argomenti su
cui c’è una netta opposizione da parte
del Regno Unito, allora vorrà dire che l’integrazione,
in alcuni settori, potrà andare avanti solo tra
i paesi che sono d’accordo, senza il necessario
consenso di tutti; se al contrario, passerà la
linea inglese, per cui euro e Schengen non saranno citati,
si sarà accettato il principio per cui se un
paese mette il veto, assume una posizione vincolante
per tutti gli altri.
Il secondo aspetto per cui vale questo ragionamento
riguarda la richiesta di alcuni di inserire nella dichiarazione
un esplicito impegno sull’Europa sociale, e anche
qui la Gran Bretagna non è d’accordo.
Il terzo aspetto riguarda la volontà tedesca
di voler inserire nella dichiarazione un’ultima
parte dedicata al rilancio del processo costituzionale.
Se questo aspetto comparirà nella dichiarazione
ci sarà, avremo un segno positivo per l’accordo
da trovare al Consiglio europeo di giugno; se non comparirà
il segno sarà negativo.
Secondo lei che colore avrà questo segno?
Sono convinto che sarà positivo. E allora ci
troveremo a discutere su un problema di metodo e di
data. Dovremo stabilire se il negoziato e le nuove ratifiche
vadano fatti prima delle elezioni europee del 2009.
In questo caso il negoziato dovrebbe concludersi entro
la primavera del 2008 al più tardi, in modo da
consentire le ratifiche tra la fine del 2008 e l’inizio
del 2009.
Ma la data delle ratifiche impone il metodo, perché
se si intende convocare una classica conferenza intergovernativa
a 27 ci vorranno almeno due anni; se invece si darà
un mandato alla presidenza tedesca portoghese e slovena
(titolari dei due semestri successivi), insieme al Parlamento
e alla Commissione, di mettere sul tavolo un testo di
compromesso da accettare o rifiutare, un testo che lasci
inalterata la parte fondamentale di quanto sottoscritto
a Roma nel 2004, allora ci sono buone speranze che si
faccia un accordo tra il 2007 e il 2008 in modo che
le ratifiche si concludano entro il 2009.
Anche le ratifiche, però possono essere
fatte in modo diverso. C’è che sostiene
la via parlamentare e chi invece non vuole rinunciare
al referendum. Nella campagna elettorale francese Sarkozy
e Royal si affrontano anche su questo, il primo per
la ratifica parlamentare, la seconda per la consultazione
popolare. Lei cosa ne pensa?
Questo testo rappresenta secondo me un buon compromesso
e quindi non vale la pena, credo, sottoporlo a referendum.
Mi spiego meglio. Il trattato di cui stiamo parlando
non può rappresentare una soluzione definitiva
al problema della democrazia europea, questa è
una domanda cui si può trovare risposta soltanto
mettendo in piedi un meccanismo che consenta ai cittadini
europei di determinare con il voto la formazione di
un governo europeo. Nel testo attuale questo problema
non è affrontato e non è risolto, perché
si tratta di un testo intermedio, una tappa sulla via
del processo costituzionale.
Infatti, ritengo necessario inserire nel Trattato una
clausola per un appuntamento futuro. In altre parole:
si stabilisca che nella prossima legislatura ci sia
o una nuova convenzione o una sorta di co-decisione
tra Parlamento e Consiglio che consenta di fare un ulteriore
passo in avanti e immaginare così nel futuro
una data per un referendum, che allora però dovrà
essere europeo, non più nazionale. Credo che
sia sbagliato dal punto di vista democratico che un
testo che ha per argomento l’Europa, le istituzioni
e le politiche europee, sia ratificato per via nazionale;
un referendum è accettabile solo nella misura
in cui sia europeo.
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