“Esistono
accordi formali, ma ognuno lavora per i propri interessi”.
Pascal Acot parla di clima e ambiente, argomenti a cui
ha dedicato il suo ultimo libro
Catastrophes climatiques, désastres sociaux
(che in Italia uscirà per Donzelli, editore
anche, dello stesso autore, della fortunata Storia
del clima) e, guardando all’Europa fa una
fotografia abbastanza scura, che esprime tutto il suo
scetticismo sulla possibilità che i paesi dell’Unione
riusciranno a trovare una soluzione comune ai problemi
ambientali. “Ma lei lo sa – prosegue Acot
– che oggi la Svezia continua a produrre elettricità
da energia nucleare quando ha invece ufficialmente rinunciato
a questa forma di energia venti anni fa?”
La visione dello studioso francese, che lavora al Centre
National de la Recherche Scientifique di Parigi, non
invoglia certo a brindare alle cinquanta candeline dell’Unione,
almeno se si parla di ambiente, clima e risorse energetiche.
Ma Acot, laureato in filosofia, non tradisce la sua
formazione e aggiunge sapientemente: “Poiché
l’uomo è libero, tutto resta ancora possibile”.
Lo spunto per la nostra intervista è
un compleanno. E allora partiamo dall’anno di
nascita della Cee, il ’57. C’era allora
una sensibilità ambientale?
Non credo si possa parlare di una sensibilità
particolare verso l’ambiente all’interno
del Trattato di Roma. Tuttavia, alcune questioni ambientali
importanti erano senz’altro affrontate: penso
alla politica agricola comune e al trattato Euratom,
firmato lo stesso giorno. È stato tuttavia all’inizio
degli anni ‘60 che le prime preoccupazioni ambientali
sono apparse in Europa, sotto la forma di lavori universitari.
In seguito, ci sono stati i movimenti del ‘68,
che non erano specificamente ambientalisti, ma i cui
attori andarono a formare le fila dei futuri partiti
Verdi, dopo il primo choc petrolifero, quando
per la prima volta, con il primo rapporto del Club di
Roma nel ‘72, la questione dell’esaurimento
delle risorse fu posta con forza.
Quali sono attualmente le politiche ambientali
della Ue? Siamo più avanti degli Stati Uniti
e del resto del mondo?
Le politiche dell’ambiente in Europa si somigliano,
anche se assumono poi diverse forme. Possiamo distinguere
tre ambiti principali: la protezione della Natura, come
ad esempio l’attenzione rivolta alle riserve naturali
e la rete Natura 2000 (un network che fa capo alla Commissione
europea e che mira a preservare biodiversità
e originalità di habitat naturali, ndr);
le economie delle materie prime, attraverso lo sviluppo
di tecnologie moderne, come quella dell’alluminio;
le economie delle risorse energetiche fossili, sia perché
destinate a esaurirsi, sia perché rilasciano
gas che producono l’effetto serra. Lo sviluppo
dell’architettura “Alta Qualità Ambientale”
si situa all’interno di queste due ultime tendenze.
C’è un solo punto che divide gli stati:
il ricorso controverso all’energia nucleare. E
un punto che, purtroppo, li unisce: lo scarso effetto
delle disposizioni prese. Ma va comunque meglio che
negli Stati Uniti!
Come giudica l’accordo sui gas serra
siglato a Bruxelles sotto la guida della Germania di
Angela Merkel? Si tratta di un accordo importante, sul
fronte pratico e simbolico.
Avrei voglia di dire: quale accordo? Si è deciso
di ridurre del venti per cento le emissioni rispetto
al 1990. È una cosa possibile, vista la attuale
deindustrializzazione dell’Europa. Ma in realtà
ciascuno gioca la partita in favore del proprio interesse.
Per esempio, Angela Merkel ha ottenuto che la riduzione
dei gas serra emessi da certe automobili sia meno ampia
del previsto, per proteggere il mercato delle automobili
tedesche. E la Francia, a sua volta, ha trattato per
far sì che il nucleare sia accettato come soluzione
possibile al problema del riscaldamento climatico. Credo
che, in futuro, ciascuno stato, nella misura in cui
potrà, negozierà per il proprio vantaggio.
Per questo l’Europa mi appare come una costruzione
molto fragile.
Come ridurre questa tendenza ad una visione
nazionale, particolaristica?
Bisognerebbe soprattutto informare i cittadini. Chi
sa oggi che la Svezia continua a produrre elettricità
nucleare quando ha invece ufficialmente rinunciato a
questa forma di energia venti anni fa? Quanto alla posizione
tedesca, l’idea di sviluppare le centrali termiche
– anche se “moderne” – a discapito
del nucleare, è una catastrofe in materia di
effetto serra. E si sa che l’Italia compra, quando
necessario, energia nucleare alla Francia.
Secondo lei, come è possibile risolvere
la disputa tra i paesi dell’Europa dell’Est
e quelli più occidentali circa il tipo di fonti
energetiche da privilegiare e la quantità obbligatoria
di energie rinnovabili da produrre? Lei crede, come
il suo governo, che il nucleare sia la soluzione più
efficace?
Io credo, ahimè, che il nucleare sia la sola
forma di produzione di energia capace di rispondere
ai bisogni europei, fino a che l’energia del futuro,
quella solare, non ne prenda il posto. Le energie “alternative”,
quali che siano, sono oggi incapaci di rimpiazzare quelle
fossili. Bisognerà perciò passare per
il nucleare e svilupparlo ancora, con tutti i rischi
che ciò comporta. È un fatto drammatico
perché l’urgenza è estrema. Per
conto mio, temo più le conseguenze di un’interruzione
dell’approvvigionamento delle energie fossili
che quelle del riscaldamento climatico. La nostra sola
chance sarà la realizzazione nei paesi
Ue di grandi servizi pubblici, senza interesse economico,
che gestiscano il nucleare.
Il clima sta cambiando in maniera violenta
e imprevedibile. Siamo ancora in tempo per agire su
processi già visibili e imponenti, vista soprattutto
l’incapacità politica di trovare rapidamente
accordi su questioni vitali e vista la miopia dei governi?
Come è stato scritto dall’Ocde (Organisation
for Economic Co-operation and Development) nella dichiarazione
pubblica del 2004 del suo direttore per l’ambiente
Lorents Lorentsen, io credo che sia già troppo
tardi per arrestare il riscaldamento. Se noi prendiamo
delle buone decisioni oggi, la temperatura media continuerà
quanto meno ad aumentare nei prossimi secoli. La vera
urgenza è quindi quella di aiutare i paesi poveri,
e gli esseri umani più poveri all’interno
dei paesi ricchi, a lottare contro le conseguenze del
riscaldamento. Contemporaneamente, naturalmente, occorre
limitare drasticamente il rilascio dei gas a effetto
serra.
Concretamente, allora, che futuro ci aspetta?
Nessuno, credo, lo può dire. Poiché la
specie umana è libera, malgrado tutto ciò
che tende a intralciarci, noi possiamo fare della nostra
Terra un giardino, oppure un immondezzaio. Nell’immediato
bisognerebbe ri-localizzare le attività industriali
e de-mondializzare l’economia, al fine di limitare
i trasporti inutili e razionalizzare le filiere di produzione.
Lo sviluppo delle tecnologie moderne, razionali e a
basso consumo, è possibile e assai poco costoso:
quando, per esempio, si renderà finalmente obbligatorio
dappertutto il recupero delle acque piovane e delle
acque nere (quelle che provengono dagli scarichi di
abitazioni e attività commerciali, ndr)?
È un esempio, tra molti altri. Purtroppo non
sono certo che ci troviamo sulla strada corretta. Ciò
detto, ripeto, tutto è ancora possibile.
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