“Le
persone sono la nostra priorità” è
questa la descrizione che Echo, il servizio di aiuto
umanitario della Commissione europea fornisce di se
stessa sul proprio sito web. Attiva in numerose aree
del mondo che attraversano situazioni di crisi, Echo
è responsabile di gestire le attività
umanitarie del più grande donatore mondiale,
l’Unione Europea. Abbiamo chiesto a Raf Rosvelds,
responsabile di Echo per il territorio afgano, di raccontarci
dell’Afghanistan, delle sue persone e delle loro
prospettive.
Ci può spiegare come opera Echo per
l’Afghanistan?
Aiutiamo i più vulnerabili e cerchiamo di indirizzare
gli aiuti umanitari proprio a chi ne ha più bisogno.
Generalmente cerchiamo di concentrarci sulle aree più
remote che hanno più difficoltà ad accedere
al mercato globale e che sono più colpite da
condizioni climatiche difficili, come nel caso della
tremenda siccità che ha afflitto il paese per
molti anni fino al 2004 e poi, di nuovo, nel 2006.
Tutti hanno sentito parlare del traffico di droga e
della coltivazione di oppiacei in Afghanistan, chi trae
beneficio da queste attività non rientra nei
nostri obiettivi umanitari.
Quanto è cambiato il lavoro di Echo
nel corso degli anni? La situazione nei decenni è
molto cambiata: prima una guerra civile che ha devastato
l’Afghanistan per 23 anni, poi la guerra al terrore.
Siamo stati attivi in Afghanistan a partire dalla fine
degli anni ’90. Nel 1998 ebbe inizio un terribile
periodo di siccità che durò, con alcune
variazioni a seconda delle aree, fino al 2004. Quando
è scoppiata la guerra eravamo già lì,
anche perché, oltre alle attività in Afghanistan,
collaboravamo e sostenevamo il lavoro dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr)
in Iran e Pakistan, nei campi profughi. Era sicuramente
molto difficile lavorare al tempo dei talebani ma noi
cercavamo quanto più possibile di rispondere
all’emergenza della crisi umanitaria innescata
dalla siccità.
Come erano le condizioni della popolazione
all’epoca?
C’è da precisare che non siamo propriamente
un’agenzia che si occupa di assistenza ai poveri,
piuttosto ci occupiamo di aiuti umanitari in situazioni
di crisi: salviamo vite. All’epoca, ad esempio,
ci trovammo ad affrontare il dramma dei nomadi Kuchi,
una popolazione migrante che si sostiene grazie agli
allevamenti ovini. A causa della siccità avevano
perso tutti i loro capi di bestiame e si trovavano nell’impossibilità
di sfamare e sostenere le proprie famiglie. Si trattava
di una popolazione numerosa che aveva bisogno di aiuti
alimentari e di nuovi insediamenti perché, a
quel punto, il loro vecchio modo di vivere era finito.
C’erano poi molte altre persone, provenienti da
aree colpite dalla calamità che dipendevano dalla
pioggia per le provvigioni di acqua, in particolare,
per l’agricoltura e l’irrigazione di terreni.
Molte di esse si trasferirono nelle città più
grandi ed ebbero bisogno di aiuti alimentari per poter
sopravvivere a quegli anni difficili. Erano queste le
condizioni tra la fine degli anni ’90 inizio 2000
e poi, di nuovo, con una nuova ondata di siccità
lo scorso anno.
Tutte situazioni di emergenza. Dopo la cacciata
dei talebani si è aggiunta un’altra crisi:
quella dei cosiddetti returnees, ovvero di
quegli afgani fuggiti durante il dominio talebano e
ora tornati nella loro terra d’origine.
Dal 2002 più di 4 milioni e 700 mila persone
sono ritornate in Afghanistan, un dato di enormi dimensioni
per un paese che si trovava già in difficoltà
nel provvedere alla propria popolazione. Con alcune
variazioni a seconda delle fonti, si parla oggi di una
popolazione di circa 26 milioni di abitanti, di cui
i cosiddetti returnees rappresenterebbero pertanto quasi
il 19%. Abbiamo cercato di aiutare il paese ad assorbire
l’enorme afflusso cooperando con l’Unhcr
e le altre agenzie presenti sul territorio. Li aiutiamo
nel trasferimento, ci prendiamo cura di loro lungo il
loro percorso di rientro accompagnandoli nel loro ritorno
alle aree di origine. Ma il loro arrivo provoca tensione,
perché le risorse sono molto limitate anche per
chi dall’Afghanistan non se n’è mai
andato. Anche in questo caso, come organizzazione umanitaria,
cerchiamo di concentrare le nostre attenzioni su quelle
aree in cui l’afflusso è più consistente,
dove c’è enorme bisogno di acqua e misure
igieniche. Ci sono delle città la cui popolazione
è andata crescendo in maniera esponenziale, Kabul,
ad esempio, è passata da 1 milione di abitanti
a 4 milioni nel giro di 4 anni. Si sono sviluppati dal
nulla interi quartieri, ma il governo non è in
grado di assorbire il cambiamento e provvedere ai bisogni
di una popolazione quadruplicata.
A proposito delle difficoltà del governo,
nel corso delle ultime settimane si è parlato
che la prossima primavera gli scontri con i gruppi talebani
aumenteranno. Cosa significa questo per le vostre attività
e per quelle dei vostri partner?
Ovviamente quella della sicurezza è una questione
di enorme importanza in Afghanistan. In un certo senso,
per noi il problema è che dobbiamo rendere conto
delle nostre attività al parlamento e alle altre
istituzioni europee, il che significa che dobbiamo essere
in grado di monitorare i progetti che finanziamo, e
nel sud dell’Afghanistan è difficile proprio
per le precarie condizioni di sicurezza. Detto questo,
in province come Helmand e Kandahar per il perverso
effetto della produzione di oppio e droghe, la popolazione
ha qualche possibilità in più per far
fronte alle devastazioni della siccità. In un
certo senso, perverso appunto, l’oppio e la droga
diventano uno strumento per far fronte alla crisi.
Com’è la situazione al Sud?
Al momento, i campi profughi ospitano ufficialmente
circa 120 mila persone, i Kuchi che sono ritornati dal
Pakistan non possono andare verso Nord, dove hanno le
loro origini, perché sono considerati dei Pashtun
che erano alleati dei talebani. Ragioni di sicurezza
impongono loro di non muoversi. Noi offriamo assistenza
umanitaria attraverso l’Unhcr e, anche attraverso
altri partner, come ad esempio la Croce Rossa Internazionale
che monitora la situazione e, in caso di scontri o crisi,
individua le persone che hanno bisogno di aiuto, ne
valuta le necessità offrendo aiuto diretto.
Per quanto riguarda l’impegno della Nato,
alcune Ong si sono pronunciate in favore di un ritiro
delle forze militari. Qual è la sua opinione?
Come istituzione Echo non lavora attraverso i cosiddetti
Prt (i team di ricostruzione provinciale a struttura
mista civile-militare) o con qualsiasi altra organizzazione
legata a forze militari. Il nostro mandato consiste
nel lavorare solo attraverso quelle Ong che hanno firmato
il nostro accordo di partnership e attraverso le organizzazioni
internazionali. Ma nel Sud la realtà sul campo
è che ci sono Prt e forze della coalizione che
stanno combattendo la guerra al terrore e noi dobbiamo
vivere nella stessa area. Per questo cerchiamo di salvaguardare
e difendere quanto più possibile lo spazio umanitario
e assicurarci che i nostri partner possano lavorare
anche in aree dove ci sono conflitti sporadici. Gli
attori umanitari collaborano per fornire un ambiente
sicuro dove le Ong possano operare in relativa tranquillità.
Non è sempre il caso in tutte le province afgane.
Echo e le altre agenzie vorrebbero che l’aiuto
umanitario fosse collegato alla riabilitazione e allo
sviluppo, alla sostenibilità e alle garanzie
di qualità degli standard di vita della popolazione
locale, cosa che non necessariamente avviene con le
Prt o i militari che conducono operazioni umanitarie.
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