Sulla politica
estera il governo Prodi ha rischiato di cadere; il punto
più delicato riguardava la missione in Afghanistan,
verso la quale dalla sinistra più radicale viene
un netto rifiuto.
Ma l'Afghanistan non è come l'Iraq, dice Roberta
Pinotti, diessina, presidente della Commissione Difesa
della Camera; a Kabul, afferma la Pinotti, c'è
bisogno di azioni militari, volute dall'Onu e organizzate
dalla Nato, che sappiano affiancare la diplomazia per
continuare in Afghanistan la delicata costruzione di
un cammino democratico.
I governi europei, al pari dell’Italia,
ritirano le truppe dall’Iraq, perchè restano
in Afghanistan?
C'è una differenza profonda tra le due missioni,
che è il motivo per cui all’Iraq ci siamo
sempre contrapposti, anche quando eravamo all’opposizione,
e, appena arrivati al governo abbiamo ritirato le truppe.
L’intervento in Iraq è stato un atto unilaterale
degli Usa, che hanno trovato alleati sulla base di motivazioni
che si sono dimostrate false, come le armi di distruzione
di massa e i legami con Al Qaeda. Motivi pretestuosi,
che hanno provocato quella situazione terrificante che
è ancora oggi sotto gli occhi di tutti: non passa
un giorno senza che ci sia un bollettino di vittime
intollerabile. L’errore è stato così
grande che adesso non solo l’opinione pubblica
americana, ma anche alcuni degli strateghi delle prime
teorie neocon dell’interventismo e della guerra
preventiva sono molto critici.
L’intervento in Afghanistan, invece?
Nasce in un contesto profondamente diverso. Da un punto
di vista di copertura e legittimità internazionale,
infatti, l’Onu ha subito dichiarato l’intervento
possibile, richiamandosi all’articolo cinque del
Trattato della Nato. Certo, è stato forse discutibile
il fatto che gli Usa abbiano avviato autonomamente l'operazione
Enduring freedom chiamando a raccolta le nazioni
intenzionate a partecipare. Sarebbe stato meglio che
l'operazione fosse partita con un contingente promosso
da un organismo internazionale. Oggi però Enduring
freedom è finita, l'attuale missione, che
si chiama Isaf, è voluta dall’Onu e demandata
come gestione militare alla Nato. Ancora: a differenza
dell’Iraq, in Afghanistan esistono concreti legami
tra talebani e Al Qaeda, e l’obiettivo militare
è di distruggere ogni humus possibile per il
terrorismo. Si tratta comunque, ripeto, di una decisione
di un organismo multilaterale: in Afghanistan l’Onu
interviene insieme alla Nato.
Tuttavia, in questi anni i talebani sembrano
aver rafforzato il loro potere: controllano con ferocia
più di metà del paese e il mercato della
droga è fiorente più che mai. Insomma,
che cosa è cambiato in questi cinque anni? Ci
sono degli errori che i governi occidentali hanno compiuto
e come porvi rimedio?
Dopo l’iniziale grande apertura di credito che
la popolazione ha dato al nuovo governo Karzai –
ben visibile nella massiccia partecipazione al voto
– c’è stato un momento in cui gli
afgani hanno davvero creduto nella possibilità
di cambiare la storia del paese. Purtroppo però,
da un lato la quantità degli investimenti per
la ricostruzione è stata molto ridotta rispetto
alle previsioni, dall’altra il governo afgano
si è dimostrato debole, ancora non pienamente
credibile e non immune dalla corruzione, un governo
in cui i signori della guerra e i capi tribali hanno
ancora voce in capitolo. Insomma, la ricostruzione e
gli investimenti dei paesi donatori va a rilento, mentre
l’amministrazione afgana procede con lentezza
a fornire quelle risposte che una popolazione molto
povera si aspettava. Tuttavia, per comprendere i motivi
di questa realtà, basta pensare alla difficoltà
di mantenere l’ordine pubblico quando un poliziotto
è pagato pochissimo, e magari vede che chi è
ingaggiato dai signori della guerra si arricchisce.
Questo produce grande scoramento, ma ciò non
significa che il vecchio potere sia ancora amato dalla
popolazione. Il nostro ambasciatore a Kabul ci ha raccontato
che, se è vero che al sud i talebani stanno riprendendo
il possesso di alcune città e bruciano scuole
da poco ricostruite, è altrettanto vero che la
gente cerca di reagire. C’è una spinta
al cambiamento che nasce dal terrore per un possibile
ritorno di un regime che imponeva di non cantare o far
volare gli aquiloni, vietava alle donne di andare a
scuola, tentava di far ripiombare il paese in un profondo
e oscuro medioevo. È vero, occorreva un intervento
più forte in Afghanistan, ma la guerra in Iraq,
che ha aperto un altro fronte, lo ha impedito. Oggi
bisogna intervenire con decisione, unendo azione militare
e diplomazia, perché la prima, da sola, non basta.
Venendo alla situazione italiana, non pensa
che esista ancora una certa ambiguità nel definire
la missione in Afghanistan? Si tratta di “guerra”
o di “missione di pace”? Alcuni sostengono
che i nostri soldati siano male equipaggiati ed esposti
ad attacchi.
In seguito alle anticipazioni di stampa e all’articolo
in cui si parla del presunto scarso equipaggiamento
dell’esercito italiano, ho parlato con il capo
di stato maggiore, l’ammiraglio Di Paola, il quale
mi ha confermato che il nostro contingente è
equipaggiato in maniera corretta per ogni tipo di azione
e soprattutto rispetto alla missione che ci hanno assegnato.
Infatti noi ci troviamo adesso in una zona relativamente
tranquilla, non di combattimento: se cambieranno le
condizioni rafforzeremo l’equipaggiamento. Io
credo che le nostre forze armate funzionino molto meglio
di tante altre cose, per cui non condivido i tentativi
di screditarle. In realtà, dovunque esse vadano,
sono ben accette dalla popolazione, stimate dagli alleati
stranieri, e hanno capacità di intervento superiori
alla media, sia per efficienza che per umanità.
Per quanto mi riguarda l'esperienza afgana dei nostri
soldati è un'esperienza molto positiva.
Secondo William Arkin, analista militare del
“Washington Post”, la sinistra in Europa
ha fallito, proprio perché non è riuscita
ad articolare una politica di sicurezza internazionale
alternativa a quella americana. Come commenta queste
parole? Crede che, anche nel nostro paese, ci sia un
problema su come comporre a sinistra realismo politico
e ideali pacifisti, evitando altre crisi? Si troverà
un realistico accordo?
Abbiamo vissuto due momenti particolarmente drammatici
per la politica europea. Uno ha visto la spaccatura
dei paesi membri sull'intervento in Iraq, l'altro è
stato la bocciatura della Costituzione. L’Europa
non può pensare di avere politiche di sicurezza
che non siano comuni a tutta l’Unione. Credo che
sia importante lavorare tutti insieme alla realizzazione
di un percorso di difesa europea che dia all'Ue i necessari
strumenti operativi per poter svolgere azioni concrete.
In questo modo l'Unione europea può essere un
interlocutore autorevole sul panorama internazionale,
che può anche avanzare soluzioni diverse da quelle
proposte dalla Nato. Ma se l'Europa resterà divisa,
un punto di vista unico (e sbagliato) com’è
stato quello di Bush sull’Iraq, potrà di
nuovo mostrarsi prevalente, con esiti disastrosi.
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