“Tenere
aperta la porta ai Balcani”. Questa frase suona
come una parola d’ordine tra gli euro-palazzi
di Bruxelles e tra gli esperti della Pesc (Politica
estera e di Sicurezza Comune). Un motto che esprime
una volontà e una convinzione, ma che allo stesso
tempo si scontra contro una realtà complessa.
Complessa come il Kosovo, dove la diplomazia europea
cerca la strada verso il rispetto dei principi democratici,
dove le tasche dell’Ue riversano risorse finanziarie
per contribuire alla costruzione di infrastrutture necessarie.
Ma il soft power dell’Ue deve aggirare gli ostacoli
che si frappongono tra Pristina, Belgrado e la politica
dell’Unione; la diplomazia europea, infatti deve
fare i conti non solo con le difficoltà di mettere
ordine in una situazione che oscilla tra il desiderio
di indipendenza del Kosovo e le riluttanze serbe a non
andare oltre la concessione dell’autonomia regionale,
ma anche, dentro i confini europei, con i numerosi freni
che mirano a rallentare le politiche di allargamento.
Eppure proprio l’Ue, puntando sull’allargamento,
può contribuire seriamente a sbloccare una situazione
che chiede di progredire dalla primavera del ’99,
quando nella provincia serba, popolata per il 90% da
albanesi, si stabilirono forze internazionali a seguito
della campagna aerea di bombardamento della Nato che
avrebbe dovuto riportare ordine nella regione, agitata
da scontri etnici. La fine dell’intervento dell’Alleanza
Atlantica è stata sancita il 10 giugno dello
stesso anno dall’ambigua lettera della risoluzione
1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite,
che prevedeva la promozione di una sostanziale autonomia
e dell’autogoverno della provincia pur restando
nel quadro della sovranità nazionale serba e
dell’integrità territoriale della Repubblica.
La risoluzione istituiva contemporaneamente un’amministrazione
internazionale interinale del Kosovo (Unmik) gestita
da New York con la collaborazione delle organizzazioni
regionali coinvolte e presenti sul territorio. Nella
divisione dei compiti, all’Ue veniva assegnata
la specifica missione di sostenere la ricostruzione
e lo sviluppo economico del Kosovo, con un flusso di
finanziamenti che ha inciso pesantemente sul bilancio
di Bruxelles, ma non sempre è stato realmente
utile a risollevare le pessime condizioni di vita e
di mercato della regione.
L’Ue intanto affermava la propria volontà
politica di rimanere impegnata nella zona attraverso
l’iniziativa del Patto di Stabilità per
il sudest europeo. Il progetto, del giugno del ’99,
doveva servire a migliorare la cooperazione tra i Balcani
e gli stati europei nel tentativo di assicurare una
stabilizzazione dell’area in vista della sua futura
inclusione nell’Unione.
Non solo, Bruxelles ha dato forma concreta a tale volontà
politica con il programma di assistenza finanziaria
a favore dei candidati potenziali all’adesione,
nella cornice del processo di associazione e stabilizzazione
con l’Ue, condizionando gli aiuti al rispetto
dei principi democratici, alla costruzione dello stato
di diritto e al ritorno in patria dei rifugiati. Da
quest’anno tale progetto è stato inserito,
insieme ad altri destinati ai paesi effettivamente candidati,
nel nuovo strumento di assistenza pre adesione(Ipa),
per dare più coerenza ed efficacia alle politiche
europee di sostegno allo sviluppo dei Balcani. Inoltre,
sempre l’Ue è la principale fonte di finanziamento
della Kosovo Trust Agency, l’organismo che si
occupa della gestione fiduciaria e della privatizzazione
delle imprese kosovare che erano di proprietà
statale.
La presenza europea non si è limitata ai finanziamenti,
ma si è espressa in un intervento continuo e
sempre più consistente negli affari della regione.
Nel 2003 è stata Bruxelles ad insistere per la
definizione di un nuovo quadro istituzionale per l’unione
di Serbia e Montenegro su un piano di parità,
tanto che il progetto è noto sotto il nome di
“Solania”, in onore dell’Alto Rappresentante
Europeo per la Pesc, Javier Solana.
Tante sono le dichiarazioni politiche che testimoniano
l’impegno dell’Unione nei Balcani, a cominciare
da quella della conclusione del Consiglio europeo di
Feira nel 2000, in cui veniva affermata la possibilità
per tutti i paesi dell’area di diventare futuri
membri dell’Ue. Un’opportunità confermata
nel dicembre dello stesso anno a Zagabria e ribadita
nel 2003 al vertice di Salonicco, tappa fondamentale
nella definizione di un approccio sempre più
regionale verso l’integrazione dei Balcani, nel
tentativo di ricostituire un’unità che
la stessa Ue aveva contribuito a sfaldare nei primi
anni ’90. Così, il legame tra questi paesi
e l’Unione è stato rafforzato da continue
promesse, riformulate, nel marzo del 2006, in occasione
del vertice di Salisburgo. Soltanto che stavolta, insieme
alla solita volontà di tenere la porta aperta
ai Balcani Occidentali (definizione che comprende i
paesi della Ex-Jugoslavia meno la Slovenia e più
l’Albania) è stata avanzata la necessità
di tenere in considerazione la “capacità
di assorbimento” dell’Unione. Ecco quindi
come il processo di avvicinamento di tali stati si è
scontrato con i problemi interni ai membri dell’Ue,
con la “enlargement fatigue”, la paura,
soprattutto di certi paesi, di non riuscire a stare
al passo con un ampliamento troppo rapido del club che
comporti un aumento dell’ingovernabilità
delle istituzioni comuni.
Questo il quadro europeo. Nel frattempo le vicende
kosovare venivano scosse da nuovi eventi. La risoluzione
1244 aveva lasciato in sospeso il futuro della provincia,
prevedendo una fase transitoria di implementazione di
alcuni standard democratici a cui avrebbe fatto seguito
un dibattito sullo status. Ma il clima di incertezza
non ha fatto altro che alimentare lo scontento degli
albanesi, delusi dall’amministrazione dell’Onu,
percepita come una forma di neocolonialismo, e impazienti
di vedere riconosciute le proprie velleità indipendentiste.
L’impennata di violenza degli scontri del marzo
2004, culminati in moti contro i serbi e le Nazioni
Unite, hanno costretto New York a ripensare al cammino
che era stato previsto per il Kosovo e passare dalla
politica dello “standard before status”
a quella dello “standard and status”, nella
consapevolezza che solo un processo parallelo avrebbe
permesso di ottenere sforzi concreti dalle autorità
locali e di tenere a bada le rimostranze degli indipendentisti.
Così, è stato realizzato uno studio approfondito
della situazione e nel febbraio del 2006 si sono aperti,
a Vienna, i negoziati per la definizione dello status
del Kosovo. I lavori, diretti dal mediatore dell’Onu
Martti Ahtisaari, si sono protratti a lungo e solo da
un paio di settimane il diplomatico ha reso noto il
piano elaborato durante le trattative. Niente di particolarmente
sorprendente: il progetto di Ahtisaari, pur volendo
evitare una soluzione imposta e cercare la massima soddisfazione
delle due parti, non riesce a superare l’impasse
del contrasto tra il principio della sovranità
nazionale e quello dell’autodeterminazione dei
popoli, non parla di indipendenza ma, ancora una volta,
di autonomia e lascia insoddisfatte sia Belgrado che
Pristina.
Ma la proposta, seppur non innovativa, è interessante,
specialmente per Bruxelles. Infatti, viene previsto
nel piano il mantenimento di una presenza internazionale
con caratteristiche diverse da quelle attuali e a guida
Ue. L’organismo dovrebbe essere denominato International
Civilian Office (Ico), avere poteri più limitati
dell’Unmik e un’ingerenza meno massiccia
negli affari interni della provincia. Il compito principale
della missione dovrebbe essere quello di monitorare
l’implementazione degli standard e di intervenire
indirettamente solo nel caso in cui si registri una
mancata collaborazione delle autorità locali.
All’impegno nel settore civile si accompagnerebbe
poi una presenza militare, sempre Ue, per garantire
il mantenimento dell’ordine pubblico e lo svolgimento
di attività di mentoring rivolte ad aiutare le
forze di polizia locali a gestire le questioni più
delicate e complesse.
La proposta non testimonia solo la volontà
dell’Onu di sganciarsi progressivamente dall’affare
kosovaro delegando competenze ad altre organizzazioni,
ma costituisce anche un riconoscimento delle capacità
che l’Ue ha cercato di sviluppare negli anni che
hanno fatto seguito al conflitto jugoslavo, nel tentativo
di migliorare la politica estera e di sicurezza comune
e dimostrare una maggiore maturità nella gestione
delle crisi.
Nonostante un percorso difficile e discontinuo, i Balcani
sono stati un buon terreno di prova per Bruxelles, soprattutto
nell’elaborazione di un approccio peculiare del
crisis management che mira a combinare gli aspetti militari
con quelli civili, integrando gli obiettivi della stabilizzazione
e della sicurezza con quello della lotta contro il crimine
organizzato e le mafie.
Per questo, un possibile coinvolgimento in prima linea
delle istituzioni europee nel nuovo assetto del Kosovo
sarebbe sicuramente un’esperienza preziosa per
Bruxelles, per testare ancora una volta le soluzioni
adottate in altri contesti e per studiarne di originali.
C’è chi, come il diplomatico svedese Carl
Bildt, già rappresentante europeo agli accordi
di Dayton sulla Bosnia Erzegovina, ha proposto un legame
ancora più forte tra la definizione dello status
della provincia serba e il ruolo dell’Ue, nella
prospettiva della configurazione del Kosovo come prima
regione europea. Il progetto prevede una relazione speciale
che permetterebbe a Bruxelles di monitorare lo sviluppo
democratico ed economico del territorio, lasciando allo
stesso tempo a quest’ultimo un’ampia autonomia
e superando le resistenze interne rispetto ad ulteriori
allargamenti dell’Unione.
Al di là delle soluzioni immaginate ed effettivamente
formulate, è fondamentale che i 27 comprendano
l’importanza di non abbandonare il loro impegno
in Kosovo e nei Balcani. Non è solo una questione
di credibilità e un dovere che deriva dal rispetto
di certe promesse, ma è anche un contegno che
comporta dei benefici per l’Unione stessa. L’ipotesi
di una sovranità limitata o condivisa del Kosovo
è possibile solo all’interno della cornice
europea, perché quella dell’integrazione
all’Ue sembra essere l’unica prospettiva
ambita sia dai serbi che dagli albanesi e il solo fattore
di moderazione dei loro leaders. Questi paesi sono già
in Europa, sono circondati da tutti stati già
membri dell’Unione e rischiano di continuare ad
essere un buco nero foriero di nuove instabilità,
soprattutto se l’attrazione esercitata dalle istituzioni
europee perdesse forza e la cooperazione regionale venisse
lasciata nelle mani degli unici attori che sembrano
avere successo nel garantire l’unità della
regione: le mafie. È quindi preferibile che tali
paesi vengano a far parte di diritto nell’Unione,
seguendo la strada disegnata da Bruxelles e subordinandosi
al rispetto delle regole delle democrazia e dello stato
di diritto, piuttosto che entrarvi di prepotenza richiamando
l’attenzione dell’Unione su ulteriori crisi
da gestire. E non bisogna lasciare che le indecisioni
interne condizionino l’atteggiamento di Bruxelles,
non è detto che allargamento e riforme istituzionali
non possano essere portati avanti contemporaneamente,
anche perché nessuna adesione dei Balcani Occidentali
sarebbe prevista prima del 2014.
È pur vero che non si può dare per scontato
che il piano Ahtisaari venga approvato nella discussione
al Consiglio di Sicurezza prevista per metà marzo
e comunque bisogna tener conto che le difficoltà
nell’attuarlo saranno enormi, a partire dalle
pessime condizioni dell’economia kosovara e dalle
resistenze di tipo culturale e storico che caratterizzano
lo scontro tra serbi e albanesi e che i dirigenti occidentali
si ostinano a non capire.
Tuttavia, Bruxelles non deve perdere l’opportunità
di giocare un ruolo fondamentale nella stabilizzazione
della regione, cominciando proprio dal Kosovo. Vale
la pena di cogliere la chance di dimostrare che il soft
power europeo sa produrre risultati concreti anche,
e soprattutto, in scenari geopolitici dove la realtà
è assai complicata.
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