“Mi
chiamo Karim Amir e sono un vero inglese dalla testa
ai piedi, o quasi. La gente tende a considerarmi uno
strano tipo di inglese, magari di una nuova razza, dal
momento che sono il prodotto di due culture. Io però
me ne frego, sono inglese (non che me ne vanti)”.
Quando le chiediamo di parlarci di integrazione e cittadinanza,
a Giovanna Zincone, autrice del saggio Familismo
legale. Come (non) diventare italiani (Laterza)
e consigliere del Presidente della Repubblica per la
coesione sociale, viene in mente Il Buddha delle
periferie di Hanif Kureishi.
“Ho conosciuto un professore universitario di
ingegneria che veniva dall’Iran e in Canada faceva
il tassista”, spiega la Zincone. “Mi disse
che era contentissimo comunque, anche se era stato declassato:
sfuggito a un regime oppressivo, assaporava il piacere
di vivere in una democrazia e i suoi figli potevano
studiare liberamente. Forse, se i figli fossero stati
discriminati non sarebbero stati altrettanto contenti”.
Partiamo da qui allora, dai cittadini di origini migranti
per affrontare il tema, quanto mai attuale, del diritto
alla cittadinanza e delle leggi che lo regolano in Italia
e in Europa.
Dagli attentati di Londra al fuoco delle banlieue,
sembrerebbe che l’Europa abbia un problema di
integrazione della seconda generazione di immigrati,
di chi è cittadino ma ha origini migranti. Quali
sono le possibili ragioni?
Ci sono diverse modalità per acquisire la cittadinanza.
Non sempre l’acquisizione avviene a seguito di
un atto volontario. A volte può essere attribuita
in maniera quasi automatica, come nel caso dei paesi
– in particolare in Francia, dove è stato
inventato – che adottano l’istituto del
doppio jus soli, laddove la nascita sia del
genitore che del figlio sul territorio dà a quest’ultimo
la cittadinanza. A volte sono i genitori, gli immigrati
di prima generazione, a decidere per i figli, tuttavia
se la scelta volontaria dei padri rende questi ultimi
più disposti ad accettare eventuali discriminazioni,
declassamenti o perdita di status – come era il
caso del tassista iraniano in Canada – per la
generazione dei figli è difficile accettare un
sistema sociale discriminatorio che, nei fatti, limita
loro l’accesso agli studi superiori o ai lavori
più appetibili o li disprezza. Insomma, la cittadinanza
non è una condizione né necessaria né
sufficiente all’integrazione. È vero che
un paese con una cittadinanza aperta presenta una maggiore
offerta di integrazione. Tuttavia, un conto sono le
politiche di integrazione sulla carta, che mettono a
disposizione diritti – accesso alla scuola, alla
sanità, al mercato del lavoro, alla cittadinanza
– e un conto sono i comportamenti reali della
società. Una serie di ricerche, tra cui anche
una condotta da Fieri, il Forum Internazionale ed Europeo
di Ricerche sull’Immigrazione che presiedo, ha
evidenziato come a parità di conoscenza della
lingua e titolo di studio, tra due persone in lizza
per un impiego a essere sfavorita è quella che
ha origini migranti.
Da questo punto di vista, lei ha sottolineato
in diverse occasioni l’importanza e la responsabilità
della comunicazione pubblica che comprende anche la
stampa e i media. In molti casi, il discorso pubblico
però è irresponsabile. È possibile
e, soprattutto, è lecito intervenire per limitarne
gli effetti?
Attualmente c’è una grande polemica sugli
hate speeches, sulla liceità o meno
di utilizzare espressioni di odio e disprezzo nei confronti
delle minoranze. In America sono semplicemente vietati.
Da noi, qualche settimana fa, si è discusso sull’opportunità
di vietare il negazionismo. È una scelta difficile,
soprattutto per un liberale, perché se da una
parte c’è la tutela della dignità
della persona, dall’altra c’è la
libertà di espressione. Credo che gli strumenti
di legge siano controversi. In realtà, dovrebbe
esistere una sorta di autodisciplina derivante dal senso
di responsabilità o, se si vuole, di buon gusto
della retorica pubblica. Non vedo soluzioni diverse
dall’avere una classe politica migliore. Purtroppo
la grave mancanza italiana è proprio il fatto
che chi ricopre incarichi pubblici o istituzionali e
pronuncia espressioni sprezzanti nei confronti degli
immigrati, spesso sa di parlare alla pancia dell’elettorato
e tenta di fare presa sugli istinti più bassi.
Aldilà dei limiti della nostra comunicazione
pubblica, non sembra che la legge italiana in materia
di cittadinanza aiuti particolarmente l’immigrato.
In effetti, la legge in vigore presenta alcuni elementi
di eccentricità rispetto alle realtà e
agli andamenti prevalenti in Europa, sebbene le normative
dei paesi europei siano molto diverse fra loro e poco
omogenee. In Italia, e in poche altre nazioni come,
ad esempio, l’Austria, si può fare domanda
di cittadinanza dopo 10 anni di residenza regolare,
un tempo lunghissimo. Non esistono sconti per chi è
cresciuto in territorio italiano fin da piccolo –
ovvero per la cosiddetta prima generazione e ½
o prima generazione e ¾. Sconti non ci sono neppure
per chi in Italia è nato, anche se da genitori
stranieri: il nostro jus soli si applica esclusivamente
una volta raggiunta la maggiore età e a patto
che il soggiorno sia stato regolare e continuativo.
A creare problemi basta avere trascorso un periodo di
studio o di vacanza nel paese d’origine. Al contrario,
è abbastanza facile diventare cittadino attraverso
il matrimonio e lo straniero di origine italiana può
con estrema facilità rivendicare la propria cittadinanza,
un diritto che è praticamente impossibile perdere
per chi ha sangue italiano. È per questa ragione
che parlo di “familismo legale” che, in
ultima analisi, è la vera anomalia del caso italiano,
un’anomalia doppia anche perché, da molto
tempo ormai, l’Italia non è più
un paese di emigrazione ma di immigrazione.
Un cambio di direzione che la legge pare abbia
mancato di registrare. Non le sembra una stranezza?
La cosa strana è che la legge in vigore, la
legge n. 91 del 1992, seguiva la Martelli del 1990 in
cui pareva che la classe politica fosse abbastanza consapevole
di questa trasformazione. Direi anzi che allora, a differenza
di adesso, non c’era stata ancora una reazione
di opposizione e timore nei confronti del flusso migratorio.
Ma questa è un’altra stravagante caratteristica
del sistema politico italiano: la grande instabilità
dell’esecutivo fa sì che le leggi arrivino
a compimento con un enorme ritardo rispetto alla loro
ideazione. Peraltro spesso il processo decisionale è
affetto da una sorta di schizofrenia e può capitare
che la stessa maggioranza vari delle norme che vanno
in direzioni completamente diverse, come se la legislazione
non seguisse un piano coerente.
Sempre per colpa delle elezioni dietro l’angolo?
È un elemento che spiega questo zigzagare. Sicuramente
a ridosso delle elezioni, si tende a correggere il tiro
e i partiti cercano di avvicinarsi di più all’elettorato,
mentre quando ci si allontana dal voto, essi rispondono
maggiormente alle lobby. Ciò comporta che, in
fondo, alle grandi differenze retoriche tra centrodestra
e centrosinistra non corrispondano delle difformità
particolarmente profonde nei fatti.
La scorsa estate si è molto parlato
del disegno di legge Amato, che è in discussione
in questi mesi in Parlamento. Qual è il suo giudizio?
Personalmente, credo che si inserisca molto in un quadro
europeo, perché tanto è stato fatto per
correggere quella eccentricità italiana di cui
abbiamo già parlato. Mi sembra anche che sia
un progetto equilibrato: da una parte facilita l’acquisizione
della cittadinanza per jus soli, dall’altra rende
più difficile l’acquisto per matrimonio,
da un lato riduce i termini di residenza, dall’altro
introduce il criterio della conoscenza linguistica e
rafforza notevolmente l’elemento della condivisione
dei valori nazionali.
Il testo unificato Bressa ha apportato delle
modifiche a quel disegno. Cosa è cambiato?
Non mi sembra che le variazioni siano molto forti; piuttosto
il testo Bressa ha specificato e definito alcuni requisiti
come, ad esempio, quello della conoscenza linguistica
stabilendo che l’acquisizione della cittadinanza
è condizionata a una conoscenza della lingua
italiana equivalente al livello del terzo anno della
scuola primaria. Ha ribadito ed esplicitato il principio
di accettazione della doppia cittadinanza e ha ulteriormente
semplificato l’acquisizione per jus soli eliminando
il requisito reddituale. Ha lasciato, poi, la possibilità
di acquisire la cittadinanza dopo dieci anni in assenza
del requisito linguistico, pensando soprattutto alle
persone più anziane che possono avere difficoltà
ad apprendere la nuova lingua. Un cambiamento che non
mi sento di condividere è il passaggio della
prerogativa della firma dei decreti di concessione della
cittadinanza, nelle modalità più importanti,
dalla Presidenza della Repubblica al Ministero dell’Interno.
Il decreto che concede la cittadinanza sancisce l’ingresso
a pieno titolo nella comunità politica oltre
che civile, e il Presidente della Repubblica occupa
una posizione super partes che garantisce una formalizzazione
più alta: con la sua firma è l’intera
comunità nazionale ad accettare il nuovo cittadino
e non una data maggioranza o un dato governo.
Ha già detto che all’interno dell’Europa
non vi è omogeneità in materia di leggi
sulla cittadinanza. Qual è il quadro dell’Unione
e quali sono le prospettive di convergenza nelle politiche
future della Ue?
Né la cittadinanza né la regolazione
dei flussi migratori rientrano nelle competenze dell’Unione
Europea, nonostante le politiche in materia di immigrazione
e di asilo siano passate dal terzo al primo pilastro
dell’Unione e siano state comunitarizzate dal
Trattato di Amsterdam. D’altro canto, la cittadinanza
e l’accesso al territorio vengono percepiti come
il nucleo della sovranità dello stato. È
vero comunque che all’interno dell’Unione
Europea c’è una certa comunicazione e una
sorta di influenza indiretta tra gli stati membri, che
danno vita a una naturale tendenza a convergere. Ad
esempio, nei paesi di nuova accessione si è molto
guardato alle normative degli altri stati europei. Ma
va anche detto che le tradizioni e le eredità
storiche sono assai diverse, pensiamo alla storia coloniale
o alla storia del diritto. A livello logico, dato che
la cittadinanza nazionale dà automaticamente
accesso a quella europea, sarebbe preferibile oltre
che necessaria una certa armonizzazione. Lo stesso vale
per la regolazione dei flussi migratori. Si tratta,
però, di una strada impraticabile perché
non mi pare, in questo momento, che gli stati membri
siano particolarmente disposti a cedere sovranità.
Non ci resta che accettare un alto grado di irrazionalità,
una certa incoerenza, nella normativa, sia che essa
sia nazionale o sovranazionale.
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