316 - 02.03.07


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Le quote non sono panacee

Catherine de Wenden
Con Luca Sebastiani


L’immigrazione è forse uno dei problemi in cui la mancanza di una organica politica europea si avverte di più. È una questione globale, che chiama in causa la mobilità interna ai confini europei, ma che viene spesso affrontata ancora a livello nazionale. Sulla spinta dei paesi più esposti al fenomeno, alcuni passi sono stati però compiuti sulla strada di un approccio comune e, in prospettiva, ancora più vasto.
Ne abbiamo parlato con Catherine de Wenden, direttrice di ricerca al Cnrs e all’Istituto di studi politici di Parigi , consulente dell’Ocse, del Consiglio d’Europa e della Commissione europea che da vent’anni lavora sui differenti temi legati all’immigrazione.

Che tipo di migrazione si trova ad affrontare oggi l’Europa?

Da qualche anno ci troviamo di fronte a una situazione nuova rispetto a quella a cui eravamo abituati. Ora gli immigrati arrivano soprattutto dalla Cina, dalla Turchia per la questione aperta dei curdi, dal Medio Oriente, dall’Afghanistan, dall’Iraq e ovviamente dall’Africa subsahariana. La migrazione di vicinanza è molto meno importante rispetto al passato prossimo quando i paesi di partenza erano invece la Romania, la Bulgaria, la Moldavia, gli stati del Maghreb. Questi sono ora diventati paesi d’immigrazione o di transito, mentre i punti di partenza si sono spostati altrove.

Una conseguenza dell’allargamento dell’Unione europea?

Certamente l’allargamento ha contribuito a fare dei dieci nuovi paesi entrati nell’Ue nel 2004 nuovi spazi migratori. Paesi storicamente d’emigrazione, quelli dell’Europa Centrale e Orientale sono oggi terre in cui i migranti arrivano da paesi frontalieri come la Moldavia o l’Ucraina. Come dall’altra parte del Mediterraneo, fenomeno recente, è il Maghreb a divenire terra d’immigrazione.

Quali sono i punti su cui l’Ue ha concentrato le sue politiche?

L’Unione europea si è concentrata soprattutto sul controllo dei clandestini. Secondo l’Europol sono almeno 500mila gli immigrati che arrivano ogni anno irregolarmente. Se prendiamo il caso della Spagna si può capire quanto questa realtà possa spingere ad una risposta. Sulla Penisola Iberica sono arrivate oltre 200mila persone ogni anno negli ultimi cinque. Senza contare lo scandalo della morte di migliaia di persone che tentano disperatamente di arrivare in Europa.

Quali strumenti si sta dando l’Unione per far fronte al problema?

La prima cosa sono gli accordi con i paesi di transito come il Marocco o l’Africa subsahariana. Negli scorsi sei mesi ci sono state ben tre conferenze su questo tema. Quella di Rabat del luglio 2006, quella di Malta con cinque paesi della costa Nord del mediterraneo e cinque della costa Sud, e poi la conferenza di Tripoli in novembre in cui la Libia ha accettato di fare il guardia-frontiere dell’Europa. Poi ci sono gli accordi per il riaccompagnamento verso i paesi d’origine e il sistema Frontex, un sistema di cooperazione tra i paesi europei per i controlli alle frontiere esteriori.

Sono mezzi adeguati al fenomeno?

Certo non è abbastanza perché l’immigrazione clandestina continua, alimentata dalla disoccupazione, dall’urbanizzazione e dalla scolarizzazione nei paesi di partenza. Nella riva Sud del Mediterraneo il 50% della popolazione ha meno di 25 anni e la visione della tivù crea un desiderio d’Europa. I mezzi di controllo non bastano, la sfida adesso è di allargare il dibattito ai paesi di partenza e l’introduzione dell’idea di cooperazione allo sviluppo nelle politiche migratorie. È un’idea abbastanza recente. Allargare gli attori in gioco, come è stato fatto ad esempio alle conferenze che dicevamo prima, per costruire una specie di global menagement delle migrazioni. Tra sei mesi, in luglio, un incontro mondiale si terrà a Bruxelles, perché si è capito che le migrazioni non si possono gestire a livello nazionale o regionale. Bisogna creare una governance internazionale del fenomeno.

Cosa ne pensa delle quote?

Nel contesto della mondializzazione, di aspirazione alla mobilità, la scommessa consiste nel trovare un compromesso tra la soddisfazione dei bisogni di mano d’opera, le prospettive demografiche e il rispetto degli impegni internazionali. Le idee di quote professionali, di accordi bilaterali di mano d’opera, vanno nella direzione nel buon senso anche se non sono che panacee.

Spesso le quote si risolvono in “immigrazione scelta” accusata di rubare i cervelli ai paesi che ne avrebbero bisogno.

È difficile evitare il fenomeno del brain drain ma bisogna anche sfumarne gli inconvenienti. I paesi d’emigrazione infatti beneficiano del trasferimento di fondi degli emigrati. Un recente rapporto dell’Onu ha svelato gli effetti benefici delle migrazioni sui i paesi di partenza. Le rimesse sono state fondamentali affinché paesi come la Spagna e il Portogallo si sviluppassero. L’essenziale è sviluppare le cooperazioni tra paesi europei e paesi d’emigrazione per concepire una politica migratoria che sia benefica ad entrambi.

 



 

 

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