L’immigrazione
è forse uno dei problemi in cui la mancanza di
una organica politica europea si avverte di più.
È una questione globale, che chiama in causa
la mobilità interna ai confini europei, ma che
viene spesso affrontata ancora a livello nazionale.
Sulla spinta dei paesi più esposti al fenomeno,
alcuni passi sono stati però compiuti sulla strada
di un approccio comune e, in prospettiva, ancora più
vasto.
Ne abbiamo parlato con Catherine de Wenden, direttrice
di ricerca al Cnrs e all’Istituto di studi politici
di Parigi , consulente dell’Ocse, del Consiglio
d’Europa e della Commissione europea che da vent’anni
lavora sui differenti temi legati all’immigrazione.
Che tipo di migrazione si trova ad affrontare
oggi l’Europa?
Da qualche anno ci troviamo di fronte a una situazione
nuova rispetto a quella a cui eravamo abituati. Ora
gli immigrati arrivano soprattutto dalla Cina, dalla
Turchia per la questione aperta dei curdi, dal Medio
Oriente, dall’Afghanistan, dall’Iraq e ovviamente
dall’Africa subsahariana. La migrazione di vicinanza
è molto meno importante rispetto al passato prossimo
quando i paesi di partenza erano invece la Romania,
la Bulgaria, la Moldavia, gli stati del Maghreb. Questi
sono ora diventati paesi d’immigrazione o di transito,
mentre i punti di partenza si sono spostati altrove.
Una conseguenza dell’allargamento dell’Unione
europea?
Certamente l’allargamento ha contribuito a fare
dei dieci nuovi paesi entrati nell’Ue nel 2004
nuovi spazi migratori. Paesi storicamente d’emigrazione,
quelli dell’Europa Centrale e Orientale sono oggi
terre in cui i migranti arrivano da paesi frontalieri
come la Moldavia o l’Ucraina. Come dall’altra
parte del Mediterraneo, fenomeno recente, è il
Maghreb a divenire terra d’immigrazione.
Quali sono i punti su cui l’Ue ha concentrato
le sue politiche?
L’Unione europea si è concentrata soprattutto
sul controllo dei clandestini. Secondo l’Europol
sono almeno 500mila gli immigrati che arrivano ogni
anno irregolarmente. Se prendiamo il caso della Spagna
si può capire quanto questa realtà possa
spingere ad una risposta. Sulla Penisola Iberica sono
arrivate oltre 200mila persone ogni anno negli ultimi
cinque. Senza contare lo scandalo della morte di migliaia
di persone che tentano disperatamente di arrivare in
Europa.
Quali strumenti si sta dando l’Unione
per far fronte al problema?
La prima cosa sono gli accordi con i paesi di transito
come il Marocco o l’Africa subsahariana. Negli
scorsi sei mesi ci sono state ben tre conferenze su
questo tema. Quella di Rabat del luglio 2006, quella
di Malta con cinque paesi della costa Nord del mediterraneo
e cinque della costa Sud, e poi la conferenza di Tripoli
in novembre in cui la Libia ha accettato di fare il
guardia-frontiere dell’Europa. Poi ci sono gli
accordi per il riaccompagnamento verso i paesi d’origine
e il sistema Frontex, un sistema di cooperazione tra
i paesi europei per i controlli alle frontiere esteriori.
Sono mezzi adeguati al fenomeno?
Certo non è abbastanza perché l’immigrazione
clandestina continua, alimentata dalla disoccupazione,
dall’urbanizzazione e dalla scolarizzazione nei
paesi di partenza. Nella riva Sud del Mediterraneo il
50% della popolazione ha meno di 25 anni e la visione
della tivù crea un desiderio d’Europa.
I mezzi di controllo non bastano, la sfida adesso è
di allargare il dibattito ai paesi di partenza e l’introduzione
dell’idea di cooperazione allo sviluppo nelle
politiche migratorie. È un’idea abbastanza
recente. Allargare gli attori in gioco, come è
stato fatto ad esempio alle conferenze che dicevamo
prima, per costruire una specie di global menagement
delle migrazioni. Tra sei mesi, in luglio, un incontro
mondiale si terrà a Bruxelles, perché
si è capito che le migrazioni non si possono
gestire a livello nazionale o regionale. Bisogna creare
una governance internazionale del fenomeno.
Cosa ne pensa delle quote?
Nel contesto della mondializzazione, di aspirazione
alla mobilità, la scommessa consiste nel trovare
un compromesso tra la soddisfazione dei bisogni di mano
d’opera, le prospettive demografiche e il rispetto
degli impegni internazionali. Le idee di quote professionali,
di accordi bilaterali di mano d’opera, vanno nella
direzione nel buon senso anche se non sono che panacee.
Spesso le quote si risolvono in “immigrazione
scelta” accusata di rubare i cervelli ai paesi
che ne avrebbero bisogno.
È difficile evitare il fenomeno del brain
drain ma bisogna anche sfumarne gli inconvenienti.
I paesi d’emigrazione infatti beneficiano del
trasferimento di fondi degli emigrati. Un recente rapporto
dell’Onu ha svelato gli effetti benefici delle
migrazioni sui i paesi di partenza. Le rimesse sono
state fondamentali affinché paesi come la Spagna
e il Portogallo si sviluppassero. L’essenziale
è sviluppare le cooperazioni tra paesi europei
e paesi d’emigrazione per concepire una politica
migratoria che sia benefica ad entrambi.
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