Corre voce
che alla fine del 1991, durante i negoziati finali del
Trattato di Maastricht, il Primo Ministro spagnolo Felipe
Gonzáles convinse gli altri capi di governo a
introdurre la cittadinanza dell’Unione Europea.
Si dice che Gonzáles avesse segnalato che gli
ambiziosi obiettivi dell’unione economica e monetaria
potevano essere venduti agli elettori se questi ultimi
si fossero potuti considerare cittadini d’Europa.
Come esercizio di pubbliche relazioni, la cittadinanza
europea è stato un deprimente fallimento. Non
solo inizialmente i Danesi respinsero il Trattato di
Maastricht in un referendum, ma tredici anni più
tardi il tentativo di consolidare l’integrazione
politica attraverso un Trattato costituzionale venne
respinto dai francesi e dagli olandesi. Sembra che Felipe
Gonzáles si sbagliasse: la maggior parte dei
cittadini in Europa non sono ansiosi di diventare cittadini
dell’Europa e guardano con sospetto a
qualsiasi richiesta di spostare la loro lealtà
politica e le loro identità dal livello nazionale
a quello sovranazionale. I policy-makers europei ne
sono ben consapevoli. Nel Trattato di Amsterdam del
1997 dichiaravano che “la cittadinanza dell’Unione
dovrebbe fare da complemento e non rimpiazzare la cittadinanza
nazionale” e che “l’unione deve rispettare
le identità nazionali dei suoi stati membri”.
Il diritto europeo quindi non riconosce nessuna autorità
all’Unione nella determinazione dei propri cittadini.
La cittadinanza dell’Unione, invece, è
semplicemente una derivazione della cittadinanza degli
stati membri.
La cittadinanza democratica è intesa ad autorizzare
i cittadini a ritenere i governanti responsabili nei
loro confronti. A questo proposito, la cittadinanza
dell’Unione soddisfa a stento le aspirazioni democratiche.
Il suo diritto più importante è il diritto
di voto al Parlamento europeo, ma questo parlamento
non è un organo legislativo sovrano. Il vero
valore dell’essere un cittadino dell’Unione
non è nei diritti che si hanno nei confronti
delle istituzioni dell’Unione, ma nei diritti
verso gli altri stati membri. La cittadinanza dell’Unione
proibisce ampiamente ai governi nazionali di discriminare
i cittadini di altri stati della Ue. L’impatto
davvero forte della cittadinanza europea è, quindi,
nel suo contributo alla creazione di uno spazio comune
di libero movimento in cui i cittadini non perdono i
loro diritti quando attraversano confini interni. Quando,
nel 2004, dodici governi decisero contro l’apertura
dei loro mercati del lavoro ai cittadini dei nuovi stati
membri, e quando Austria, Germania e Danimarca stabilirono
di mantenere pienamente queste restrizioni nel maggio
del 2006, si trattò di una violazione molto seria
di un principio centrale della cittadinanza europea.
La costruzione attuale della cittadinanza dell’Unione
combina, perciò, due principali caratteristiche.
Essa deriva dalla cittadinanza di uno stato membro e
dà libero accesso agli altri stati membri. Il
fatto di cui i redattori dei trattati europei non sono
stati consapevoli è che esiste una tensione intrinseca
tra questi due aspetti. Ecco quattro spiegazioni.
Negli anni ’90 l’Italia iniziò a
offrire la propria cittadinanzia ad ampi gruppi di persone
di origine italiana che vivevano in Sud America senza
richiedere loro di prendere la residenza prima. Molti
argentini e brasiliani che scoprirono allora le proprie
radici italiane erano, tuttavia, più interessati
a un passaporto europeo che alla cittadinanza italiana
che hanno utilizzato per migrare in Spagna, in Inghilterra
o persino negli Stati Uniti. L’Italia non è,
a ogni modo, l’unico stato che fornisce accesso
extraterritoriale alla cittadinanza dell’Unione.
Sette dei vecchi stati membri e tutti i nuovi permettono
ai loro emigranti di trasferire la loro cittadinanza,
di generazione in generazione, per discendenza senza
alcun requisito di residenza nel paese d’origine.
Nel 2004 la Corte di Giustizia europea ha appoggiato
la richiesta di residenza in Gran Bretagna avanzata
da Man Levette Chen, una madre cinese. La Chen aveva
vissuto in Inghilterra senza un idoneo permesso di residenza.
Quando era incinta del suo secondo figlio, andò
a Belfast per partorire lì perché allora
la legge della Repubblica d’Irlanda estendeva
automaticamente la cittadinanza per nascita a chiunque
fosse nato in un qualsiasi luogo dell’isola, compresa
l’Irlanda del Nord. Così la figlia della
Chen divenne irlandese e cittadina europea e sua madre
aveva il diritto di stare in Inghilterra come principale
responsabile di una cittadina europea. Successivamente,
nella Repubblica irlandese un referendum portò
all’abolizione dell’ automatica cittadinanza
per nascita sul territorio. L’elettorato temeva
un “turismo delle nascite” da cittadini
di paesi terzi.
Il regime attuale, comunque, non crea semplicemente
la possibilità di uno “European passport
shopping” in quegli stati che offrono un accesso
più facile; genera anche ineguaglianza ed esclusione.
Pensiamo a una famiglia turca i cui membri si stabiliscono
in stati europei differenti. Un fratello che emigra
in Belgio può essere naturalizzato lì
dopo tre anni di residenza. In qualità di cittadino
europeo, può poi unirsi a sua sorella in Austria
e potrà essere in grado di votare nelle elezioni
europee e locali immediatamente dopo il suo arrivo.
Tuttavia, sua sorella, che ha vissuto tutto il tempo
in una città austriaca, resterà esclusa
dalla partecipazione democratica: dovrà aspettare
dieci anni prima di poter fare richiesta di naturalizzazione
in Austria.
La tensione tra la libertà di movimento e l’auto-determinazione
nazionale della cittadinanza si palesa anche nel paradosso
che la mobilità all’interno dell’Europa
può diventare un ostacolo all’accesso alla
cittadinanza europea. I migranti che si spostano spesso
tra paesi differenti dell’Unione possono non avere
mai la possibilità di diventare cittadini dell’Unione,
dal momento che quasi tutti gli stati richiedono un
certo periodo di residenza continuata sul loro territorio
come condizione per la naturalizzazione.
Ci sono diverse modalità per rispondere a questi
problemi. Una soluzione radicale sarebbe capovolgere
il rapporto tra cittadinanza sovranazionale e nazionale,
cosicché sia la prima a determinare la seconda.
Questo trasformerebbe l’Unione in una federazione
simile alla Germania o agli Stati Uniti. L’Unione
avrebbe la propria legge per l’acquisizione della
cittadinanza europea per nascita e per la naturalizzazione
e ogni cittadino dell’Unione che si stabilisse
in uno degli stati membri diventerebbe automaticamente
un cittadino di quel paese con il diritto di voto non
semplicemente nelle elezioni locali ed europee, ma anche
in quelle nazionali. Non c’è quasi alcun
sostegno politico tra i cittadini e i governi europei
alla costruzione di una federazione di questo tipo.
L’alternativa sembra essere sperare in una convergenza
spontanea delle politiche della cittadinanza, proveniente
dal basso. Molte riforme nazionali si sono mosse in
direzioni simili nel corso dei decenni passati, ma sarebbe
piuttosto ottimistico credere che gli stati membri siano
disposti a modificare le proprie leggi per evitare di
caricare altri stati dei problemi dell’immigrazione
o per garantire condizioni per l’accesso alla
cittadinanza pressoché uguali in tutta Europa.
Liberalizzazione e reazione
Guardiamo, quindi, alla prova empirica offerta da uno
studio completo pubblicato di recente sulle norme per
l’acquisizione e la perdita della cittadinanza
nei 15 stati. Durante gli ultimi decenni, un cambiamento
notevole è stato il ritmo stesso delle trasformazioni.
Le leggi sulla cittadinanza erano considerate strettamente
connesse a tradizioni storiche di lunga durata della
costruzione dello Stato e dell’identità
nazionale. Nel 1992, il sociologo americano Rogers Brubaker
spiegò i diversi atteggiamenti nei confronti
dell’immigrazione della Germania e della Francia
con i loro concetti di nazionalità che si basavano,
rispettivamente, su discendenza etnica o consenso repubblicano.
Comunque, nel 1999, la Germania adottò una nuova
legge che introduceva lo ius soli, dando la
cittadinanza per nascita a qualsiasi bambino venuto
alla luce in territorio tedesco da un genitore che avesse
otto anni di residenza legale. Questa disposizione è
più inclusiva, dal punto di vista formale, rispetto
alla legge francese, che attribuisce la cittadinanza
per nascita automatica solo ai bambini i cui genitori
sono nati in Francia e la cittadinanza opzionale, una
volta raggiunta l’età adulta, a coloro
che sono nati in Francia da genitori nati all’estero.
Oggi, in molti paesi, la cittadinanza è passata
al centro dei dibattiti politici domestici ed è
divenuta un’area di politica volatile dove è
probabile che un cambiamento di governo produca una
riforma legislativa. Dopo la svolta tedesca, importanti
riforme liberali hanno avuto luogo in Belgio nel 2000,
nel Lussemburgo e in Svezia nel 2001, in Finlandia nel
2003 e in Portogallo nel 2006. Queste liberalizzazioni
hanno rafforzato lo ius soli, ridotto i requisiti
di residenza e gli altri necessari alla naturalizzazione
o permesso a coloro che presentassero domanda di mantenere
una precedente nazionalità.
La riforma portoghese, varata nel febbraio 2006, è
un esempio particolarmente interessante. Tutti gli stati
mediterranei dell’Unione hanno adottato leggi
sulla cittadinanza piuttosto esclusive nei confronti
dei gruppi neo-arrivati ma generose nei confronti degli
emigranti e di quegli immigrati considerati linguisticamente
o etnicamente affini. Questo atteggiamento può
essere in parte spiegato da una storia di costruzione
della nazione modellata dalle emigrazioni di massa.
Come nei paesi europei occidentali e settentrionali
che avevano perseguito politiche per i lavoratori-ospiti
negli anni ’60 e ’70, gli immigrati che
non rientrano nel concetto culturale di identità
nazionale non sono stati considerati dei futuri cittadini.
La nuova legge portoghese, tuttavia, introduce la cittadinanza
automatica per nascita per la terza generazione o, in
altre parole, per i figli i cui genitori sono nati in
Portogallo, e la cittadinanza per acquisizione per la
seconda generazione attraverso la semplice dichiarazione
che uno dei genitori ha risieduto legalmente in Portogallo
per cinque anni. Essa crea un diritto alla naturalizzazione
per la prima generazione di immigrati se sanno parlare
portoghese e hanno una fedina penale pulita. La naturalizzazione
non richiede più un reddito sufficiente o altre
prove di integrazione. Infine, riducendo il requisito
generale di residenza a sei anni, la nuova legge abolisce
un precedente privilegio dei cittadini lusofoni estendendolo
a tutti gli immigrati.
Poco dopo essersi insediato, il governo italiano guidato
da Romano Prodi ha annunciato anch’esso una riforma
della cittadinanza italiana di vasta portata. Le politiche
della cittadinanza greche sono tra le più restrittive
in Europa e sembra improbabile che cambino. Resta da
vedere se il governo spagnolo, che ha promosso una legislazione
integrativa per gli immigrati in altri settori, seguirà
alla fine gli esempi portoghese e italiano. Nei paesi
“di vecchia immigrazione” dell’Europa
occidentale, settentrionale e centrale, i periodi di
attesa per la naturalizzazione variano da 3-4 anni (Belgio
e Irlanda) a 10 (Austria). La tendenza a tollerare la
doppia nazionalità non è priva di eccezioni
e rovesci.
Cinque stati (Austria, Danimarca, Germania, Olanda
e Lussemburgo) richiedono ancora che si rinunci alla
nazionalità precedente nelle naturalizzazioni
anche se in Germania e in Olanda vengono fatte molte
eccezioni e il Lussemburgo sta considerando di abolire
questa condizione. In Germania, nel 1999, la coalizione
rosso-verde non riuscì nel suo tentativo di includere
la doppia cittadinanza nella sua riforma della naturalizzazione.
Attualmente la Germania ha un regime singolare e probabilmente
insostenibile che presenta tre differenti categorie:
coloro che hanno ereditato la doppia cittadinanza da
genitori di nazionalità diversa possono tenerla
per sempre; coloro che l’hanno acquisita attraverso
la nascita in Germania da genitori stranieri devono
scegliere entro i 23 anni d’età una delle
loro cittadinanze; infine, coloro che vogliono naturalizzarsi
possono conservare la loro precedente nazionalità
solo se il loro stato di origine rifiuta di autorizzarli
o rende difficile la rinuncia, cosa che ha l’illogico
effetto di premiare politiche della cittadinanza illiberali,
specialmente in paesi di origine arabi.
La tendenza liberale più pronunciata riguarda
l’introduzione dello ius soli. Generalmente,
quasi tutte le leggi sulla cittadinanza europea continentale
si basavano sullo ius sanguinis, ovvero, sulla cittadinanza
ereditata dai genitori. Nei paesi di immigrazione, un
regime di puro ius sanguinissignifica che la seconda
e terza generazione di immigrati cresceranno nel loro
paese di nascita come concittadini-stranieri e potranno
persino essere deportati nel paese d’origine dei
loro antenati. Oggi, la maggioranza dei 15 stati dell’Unione
combina lo ius sanguinisa diritti alla cittadinanza
sottoposti a condizioni, derivati dalla nascita sul
territorio. A differenza della legge irlandese precedente
al 2005, da nessuna parte lo ius soli è
incondizionato. Il più delle volte, un genitore
deve aver avuto residenza legale per un certo periodo
di tempo o deve essere nato – lui o lei stessa-
nel paese in questione. In alcuni casi, la cittadinanza
acquisita attraverso lo ius soli non può
essere reclamata alla nascita ma solo successivamente.
Se lo ius soli sia il principio più
adatto per i paesi di immigrazione è una questione
interessante. Da un canto, la nascita in un particolare
territorio può essere il risultato di una casualità
biografica o, come nel caso Chen, di una scelta strategica
che non riflette un legame genuino con il paese interessato.
D’altro canto, lo ius soli non comprende la cosiddetta
“generazione 1 e mezzo” o, in altre parole,
i bambini nati all’estero che immigrano assieme
ai loro genitori o li seguono da piccoli. Non bisognerebbe
integrare lo ius soli e lo ius sanguiniscon un diritto
alla cittadinanza nel paese in cui, in realtà,
si è cresciuti? Un buon esempio è la Svezia,
dove i genitori di minori che hanno vissuto nel paese
per cinque anni devono semplicemente notificare alle
autorità se vogliono che i loro figli diventino
cittadini svedesi.
Cambiando direzione rispetto alla tendenza verso la
liberalizzazione, troviamo una serie di paesi, come
l’Austria, la Danimarca e la Grecia dove, a dispetto
del numero crescente degli immigrati stabili, sono state
conservate o consolidate leggi restrittive sulla cittadinanza.
L’Olanda è l’esempio più drammatico
di dietrofront rispetto a una politica di naturalizzazione
precedentemente liberale.
In Europa, queste tendenze divergenti alla liberalizzazione
e alla restrizione hanno poco a che fare con le dimensioni
e la composizione delle popolazioni immigrate e molto
di più con i sistemi politici di partito e con
l’impatto che l’agitazione anti-immigrazione
ha sulla politica. Particolarmente interessante è
la nuova tendenza di inserire esami per la cittadinanza,
oltre al requisito già diffuso di apprendere
la lingua dominante. Esami di questo genere sono stati
introdotti di recente in Austria, Danimarca, Germania,
Grecia, Olanda e Regno Unito, e comprendono domande
sulla storia, sulla costituzione e sulla cultura quotidiana
del paese. Esiste il pericolo che esami difficili rendano
più complicato diventare cittadini agli immigrati
privi di istruzione secondaria o universitaria. Mentre
le capacità linguistiche sono certamente utili
all’integrazione sociale e politica, è
meno ovvia l’utilità di domande spesso
forzate negli esami per la cittadinanza.
Questo nuovo approccio alla naturalizzazione non deve
segnalare un ritorno a un concetto etnico esclusionista
di cittadinanza. Esso indica, invece, uno spostamento
nelle filosofie pubbliche dell’integrazione. I
governi in paesi con comunità di immigrati stabili
sono preoccupati dalla “enclavi etniche”
(Gran Bretagna), dal "communautarisme"
(Francia), o dalle “società parallele”
(Germania). E oggi queste preoccupazioni vengono fortemente
associate agli immigrati di origine musulmana.
I pericoli percepiti spaziano dalla disoccupazione
strutturale e dalla segregazione della povertà
a livello urbano agli scontri tra valori culturali,
alle rivolte urbane, alla violenza terrorista. Le nuove
politiche sulla naturalizzazione enfatizzano l’integrazione
come pre-condizione per l’accesso alla cittadinanza
e definiscono l’integrazione come uno sforzo e
un successo individuale piuttosto che come una condizione
strutturale di pari diritti e opportunità. La
cittadinanza non è più associata all’identità
o alla discendenza etnica, ma neppure è accettata
come un diritto individuale e come uno strumento per
integrare società dall’origine eterogenea.
La cittadinanza diventa, invece, un premio per coloro
che non rappresentano una minaccia per la società
più ampia perché hanno un reddito sufficiente,
possono comunicare nella lingua dominante, si identificano
con la storia della società che li ospita e sottoscrivono
i suoi valori pubblici. La domanda che rimane senza
risposta è perché negare la cittadinanza
a immigrati di lungo termine che non riescono a soddisfare
questi criteri dovrebbe diminuire le presunte minacce.
Non è più probabile che la frustrazione
e l’alienazione diventino più forti quando
un gruppo socialmente marginalizzato resta escluso dall’appartenenza
e dalla rappresentanza politica?
Queste domande sulla giusta interpretazione dell’integrazione
verranno, comunque, inevitabilmente spazzate via quando
l’accesso alla cittadinanza diverrà definito
come una questione di sicurezza di stato come lo sono
stati la migrazione “irregolare” e l’asilo.
Nella lotta contro il terrorismo globalizzato, i governi
stanno valutando come potrebbero privare le persone
sospette della loro cittadinanza per rendere possibile
la loro espulsione. La doppia cittadinanza soleva essere
un patrimonio importante per i migranti con forti legami
con i paesi di provenienza e di arrivo. Ora per alcuni
potrebbe diventare una trappola: se venisse loro revocata
la cittadinanza nel paese di residenza, il paese dove
hanno la seconda nazionalità sarebbe obbligato
a riprenderli.
I conflitti della cittadinanza nei nuovi stati
membri
Il panorama della cittadinanza è piuttosto diverso
nei nuovi stati membri che hanno aderito nel maggio
2004. A differenza di quasi tutti i 15 stati dell’Unione,
nessuno dei nuovi stati ha avuto un’esistenza
indipendente all’interno dei suoi attuali confini
fin dall’inizio del ventesimo secolo. L’Ungheria
e la Polonia hanno vissuto cambiamenti di confine drammatici,
rispettivamente dopo la prima e la seconda guerra mondiale;
Cipro e Malta hanno ottenuto l’indipendenza negli
anni ’60; i tre stati baltici vennero restaurati
dopo la fine dell’annessione da parte dell’Unione
Sovietica nel 1991; e Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia
si costituirono come stati indipendenti quando la federazione
socialista si divise nel 1991 e nel 1992.
Queste drammatiche rotture della continuità
dello stato sollevarono un problema che è in
larga parte sconosciuto o dimenticato nei paesi di più
vecchia data: chi dovrebbe essere incluso e chi escluso
nel determinare l’iniziale popolazione cittadina?
In Lettonia ed Estonia, la restaurazione della cittadinanza
del 1940 ha significato che tanti russi che si erano
stabiliti nel paese durante l’annessione sovietica
si ritrovarono improvvisamente senza stato e dovettero
fare richiesta di naturalizzazione in condizioni che
rendevano loro molto difficile acquisire la cittadinanza.
Allo stesso modo, in Slovenia, gli ostacoli burocratici
per l’acquisizione della cittadinanza da parte
di persone provenienti da altre repubbliche jugoslave
creò almeno 18000 “cancellati” che
vennero trasferiti dal registro dei residenti permanenti
a quello degli stranieri.
Un altro problema specifico dei nuovi stati membri
sono i rapporti oltre confine tra “stati affini”
e popolazioni esterne che vengono considerate parte
di una nazione culturale più estesa. Queste minoranze
esterne sono più spesso il frutto di confini
che superano le persone piuttosto che di persone che
superano i confini. Le richieste di protezione esterna
delle minoranze da parte di stati-affini hanno ridato
forza a paure storiche in quei paesi dove quelle minoranze
vivono. Dal 2001, l’Ungheria, la Slovenia e la
Slovacchia hanno introdotto le cosiddette leggi di status,
che creano una condizione di quasi-cittadinanza per
quele minoranze esterne che sono considerate appartenere
a una nazione culturale più ampia.
Nel dicembre 2004, in Romania, Slovacchia e Serbia
un referendum sull’introduzione della doppia cittadinanza
per più di tre milioni di ungheresi è
stato sconfitto per via di una scarsa affluenza alle
urne. Se avesse vinto, questa iniziativa non avrebbe
semplicemente esacerbato le tensioni internazionali
ma avrebbe potuto portare a diritti di voto esterni
e a una maggioranza permanente di partiti nazionalisti
nelle elezioni ungheresi.
Necessità per standard europei comuni
La lezione che si può ricavare da questo breve
esame delle politiche sulla cittadinanza nell’Unione
Europea è che esse sono sempre più contestate
nella politica domestica e che possono diventare una
fonte di conflitto tra gli stati membri. La convergenza
spontanea verso norme liberali non è più
un’aspettativa plausibile. Quattordici anni dopo
avere creato formalmente una cittadinanza dell’Unione,
è tempo che i policy-makers europei prendano
l’iniziativa di introdurre standard europei comuni
per le leggi sulla cittadinanza degli stati membri.
Ciò non richiede l’imposizione di una singola
legge sulla cittadinanza europea. Il processo potrebbe
iniziare con un metodo di coordinamento aperto e potrebbe
risultare in un’autorità legislativa della
Ue che regoli quegli aspetti della normativa nazionale
che violano i principi della solidarietà europea
o equivalgono alla discriminazione arbitraria e all’esclusione
di cittadini di paesi terzi. Prendere la cittadinanza
europea sul serio richiede un intendimento comune riguardo
a chi debbano essere i futuri cittadini d’Europa.
Questo articolo è stato pubblicato per la
prima volta in spagnolo in Vanguardia
Dossier 22.
L’originale inglese è stato fornito da
Eurozine.
© Rainer Bauböck, Eurozine.
Traduzione dall’inglese di Martina Toti
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