Gli ultranazionalisti
in testa, i democratici europeisti maggioritari ma divisi.
Le elezioni serbe confermano l’incertezza che
regnava nei mesi precedenti lo scrutinio di gennaio,
incertezza che a sua volta è l’immagine
di un paese confusamente alle prese con un passato che
non passa e un presente che va troppo veloce, tra una
Grande Serbia che non c’è più e
un treno europeo da prendere il prima possibile.
Con una crisi socioeconomica importante e una disoccupazione
che si aggira intorno al 31 per cento, certo i temi
economici sono stati al centro della fin troppo lunga
campagna elettorale. Su tutto però ha dominato,
alla fine dei conti, il fattore K, la questione kosovara,
che da qualche giorno l’inviato speciale dell’Onu
per il Kosovo Martti Athisaari e il gruppo di contatto
(Germania, Stati Uniti, Francia, Italia, Russia e Gran
Bretagna) stanno discutendo anche alla luce dei risultati
delle urne. Quale sarà il futuro statuto della
provincia serba?
Non è questione da poco. In pochi anni i serbi
hanno visto il loro Grande paese via via sgretolarsi
fino allo smacco del referendum montenegrino che ha
sancito la fine ufficiale della Jugoslavia e l’istituzione
della Serbia come paese indipendente. Dopo aver accettato
a denti stretti la secessione del Montenegro, una nuova
Costituzione è stata approvata dai serbi, una
Legge fondamentale che è anche un atto d’orgoglio
nazionale e una sfida alla comunità internazionale.
Recita il preambolo: “La provincia del Kosovo
è parte integrante del territorio della Serbia,
con un’autonomia sostanziale nel quadro dello
stato sovrano di Serbia e dunque tutte le istituzioni
dello Stato sono costituzionalmente obbligate a difendere
gli interessi della Serbia in Kosovo”.
Tale è la portata del fattore K sulla vicenda
politica serba. I democratici, per impedire che gli
ultranazionalisti del Partito radicale (Srs) s’impossessassero
del tema per far esplodere il proprio consenso e chissà
cos’altro, avevano addirittura pensato d’anticipare
le elezioni, inizialmente previste alla fine del 2007,
ad una data che anticipasse la presentazione del piano
delle Nazioni Unite sul destino del Kosovo.
La mossa tattica è servita a ben poco. “Nonostante
avessimo contro i partiti del Primo ministro e del Presidente
della Repubblica, abbiamo mostrato la nostra forza,
abbiamo vinto come ci attendevamo anche se non avremo
la possibilità di formare il governo”.
Il presidente ad interim del Sds, Tomislav Nikolic,
ha ragione, il suo partito ha una solida base nel paese,
nonostante il presidente ufficiale dell’organizzazione,
Vojislav Seselj, ex vice Primo ministro di Slobodan
Milosevic, sia rinchiuso all’Aia nelle carceri
del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia.
Con il 28,7 per cento dei voti il Partito radicale si
è confermato il primo gruppo politico dell’Assemblea
nazionale. “Vedremo come si uniranno gli altri
partiti”, ha aggiunto con tono di sfida Nikolic.
In effetti, “gli altri”, il Partito democratico
(Ds) del presidente Boris Tadic - 22,9 per cento dei
consensi - e il Partito democratico serbo (Dss) del
Primo ministro uscente Vojislav Kustunica - 16,7 - per
formare un governo dovranno accordarsi con altre formazioni
minori come G17, 6,8 per cento, e il Partito liberal-democratico
(Ldp), 5,3. Il punto non sta tanto qui. Fanno bene sia
Tadic sia il ministro degli Esteri dell’Unione
europea Javier Solana a felicitarsi che i due terzi
dei seggi al parlamento serbo siano stati conquistati
dai partiti pro europei. Probabilmente un governo che
punterà all’Unione vedrà presto
la luce. Il punto è che tutto rischia di rovinare
sotto le decisioni sullo statuto del Kosovo e sul futuro
delle trattative di adesione all’Ue interrotte
il maggio scorso per mancanza di collaborazione tra
il governo di Kustunica e il Tribunale penale internazionale
dell’ex Jugoslavia.
Quella che si profila, dunque, è un sottile
equilibrio politico che potrà mantenersi solo
se le contraddizioni saranno gestite all’esterno,
da una comunità internazionale a sua volta divisa
tra sostenitori di un Kosovo serbo (Russia) e di un
Kosovo indipendente (Stati Uniti), tra chi non vuole
vincolare le trattative d’adesione alla collaborazione
col Tpij (Italia – vedi posizioni di Prodi all’ultimo
Consiglio europeo - Austria, Slovenia, Ungheria, Grecia)
e chi, invece, vede nella consegna dei criminali di
guerra un presupposto necessario a qualsiasi ipotesi
di avanzamento. Tutto si giocherà sulla capacità
a comporre insieme le due questioni.
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