Il processo
di integrazione economica europea si è articolato
in 5 grandi fasi. La prima riguarda l’eliminazione
dei dazi interni, avvenuta tra il 1957 ed il 1968. La
successiva, la creazione dell’unione doganale
europea (1968) e del mercato unico europeo (1992). La
quarta fase dell’integrazione è quella
della moneta unica, realizzata nel 1999, che favorisce
gli scambi tra i paesi membri del club dell’euro
(che dal primo gennaio 2007 è salito a 13, con
l’ingresso della Slovenia avvenuto nell’ambito
della quinta fase, l’allargamento dell’Unione
Europea ai paesi dell’Est).
“Le imprese e i consumatori che trattano con
gli operatori appartenenti all’Unione economica
e monetaria non subiscono più il rischio della
fluttuazione del cambio e i costi bancari per gestire
la valuta estera, a tutto vantaggio dell’efficienza
economica (minori costi) e dello sviluppo (maggiori
scambi)”, spiega Giampaolo Vitali, ricercatore
dell’Istituto di ricerca sull’impresa e
lo sviluppo (Ceris) del Cnr e segretario del Gei-Gruppo
economisti d’impresa.
“Con l’integrazione economica, poi, l’orizzonte
di riferimento di imprese che operavano quasi esclusivamente
sul mercato nazionale, e in maggioranza sul semplice
mercato locale-regionale, si dischiude all’intero
del grande mercato comune europeo, comprendente milioni
di consumatori che aumentano considerevolmente con il
recente allargamento ad Est dell’Unione europea.
Anche i consumatori hanno forti benefici dall’integrazione:
il più importante è quello di poter acquistare
le merci e i servizi dai produttori più efficienti,
che offrono prodotti a prezzi minori e/o qualità
maggiori”.
Eppure, questi benefici sono stati messi in ombra da
un generale ‘europessimismo’ dei cittadini
e dei media, dovuto al processo inflattivo attivato
dalla moneta unica. “In effetti, la presunzione
che il semestre iniziale col doppio prezzo bastasse
si è rivelata infondata, il mercato ha dimostrato
di avere memoria corta e almeno alcuni prodotti e servizi
sono notevolmente aumentati di prezzo”.
E c’è un’altra ragione che dovrebbe
farci sentire più ‘orgogliosi’ del
nostro euro, cioè il suo ormai affermato primato
planetario. “Gli euro, in cinque anni, hanno battuto
i dollari come banconote più usate al mondo.
Il volume della valuta europea in circolazione ha sorpassato
quello statunitense, toccando quota 610 miliardi. Gli
euro circolanti sono quasi triplicati rispetto ai 221
miliardi messi in circolazione nel gennaio 2002”.
Un ‘sorpasso’ di cui è complice anche
il recente indebolimento del dollaro, precisa Vitali:
“In effetti, il rapporto di cambio euro-dollaro
è oggetto dell’attenzione degli operatori
valutari, avendo subito un completo ciclo di deprezzamento-apprezzamento.
Nel 1999 il rapporto era più o meno sulla parità,
ed è progressivamente scivolato a favore di un
dollaro forte per tutto il 2000 e il 2001, con un minimo
storico raggiunto nel 2000 (un euro valeva 0,82 dollari).
Dal 2002 in poi c’è stata una netta ripresa,
l’euro ha abbondantemente superato la parità
e nel 2007 siamo all’incirca su 1,3 dollari per
ogni euro”. Con effetti molto importanti: “Le
esportazioni europee sono avvantaggiate sui mercati
statunitensi e internazionali che usano il dollaro,
in particolare sull’importante mercato del petrolio,
dove la rivalutazione dell’euro ha consentito
all’Europa di non subire troppo il rincaro del
2005 e del 2006. E’ un altro beneficio nell’uso
della moneta unica di cui, talvolta, ci si dimentica”.
Che l’Europa se la passi meglio di come a volte
appare, peraltro, lo dimostra anche il boom di quotazioni
che ha portato le Borse del Vecchio Continente a ‘doppiare’
Wall Street grazie all’ingresso di ben 651 matricole
durante il 2006, 21 delle quali a Piazza Affari. Il
controvalore complessivo è di 66 miliardi di
euro, contro gli appena 36 miliardi dei 224 debutti
negli Stati Uniti.
Questo articolo è tratto dall’Almanacco
della Scienza, rivista online del Cnr.
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