Da “Come
ho tentato di diventare saggio” (Il Mulino), le
parole con cui Altiero Spinelli racconta l’inizio
del suo confino, scrive di un periodo ricco di riflessioni
e di idee che vedevano nell’Europa Unita una necessità
per la pace futura. Per gentile concessione dell’editore,
proponiamo qui di seguito degli estratti.
Il luogo dell’elezione
“Nel mezzo del cammin di nostra vita” mi
ritrovai a Ventotene, dove rimasi quattro anni, dal
luglio del 1939 al 17 agosto 1943, dall’età
di 32 a quella di 36 anni, dall’inizio della seconda
guerra mondiale alla caduta del fascismo. Quegli anni
in quell’isola sono ancor oggi presenti in me
con la pienezza che hanno solo i momenti ed i luoghi
nei quali si compie quella misteriosa cosa che i cristiani
chiamano l’elezione. Le membra disjecta dei
sentimenti, pensieri, speranze e disperazioni si ricomposero
allora in un disegno nuovo, per me stesso sorprendente;
la mia debolezza si convertì in forza; sentii
che una consonanza straordinaria si andava formando
fra quel che accadeva nel mondo e quel che accadeva
in me; compresi che fino a quel momento ero stato simile
a un feto in formazione, in attesa di esser partorito,
che in quegli anni in quel luogo nacqui una seconda
volta, che il mio destino fu allora segnato, che io
assentii ad esso e che la mia vera vita, quella che
sto ora portando a termine, cominciò. Con sublime
poetica laconicità la Bibbia descrive questo
fenomeno così: “Jahvè vide che si
era avvicinato per vedere, e Dio lo chiamò dal
mezzo del roveto e disse: “Mosè, Mosè!”
Rispose: “Eccomi”“. Per questo motivo
sono tornato più volte a Ventotene, quasi in
pellegrinaggio, con Ursula e con amici federalisti,
vecchi e giovani, e vagheggio che le ceneri mie e di
Ursula siano portate a Ventotene e di lì sparse
dal vento sull’isola e sul mare .
Se Ventotene ha lasciato in me un segno indelebile,
anch’io l’ho a mia volta segnata. Il Manifesto
di Ventotene ha reso il nome dell’isola, prima
oscuro, noto in tutta Europa fra coloro che portano
avanti o studiano il moto verso l’unità.
Una lapide all’ingresso della casa comunale ricorda
che di lì è partito il primo nostro appello
ad agire per la federazione Europea; ed il Consiglio
comunale mi ha iscritto sui suoi registri come cittadino
onorario.
(…)
Il Manifesto di Ventotene
Nel tetro inverno ’40-’41, quando quasi
tutta l’Europa continentale era stata soggiogata
da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo
seguito, l’Urss stava digerendo il bottino che
era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora
neutrali e l’Inghilterra sola resisteva, trasfigurandosi
agli occhi di tutti i democratici d’Europa in
loro patria ideale, proposi ad Ernesto Rossi di scrivere
insieme un “manifesto per un’Europa libera
ed unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità
antifascista sul continente.
Sei mesi dopo, mentre gli eserciti hitleriani si riversavano
sulle terre russe, passando ancora, come l’anno
prima in Europa, di vittoria in vittoria, il Manifesto
era pronto.
Del Manifesto io scrissi i capitoli che trattavano
della crisi della civiltà europea, dell’unità
europea come compito preminente del dopoguerra e del
“partito rivoluzionario” necessario per
realizzarla. Ernesto Rossi scrisse il capitolo sulla
riforma della società da affrontare nel dopoguerra.
Ma ne discutemmo insieme ogni paragrafo, e riconosco
ancora giri di pensiero caratteristici dell’uno
di noi due nelle parti scritte dall’altro.
Mi sono spesso chiesto cosa abbiamo apportato di originale
nel Manifesto. Non dicevano cose nuove, né quando
parlavamo della crisi della civiltà europea,
né quando presentavamo l’idea della federazione.
Altri l’avevano già fatto, certamente meglio
di noi. Il Manifesto conteneva inoltre alcuni errori
politici di non lieve portata.
Il primo era l’ottimismo di tutti coloro che
lanciando una nuova idea credono sempre che essa sia
di imminente realizzazione. Poiché però
questo errore si ritrova dal Vangelo che credeva di
essere impostato tutto sull’idea dell’imminente
fine del mondo, al Manifesto del partito comunista che
credeva di essere fondato anch’esso tutto sull’imminente
rivoluzione socialista, si può considerare veniale
l’errore identico del Manifesto federalista.
Più grave era il fatto che non avevamo in alcun
modo previsto che gli europei, dopo la fine della guerra,
non sarebbero rimasti più padroni di sé
nella ricerca del loro avvenire, ma, avendo cessato
di essere il centro del mondo, sarebbero stati pesantemente
condizionati da poteri extraeuropei.
Tutta la parte finale che invocava la necessità
di un partito rivoluzionario federalista si è
anche rivelata caduca, perché l’esigenza,
giusta, di una guida consapevole della necessità
di guidare e non di seguire le masse ed i loro moti,
era espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti.
Ciononostante, il Manifesto è stato ed è
ancora un testo vivo e significativo per molti suoi
lettori, soprattutto grazie a due idee politiche che
gli erano proprie. La prima era che la federazione non
era presentata come un bell’ideale, cui rendere
omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un
obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora,
nella nostra attuale generazione. Non si trattava di
un invito a sognare, ma di un invito ad operare.
La seconda idea significativa consisteva nel dire che
la lotta per l’unità europea avrebbe creato
un nuovo spartiacque fra le correnti politiche, diverso
da quello del passato.
La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti
reazionari – si può leggere nel Manifesto
– cade perciò ormai non lungo la linea
formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore
o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale
nuovissima linea che separa quelli che concepiscono
come fine essenziale della lotta quello antico, cioè
la conquista del potere politico nazionale – e
che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle
forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente
delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere
le vecchie assurdità – e quelli che vedranno
come compito centrale la creazione di un solido stato
internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo
le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale,
lo adopreranno in primissima linea come strumento per
realizzare l’unità internazionale.
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