Sono anni
che si parla di ricerca e innovazione come motore dello
sviluppo. All’inizio del millennio anche i responsabili
politici europei, riuniti a Lisbona per un Consiglio
eccezionale, presero atto della necessità di
dare un impulso schumpeteriano ad un’economia
europea già in ritardo rispetto agli altri paesi
avanzati. Ne andava di perdere il treno della crescita
che la mondializzazione stava spingendo a tutta velocità.
L’impegno fu solenne e l’obiettivo prometeico:
fare di quella europea “l’economia della
conoscenza la più competitiva e dinamica entro
il 2010”. Entro quell’orizzonte bisognava
colmare un ritardo e avanzare anche rispetto ai paesi
emergenti che cominciavano a mordere il collo del Vecchio
continente. Per farlo si fissò al 3 per cento
del Pil dell’Unione la spesa necessaria al grande
balzo.
Da allora, nonostante il Community Lisbon Programme
della Commissione Barroso, da questa fortemente voluto
nel marzo 2005 per rilanciare la “strategia di
Lisbona”, poco si è fatto e male poiché
risultati non se ne sono visti. Si è andati avanti
per ordine sparso, ogni paese per sé, ed ora,
ci dice un rapporto dell’Ocse, non solo la distanza
con i paesi più sviluppati è aumentata,
ma quella con i paesi ormai emersi è molto diminuita,
tanto che in prospettiva saremo superati dalla Cina
entro una decina d’anni.
I dati parlano chiaro. Nel periodo preso in esame,
2000-2004, gli investimenti nel settore Ricerca e Sviluppo
in Ue sono cresciuti in media del 2,3% l’anno
e si sono attestati intorno ai 210 miliardi di dollari,
mentre dall’altra parte dell’Atlantico la
media di crescita annuale è stata quasi il doppio
(4%) con una spesa nel 2003 di 313 miliardi. Cosa vuol
dire? Che a scorno di Lisbona e dei suoi rilanci, la
differenza si è accresciuta, con gli Stati Uniti
che sostengono l’innovazione con il 2,68% del
loro Pil, con il Giappone che spende il 3.13% del suo
e un’Europa dei Venticinque si piazza ad una media
dell’1,81%. Altro che 3 per cento entro il 2010.
Si potrebbe obiettare che nel periodo preso in esame
la congiuntura non sia stata granché favorevole
dalle nostre parti e che quindi, anche volendo, soldi
non ce n’erano. È vero, ma quello che sottolinea
l’Ocse è che la “minore intensità
di R&S in Europa, comparata a quella degli Stati
Uniti e del Giappone, dipende in parte dalle condizioni
congiunturali, ma soprattutto dai fattori strutturali”
oltre che dal “clima economico che in numerosi
paesi dell’Ue non incoraggia sufficientemente
l’investimento privato nella ricerca e l’innovazione”.
Infatti, seppur nel 2005 le imprese europee abbiano
speso il 5,3% in più in R&S grazie alle condizioni
congiunturali favorevoli, la cifra rimane sempre indietro
rispetto alle imprese statunitensi che hanno incrementato
la spesa dell’8,1.
Altro capitolo dolente è quello del numero dei
ricercatori. Sempre nel 2000 a Lisbona si era fissato
l’obiettivo di 700mila in più entro il
2010, cosa quasi impossibile da raggiungere se si tiene
conto, come fa l’Ocse, che la maggior parte di
quelli che lavorano oggi nella ricerca hanno un’età
pensionabile: “In Austria, in Francia, in Svezia
dal 40 al 55 per cento dei ricercatori hanno più
di 55 anni”!
Discorso inverso dall’altra parte del mondo.
In Cina il numero dei ricercatori è aumentato
del 77% tra il 1995 e il 2004 e con i suoi 926mila studiosi
il paese si piazza ormai al secondo posto dietro gli
States (1,3 milioni). Frutto di un interesse per la
ricerca che negli anni è andato crescendo insieme
agli investimenti che nello stesso periodo sono raddoppiati
passando dallo 0,6% del Pil all’1,23, cioè
con un ritmo più rapido di quello della crescita
che si è attestato intorno al 9% l’anno.
Se le tendenze osservate dall’Ocse si prolungheranno
nel futuro l’Ue continuerà a perdere treni.
Per scongiurare tale eventualità all’inizio
dell’anno è stato il primo ministro finlandese
Esko Aho a lanciare l’idea di un Patto per la
ricerca e lo sviluppo sul modello del programma che
alla fine degli anni Ottanta inizio Novanta ha portato
alla creazione del mercato unico. Al di là degli
strumenti che Aho ha proposto, quello che oggi conta
è infatti che misure siano prese in maniera coordinata
e coerente e che ci sia uno sforzo collettivo di tutti
i paesi dell’Unione.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|