312 - 28.12.06


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Lisbona è sempre più lontana

Luca Sebastiani


Sono anni che si parla di ricerca e innovazione come motore dello sviluppo. All’inizio del millennio anche i responsabili politici europei, riuniti a Lisbona per un Consiglio eccezionale, presero atto della necessità di dare un impulso schumpeteriano ad un’economia europea già in ritardo rispetto agli altri paesi avanzati. Ne andava di perdere il treno della crescita che la mondializzazione stava spingendo a tutta velocità. L’impegno fu solenne e l’obiettivo prometeico: fare di quella europea “l’economia della conoscenza la più competitiva e dinamica entro il 2010”. Entro quell’orizzonte bisognava colmare un ritardo e avanzare anche rispetto ai paesi emergenti che cominciavano a mordere il collo del Vecchio continente. Per farlo si fissò al 3 per cento del Pil dell’Unione la spesa necessaria al grande balzo.

Da allora, nonostante il Community Lisbon Programme della Commissione Barroso, da questa fortemente voluto nel marzo 2005 per rilanciare la “strategia di Lisbona”, poco si è fatto e male poiché risultati non se ne sono visti. Si è andati avanti per ordine sparso, ogni paese per sé, ed ora, ci dice un rapporto dell’Ocse, non solo la distanza con i paesi più sviluppati è aumentata, ma quella con i paesi ormai emersi è molto diminuita, tanto che in prospettiva saremo superati dalla Cina entro una decina d’anni.

I dati parlano chiaro. Nel periodo preso in esame, 2000-2004, gli investimenti nel settore Ricerca e Sviluppo in Ue sono cresciuti in media del 2,3% l’anno e si sono attestati intorno ai 210 miliardi di dollari, mentre dall’altra parte dell’Atlantico la media di crescita annuale è stata quasi il doppio (4%) con una spesa nel 2003 di 313 miliardi. Cosa vuol dire? Che a scorno di Lisbona e dei suoi rilanci, la differenza si è accresciuta, con gli Stati Uniti che sostengono l’innovazione con il 2,68% del loro Pil, con il Giappone che spende il 3.13% del suo e un’Europa dei Venticinque si piazza ad una media dell’1,81%. Altro che 3 per cento entro il 2010.

Si potrebbe obiettare che nel periodo preso in esame la congiuntura non sia stata granché favorevole dalle nostre parti e che quindi, anche volendo, soldi non ce n’erano. È vero, ma quello che sottolinea l’Ocse è che la “minore intensità di R&S in Europa, comparata a quella degli Stati Uniti e del Giappone, dipende in parte dalle condizioni congiunturali, ma soprattutto dai fattori strutturali” oltre che dal “clima economico che in numerosi paesi dell’Ue non incoraggia sufficientemente l’investimento privato nella ricerca e l’innovazione”.

Infatti, seppur nel 2005 le imprese europee abbiano speso il 5,3% in più in R&S grazie alle condizioni congiunturali favorevoli, la cifra rimane sempre indietro rispetto alle imprese statunitensi che hanno incrementato la spesa dell’8,1.

Altro capitolo dolente è quello del numero dei ricercatori. Sempre nel 2000 a Lisbona si era fissato l’obiettivo di 700mila in più entro il 2010, cosa quasi impossibile da raggiungere se si tiene conto, come fa l’Ocse, che la maggior parte di quelli che lavorano oggi nella ricerca hanno un’età pensionabile: “In Austria, in Francia, in Svezia dal 40 al 55 per cento dei ricercatori hanno più di 55 anni”!

Discorso inverso dall’altra parte del mondo. In Cina il numero dei ricercatori è aumentato del 77% tra il 1995 e il 2004 e con i suoi 926mila studiosi il paese si piazza ormai al secondo posto dietro gli States (1,3 milioni). Frutto di un interesse per la ricerca che negli anni è andato crescendo insieme agli investimenti che nello stesso periodo sono raddoppiati passando dallo 0,6% del Pil all’1,23, cioè con un ritmo più rapido di quello della crescita che si è attestato intorno al 9% l’anno.

Se le tendenze osservate dall’Ocse si prolungheranno nel futuro l’Ue continuerà a perdere treni. Per scongiurare tale eventualità all’inizio dell’anno è stato il primo ministro finlandese Esko Aho a lanciare l’idea di un Patto per la ricerca e lo sviluppo sul modello del programma che alla fine degli anni Ottanta inizio Novanta ha portato alla creazione del mercato unico. Al di là degli strumenti che Aho ha proposto, quello che oggi conta è infatti che misure siano prese in maniera coordinata e coerente e che ci sia uno sforzo collettivo di tutti i paesi dell’Unione.

 



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