Alle elezioni
presidenziali in Bulgaria due settimane fa il presidente
socialista uscente Gueorgui Parvanov è stato
riconfermato alla testa dello Stato come ci si aspettava.
La sorpresa, casomai, è stata la presenza, alla
sfida del secondo turno, di un personaggio come Volen
Siderov.
Capo di Ataka (Attacco), formazione politica da lui
stesso creata nel 2005 poco prima delle ultime legislative
– dove raccogliendo l’8,9% dei consensi
è diventato il quarto partito dell’arco
parlamentare – Siderov si è imposto al
primo turno delle presidenziali con un programma inquietante
che riuniva un elenco di punti qualificati per opposizione:
contro Bruxelles, contro le élite corrotte, contro
la minoranza turca e quella rom. Da fine populista,
antisemita e xenofobo, questo ex giornalista del primo
giornale anti-comunista della Bulgaria, ha usato con
efficacia i mezzi di comunicazione e si è lasciato
andare durante la campagna elettorale a dichiarazioni
“discutibili”, come quando, per esempio,
ha proposto semplicemente di “fare sapone dei
rom”. Al Parlamento europeo, giusto per dirne
un’altra, il rappresentante di Ataka si è
reso celebre per aver attaccato verbalmente un deputato
ungherese di origine rom.
Con lo slogan della “Bulgaria ai bulgari”,
Siderov ha intercettato alle presidenziali il voto di
estremisti di ogni tipo, di ex quadri del regime comunista
e, soprattutto, di quelle fasce di popolazione che più
hanno sofferto la transizione verso l’economia
di mercato.
La nascita di fenomeni nazionalisti e populisti, spesso
segnatamente xenofobi, non riguarda solo la Bulgaria,
ma un po’ tutti i paesi che hanno vissuto fino
all’89 al di là della cortina di ferro.
Dopo la caduta del muro di Berlino, il discorso nazionalista
è stato infatti sia una reazione spontanea ai
lunghi anni in cui la solidarietà comunista veniva
imposta, sia, per un lungo periodo, un mezzo utile a
colmare il vuoto politico lasciato dalla scomparsa dei
partiti-Stato. Di destra o di sinistra a seconda dei
casi, i partiti se ne sono serviti per puntellare l’identità
stato-nazionale e per portare a termine il riavvicinamento
all’Occidente. Oggi che la transizione democratica
ed economica è terminata con il coronamento dell’entrata
nell’Unione europea dei paesi dell’ex blocco
sovietico, un nuovo nazionalismo populista va affermandosi,
un fenomeno che trae linfa dalle frustrazione popolare
e affonda le proprie radici nelle fasce sociali emarginate
e impoverite dal riformismo economico degli anni Novanta.
Nella vicina Romania è Vadim Tudor a incarnare
questa tendenza con il suo partito Romania Mare (Grande
Romania), che con il suo discorso antisemita e la sua
battaglia per il ritorno alle frontiere di prima del
1939, alle ultime elezioni politiche del novembre 2004
ha raccolto il 12,9% dei consensi. Come Tudor anche
Gigi Becali, miliardario di oscura provenienza e proprietario
di una squadra di calcio, sfrutta il malcontento e la
diffidenza popolare verso una democrazia rappresentativa
che non ha apportato benefici visibili a gran parte
dei cittadini. Populista molto mediatizzato, Becali
ha facile gioco in questo contesto a indicare ogni sorta
di capro espiatorio, all’esterno con Bruxelles
e la Nato, all’interno con le minoranze rom, turche
o ungheresi.
La situazione è migliore in Ungheria, ma non
del tutto tranquilla. Lo si è visto nel corso
delle manifestazioni dei mesi scorsi contro il governo
socialista di Ferenc Gyurcsany. A condurre gli scontri
si sono ritrovate in piazza formazioni ultranazionaliste
non rappresentate in parlamento al cui fianco, però,
si era schierato Viktor Orban, leader del partito conservatore
Fidesz presente in parlamento con 164 seggi su 386.
Orban, euroscettico e nazionalista, svolge in qualche
modo il ruolo di passerella portando nelle istituzioni
le idee populiste più estreme. Quando parla,
ad esempio, si rivolge “ai 15 milioni di ungheresi”,
ossia anche a quei cinque milioni che vivono nei paesi
limitrofi.
La cosa ha già creato, ovviamente, incidenti
diplomatici con i vicini e soprattutto con la Slovacchia,
dove Jan Slota, leader del partito xenofobo e ultranazionalista
Sns che fa parte della coalizione governativa, è
celebre per le sue campagne contro la minoranza ungherese.
Solo di recente ha suggerito, ad esempio, che i carri
armati slovacchi avanzino in direzione di Budapest.
Il partito Smer di Robert Fico, capo del governo slovacco,
è stato sospeso dal Partito socialista europeo
(Pse) e dal suo gruppo al parlamento europeo proprio
per l’alleanza che ha contratto con i due partiti
di ultra destra dopo le elezioni di giugno.
Anche in Polonia nazionalisti e xenofobi siedono al
governo. Usciti dalla porta, i partiti Samoobrona (Autodifesa)
e Lpr (Lega delle famiglie polacche) sono infatti rientrati
dalla finestra quando il 16 ottobre scorso il partito
conservatore populista Pis dei fratelli Kaczynski li
ha richiamati nell’esecutivo altrimenti minoritario.
Finora le giovani istituzioni democratiche dei paesi
europei centro-orientali hanno dimostrato una buona
stabilità, manifestatasi soprattutto nelle alternanze
che si sono susseguite negli anni e anche ora che i
fantasmi nazional-populisti sono stati liberati dai
guasti sociali del liberismo radicale degli anni scorsi,
in molti a Bruxelles credono che continueranno a tenere.
Quel che è certo è che terminata la transizione
e integrata l’Unione, si è aperta per questi
paesi una nuova fase che, e qui sta il punto, i partiti
“istituzionali” che hanno fin qui guidato
i processi non hanno ancora colto.
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