310 - 24.11.06


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Leader populisti crescono

Luca Sebastiani


Alle elezioni presidenziali in Bulgaria due settimane fa il presidente socialista uscente Gueorgui Parvanov è stato riconfermato alla testa dello Stato come ci si aspettava. La sorpresa, casomai, è stata la presenza, alla sfida del secondo turno, di un personaggio come Volen Siderov.

Capo di Ataka (Attacco), formazione politica da lui stesso creata nel 2005 poco prima delle ultime legislative – dove raccogliendo l’8,9% dei consensi è diventato il quarto partito dell’arco parlamentare – Siderov si è imposto al primo turno delle presidenziali con un programma inquietante che riuniva un elenco di punti qualificati per opposizione: contro Bruxelles, contro le élite corrotte, contro la minoranza turca e quella rom. Da fine populista, antisemita e xenofobo, questo ex giornalista del primo giornale anti-comunista della Bulgaria, ha usato con efficacia i mezzi di comunicazione e si è lasciato andare durante la campagna elettorale a dichiarazioni “discutibili”, come quando, per esempio, ha proposto semplicemente di “fare sapone dei rom”. Al Parlamento europeo, giusto per dirne un’altra, il rappresentante di Ataka si è reso celebre per aver attaccato verbalmente un deputato ungherese di origine rom.

Con lo slogan della “Bulgaria ai bulgari”, Siderov ha intercettato alle presidenziali il voto di estremisti di ogni tipo, di ex quadri del regime comunista e, soprattutto, di quelle fasce di popolazione che più hanno sofferto la transizione verso l’economia di mercato.

La nascita di fenomeni nazionalisti e populisti, spesso segnatamente xenofobi, non riguarda solo la Bulgaria, ma un po’ tutti i paesi che hanno vissuto fino all’89 al di là della cortina di ferro. Dopo la caduta del muro di Berlino, il discorso nazionalista è stato infatti sia una reazione spontanea ai lunghi anni in cui la solidarietà comunista veniva imposta, sia, per un lungo periodo, un mezzo utile a colmare il vuoto politico lasciato dalla scomparsa dei partiti-Stato. Di destra o di sinistra a seconda dei casi, i partiti se ne sono serviti per puntellare l’identità stato-nazionale e per portare a termine il riavvicinamento all’Occidente. Oggi che la transizione democratica ed economica è terminata con il coronamento dell’entrata nell’Unione europea dei paesi dell’ex blocco sovietico, un nuovo nazionalismo populista va affermandosi, un fenomeno che trae linfa dalle frustrazione popolare e affonda le proprie radici nelle fasce sociali emarginate e impoverite dal riformismo economico degli anni Novanta.

Nella vicina Romania è Vadim Tudor a incarnare questa tendenza con il suo partito Romania Mare (Grande Romania), che con il suo discorso antisemita e la sua battaglia per il ritorno alle frontiere di prima del 1939, alle ultime elezioni politiche del novembre 2004 ha raccolto il 12,9% dei consensi. Come Tudor anche Gigi Becali, miliardario di oscura provenienza e proprietario di una squadra di calcio, sfrutta il malcontento e la diffidenza popolare verso una democrazia rappresentativa che non ha apportato benefici visibili a gran parte dei cittadini. Populista molto mediatizzato, Becali ha facile gioco in questo contesto a indicare ogni sorta di capro espiatorio, all’esterno con Bruxelles e la Nato, all’interno con le minoranze rom, turche o ungheresi.

La situazione è migliore in Ungheria, ma non del tutto tranquilla. Lo si è visto nel corso delle manifestazioni dei mesi scorsi contro il governo socialista di Ferenc Gyurcsany. A condurre gli scontri si sono ritrovate in piazza formazioni ultranazionaliste non rappresentate in parlamento al cui fianco, però, si era schierato Viktor Orban, leader del partito conservatore Fidesz presente in parlamento con 164 seggi su 386. Orban, euroscettico e nazionalista, svolge in qualche modo il ruolo di passerella portando nelle istituzioni le idee populiste più estreme. Quando parla, ad esempio, si rivolge “ai 15 milioni di ungheresi”, ossia anche a quei cinque milioni che vivono nei paesi limitrofi.

La cosa ha già creato, ovviamente, incidenti diplomatici con i vicini e soprattutto con la Slovacchia, dove Jan Slota, leader del partito xenofobo e ultranazionalista Sns che fa parte della coalizione governativa, è celebre per le sue campagne contro la minoranza ungherese. Solo di recente ha suggerito, ad esempio, che i carri armati slovacchi avanzino in direzione di Budapest. Il partito Smer di Robert Fico, capo del governo slovacco, è stato sospeso dal Partito socialista europeo (Pse) e dal suo gruppo al parlamento europeo proprio per l’alleanza che ha contratto con i due partiti di ultra destra dopo le elezioni di giugno.

Anche in Polonia nazionalisti e xenofobi siedono al governo. Usciti dalla porta, i partiti Samoobrona (Autodifesa) e Lpr (Lega delle famiglie polacche) sono infatti rientrati dalla finestra quando il 16 ottobre scorso il partito conservatore populista Pis dei fratelli Kaczynski li ha richiamati nell’esecutivo altrimenti minoritario.

Finora le giovani istituzioni democratiche dei paesi europei centro-orientali hanno dimostrato una buona stabilità, manifestatasi soprattutto nelle alternanze che si sono susseguite negli anni e anche ora che i fantasmi nazional-populisti sono stati liberati dai guasti sociali del liberismo radicale degli anni scorsi, in molti a Bruxelles credono che continueranno a tenere. Quel che è certo è che terminata la transizione e integrata l’Unione, si è aperta per questi paesi una nuova fase che, e qui sta il punto, i partiti “istituzionali” che hanno fin qui guidato i processi non hanno ancora colto.

 



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