In molti si saranno stupiti nel leggere sui giornali
che dopo dodici anni alla guida del Paese i socialdemocratici
svedesi abbiano dovuto cedere la mano al Partito conservatore.
In effetti la Svezia ha un’economia più
che florida e una crescita invidiabile che si aggira
intorno al 5% e non si capisce allora perché
gli svedesi alle ultime elezioni politiche abbiano
voluto cambiare.
In realtà non di rottura si tratta, ma di
un’alternanza morbida, perché nei paesi
nordici cambiano i partiti, passano le elezioni, ma
il modello sociale rimane. Finlandia, Danimarca e
ora Svezia: tutti e tre i membri dell’Unione
europea dell’area sono ormai governati da esecutivi
di destra che non hanno nessuna intenzione di mettere
in questione uno Stato-Provvidenza che garantisce
crescita, alto tasso d’occupazione e una pressione
fiscale pesante, da tutti accettata, che assicura
una larga redistribuzione.
La vittoria del Partito conservatore, che con l’Alleanza
con gli altri partiti di destra ha ottenuto il 48,1%
dei suffragi contro il 46,2% del blocco delle sinistre
(Socialdemocratici e Verdi), è soprattutto
una successo personale del suo presidente, Fredrik
Reinfeldt, che per interrompere l’interminabile
ciclo socialdemocratico ha dovuto cambiare il volto
del suo partito.
Del resto è stato proprio il vincitore a dichiararlo
dopo l’esito del voto di fronte ai suoi sostenitori:
“Abbiamo osato sfidare noi stessi”. Una
battaglia che Reinfeldt ha saputo condurre con grande
capacità politica tra le proprie fila per creare
i “Nuovi conservatori”.
Negli anni Novanta, mentre i socialdemocratici riformavano
da capo a piedi la Svezia con la riduzione di un terzo
della funzione pubblica, la soppressione degli statuti,
la privatizzazione dell’energia e dei trasporti
e il ritorno al rigore di bilancio, fase preliminare
al consolidamento del mitico stato sociale svedese,
il Partito conservatore portava avanti la sua politica
d’opposizione alle tasse e a un modello sociale
che il governo andava negoziando con un sindacato
altamente rappresentativo (80% dei lavoratori). Reinfeldt
stesso apparteneva all’ala ultraliberale, ma
dopo la sconfitta clamorosa del 2002 che vide i conservatori
scendere al minimo storico del 15,3% dei consensi,
si impegnò in un processo di trasformazione
che ha portato i “nuovi conservatori”
verso il centro e a un’accettazione di un modello
a cui tutti gli svedesi sono profondamente attaccati.
Di più. Durante l’ultima campagna elettorale
si sono spesi per la difesa dello Stato-Provvidenza
presentandosi come il “nuovo partito del lavoro”.
In effetti il successo di poche lunghezze sui socialdemocratici,
Reinfeldt lo ha costruito sul dato della disoccupazione.
Se quello ufficiale presentato dal capo del governo
uscente Göran Persson era di 5,7% e quello di
Eurostat parlava di un 7,1%, il leader dei conservatori
ha puntato il dito su un tasso d’inattività
che si aggira sul 17% tenuto conto dei prepensionati
precoci, i disoccupati in formazione e gli inattivi
classificati come “malati di lunga durata”.
Reinfeldt ha proposto di abbassare i costi delle
imprese per incentivare l’assunzione di giovani
e immigrati, i settori più colpiti, e di diminuire
le indennità di disoccupazione e di malattia
affinché il ritorno all’attività
sia più vantaggioso.
Di fronte alla mancanza d’entusiasmo di un
Persson, evidentemente logorato e stanco dopo dieci
anni alla guida dell’esecutivo, che non ha fatto
altro che ripetere che “il lavoro sarebbe arrivato”
grazie alla crescita, l’attivismo dei nuovi
conservatori ha funzionato. Del resto gli svedesi
non rischiavano nessun cambio di rotta radicale, solo
un aggiustamento di un modello già ben integrato
nella mondializzazione. Hanno provato a cambiare nella
continuità.
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