Un successo e una grande novità. Nella crisi
libanese si è sentita la mano della diplomazia
europea, una mano che si è mossa bene, che
ha saputo agire in quello spazio strettissimo di chi
vuole garantire la sicurezza e i diritti dello stato
di Israele e allo stesso tempo vuole ascoltare con
attenzione le esigenze del popolo palestinese e del
mondo arabo.
Ma un ruolo importante va riconosciuto anche all’Italia,
spiega Filippo Andreatta, docente di Relazioni Internazionali,
collaboratore di Prodi che gli ha affidato la politica
estera della sua “Fabbrica” nell’ultima
campagna elettorale, tra i fondatori di “Ulibo”,
laboratorio di riflessione e formazione per analizzare
le evoluzioni della democrazia italiana con l’occhio
al partito democratico. Il governo italiano ha saputo
mostrare in Libano una “ostinata determinazione”
– continua Andreatta – che lo ha visto
continuare nelle proprie scelte, anche quando i partner
sembravano tirarsi indietro.
Successi, novità positive, e uno scenario politico
che lascia all’Unione Europea lo spazio lasciato
vuoto dai fallimenti delle politiche militari più
aggressive. Ora gli Usa cercano un ruolo attivo della
diplomazia europea che ha accettato il suo compito,
ma in politica estera non sa ancora parlare con una
voce sola e, continua Andreatta, sarà ancora
così, almeno finché non arrivi “una
riforma costituzionale che trasferisca la volontà
popolare a livello europeo”.
La missione Unifil 2 è stata salutata
dall’opinione pubblica e dagli addetti ai lavori
come un successo diplomatico. In che cosa consiste
questo successo?
Innanzitutto nel fatto che è una soluzione
che rivendica vent’anni di politica estera europea;
una soluzione che mostra continuità con il
lavoro di chi cerca un equilibrio guardando contemporaneamente
alla salvaguardia della sicurezza di Israele e alle
esigenze del mondo arabo.
In più, il fallimento dell’azione militare
israeliana contro gli Hezbollah ha fatto sì
che Israele abbia avuto un maggiore bisogno dell’Europa,
come dimostrano le richieste esplicite fatte da Olhmert
per avere truppe europee alla guida di Unifil 2. È
una cosa importante, perché c’è
stato un lungo periodo in cui l’unico attore
esterno all’area mediorientale cui Israele faceva
riferimento erano gli Stati Uniti; il fatto che questi
avessero da proporre solo un’opzione militare,
muscolare, ha riaperto un ruolo diplomatico per l’Europa.
L’ideale sarebbe che gli Usa da una parte e
gli alleati europei dall’altra, riuscissero
ad esercitare con successo le loro reciproche influenze
perché in Medio Oriente, ora, c’è
bisogno di pressioni forti. Purtroppo la politica
estera degli Stati Uniti ha perso parte della sua
credibilità in quell’area, ma le cose
stanno cambiando e speriamo che in futuro ci possa
essere questa azione comune.
Nel frattempo, è già una buona notizia
che agli Usa, possa affiancarsi l’alleato europeo.
Nelle manovre diplomatiche della crisi libanese
l’Italia ha avuto un ruolo da protagonista.
Come giudica l’operato del governo?
L’elemento di novità in questa vicenda
è stata la sicurezza con cui il governo italiano
ha tenuto la sua linea anche quando la Francia si
è sottratta. A mio avviso la parte più
interessante della vicenda è stata quella settimana
dopo l’annuncio dei francesi di ridurre drasticamente
il loro impegno militare, nella quale si è
vista un’ostinata determinazione italiana nel
mantenere aperta una opzione di peace-keeping forte
come Unifil 2 a prescindere dai dubbi francesi. L’Italia
è stata capace di tenere la barra da sola,
di guidare e gestire la situazione. Si è trattata
di un episodio abbastanza straordinario, perché
in genere l’istinto italiano porta a cercare
appoggi e partner, eredità di una certa debolezza
geopolitica ma anche della fragilità strutturale
dei governi di coalizione.
In questo caso, invece, il governo italiano ha mostrato
sicurezza in se stesso, ha saputo mantenere i nervi
saldi in un momento in cui, bisogna riconoscerlo,
poteva essere facile fare un passo indietro e seguire
i colleghi europei.
Un successo diplomatico della tradizione
europea, un ruolo determinante dell’Italia,
ma bisogna riconoscere che non si è vista l’Ue,
al solito sono i singoli stati a muoversi, a decidere.
In Libano ha avuto successo complessivamente la politica
estera europea; rimane però evidente che questa
consiste in un “sistema di politica estera”,
in cui la parte comune, la Pesc (Politica estera e
di sicurezza comune) è solo uno degli elementi
che interagisce con le scelte dei singoli stati. L’assenza
di un esercito europeo e la mancanza di un vero e
proprio corpo diplomatico dell’Ue non ci consentono
di parlare di una politica estera europea in senso
istituzionale, ma di un sistema complesso, qualcosa
di più delle politiche di singoli stati, ma
anche qualcosa di meno di una politica comune per
la quale mancano i meccanismi istituzionali necessari.
Ora non c’è politica estera
comune, ma possiamo aspettarci che da qui a qualche
anno la situazione sarà diversa?
Stanti gli attuali trattati possiamo raggiungere
una maggiore efficacia di questo complesso sistema
informale, ma non una vera e propria rappresentanza
istituzionale comune.
Questo passaggio potrà avvenire solo nel caso
in cui una riforma costituzionale trasferisca la volontà
popolare a livello europeo. Non è pensabile
avere una politica estera comune finché la
democrazia si esprime soprattutto a livello nazionale:
scelte che riguardano l’uso della forza, missioni
militari, la possibilità che muoiano cittadini,
non possono essere delegate, nessun governo potrebbe
dare carta bianca a istituzioni europee su simili
scelte. Questo significa che in politica estera l’Unione
è necessariamente limitata, perché ci
sono delle decisioni che proprio non può prendere
e spettano ai parlamenti nazionali.
Un altro aspetto, poi, rende la politica estera comune
un tema particolarmente complesso: il ritmo delle
scelte e degli eventi nel panorama internazionale
è dettato dall’esterno e spesso non si
ha il tempo necessario a costruire consenso in un
sistema istituzionale complesso in cui le procedure
sono esposte al veto.
Di fatto allora, nello scenario internazionale,
l’Ue non esiste ed è destinata a non
esistere?
Dipende. In alcuni settori esiste eccome, ad esempio
nella politica commerciale in cui l’Ue è
una vera superpotenza, non a caso si definisce spesso
l’Ue “gigante economico e nano politico”.
Nei negoziati commerciali l’Europa parla con
una voce sola e si vede.
Io credo che si possa e si debba procedere verso una
maggiore rappresentanza comune sulla strada di accordi,
anche di natura tecnico burocratica, tra le rappresentanze
nazionali nei paesi terzi ed eventualmente attraverso
una riforma che porti all’Ue un seggio unico
al consiglio di sicurezza dell’Onu, cosa difficile
ma non impossibile. Ma il limite rimane: quando si
entra in un negoziato in cui non si sa se usare la
forza o no, l’Ue deve partecipare con la riserva
mentale che le decisioni ultime spettano ai singoli
governi.
Comunque un certo dinamismo europeo e una
linea politica nello scenario internazionale si possono
riconoscere, soprattutto nell’area che comprende
Medio Oriente e Iran: Solana a colloquio con Ahmadinejad
ottiene una disponibilità a interrompere i
programmi di arricchimento dell’uranio; la missione
Unifil 2 che non comprende tra i suoi obiettivi il
di Hezbollah come chiesto da Usa e Israele; da parete
europea, poi, c’è una evidente inclinazione
a integrare Hamas nei processi politici piuttosto
che escluderla.
È una linea politica molto diversa da quella
statunitense, e qualcuno sostiene che questi atteggiamenti
possano portare a una nuova frattura transatlantica.
Lei è d’accordo?
Assolutamente no. Innanzi tutto lei ha citato diversi
problemi, tutti separati tra loro, perché il
Medio Oriente ha elementi comuni ma anche tratti di
specificità e quindi non tutto è collegato.
In secondo luogo, le iniziative europee in Iran e
in Libano godevano entrambe del pieno accordo degli
Stati Uniti che hanno spinto l’Ue a prendere
una posizione di protagonismo diplomatico perché
l’amministrazione Bush sapeva bene di non rappresentare
un interlocutore credibile per la controparte, Ahmadinejad
ed Hezbollah.
Altra cosa è la questione israelo-palestinese,
in cui ci sono diverse posizioni sulla possibilità
di integrare o meno Hamas nel processo democratico,
ma lì l’attore principale è Israele,
ed è il governo israeliano che decide sostanzialmente
delle sorti del negoziato con Hamas; Europa e Stati
Uniti sono in questo caso attori di secondo piano
che possono influenzare le scelte solo fino a un certo
punto.
Dunque, la metafora di Marte e Venere, che
sottolinea in politica estera l’approccio più
muscolare degli Usa di fronte all’atteggiamento
più “morbido” dell’Europa,
non è che una vecchia e inutile semplificazione?
No, è una differenza che esiste ancora e c’è
stata durante tutta la guerra fredda. Si è
trattato di una differenza creativa, costruttiva,
che di fronte a una linea dura tenuta dagli Usa nel
contenimento dell’Unione Sovietica e dei suoi
alleati, ha visto gli europei accollarsi a volte l’onere,
nella strategia complessiva del patto atlantico, di
tenere contatti aperti con quegli stessi paesi.
Ci sono momenti in cui questa tattica diversa diventa
una strategia, come è successo in Iraq, e allora
si può parlare di una frattura transatlantica;
ma per quanto riguarda gli eventi dell’ultimo
anno invece direi che siamo nella tradizione di alleati
che hanno approcci diversi ma che sono integrati in
una strategia unica.
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