307 - 12.10.06


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“E ora gli Usa vogliono
una Ue protagonista”
Filippo Andreatta
con Mauro Buonocore

Un successo e una grande novità. Nella crisi libanese si è sentita la mano della diplomazia europea, una mano che si è mossa bene, che ha saputo agire in quello spazio strettissimo di chi vuole garantire la sicurezza e i diritti dello stato di Israele e allo stesso tempo vuole ascoltare con attenzione le esigenze del popolo palestinese e del mondo arabo.
Ma un ruolo importante va riconosciuto anche all’Italia, spiega Filippo Andreatta, docente di Relazioni Internazionali, collaboratore di Prodi che gli ha affidato la politica estera della sua “Fabbrica” nell’ultima campagna elettorale, tra i fondatori di “Ulibo”, laboratorio di riflessione e formazione per analizzare le evoluzioni della democrazia italiana con l’occhio al partito democratico. Il governo italiano ha saputo mostrare in Libano una “ostinata determinazione” – continua Andreatta – che lo ha visto continuare nelle proprie scelte, anche quando i partner sembravano tirarsi indietro.
Successi, novità positive, e uno scenario politico che lascia all’Unione Europea lo spazio lasciato vuoto dai fallimenti delle politiche militari più aggressive. Ora gli Usa cercano un ruolo attivo della diplomazia europea che ha accettato il suo compito, ma in politica estera non sa ancora parlare con una voce sola e, continua Andreatta, sarà ancora così, almeno finché non arrivi “una riforma costituzionale che trasferisca la volontà popolare a livello europeo”.

La missione Unifil 2 è stata salutata dall’opinione pubblica e dagli addetti ai lavori come un successo diplomatico. In che cosa consiste questo successo?

Innanzitutto nel fatto che è una soluzione che rivendica vent’anni di politica estera europea; una soluzione che mostra continuità con il lavoro di chi cerca un equilibrio guardando contemporaneamente alla salvaguardia della sicurezza di Israele e alle esigenze del mondo arabo.
In più, il fallimento dell’azione militare israeliana contro gli Hezbollah ha fatto sì che Israele abbia avuto un maggiore bisogno dell’Europa, come dimostrano le richieste esplicite fatte da Olhmert per avere truppe europee alla guida di Unifil 2. È una cosa importante, perché c’è stato un lungo periodo in cui l’unico attore esterno all’area mediorientale cui Israele faceva riferimento erano gli Stati Uniti; il fatto che questi avessero da proporre solo un’opzione militare, muscolare, ha riaperto un ruolo diplomatico per l’Europa.
L’ideale sarebbe che gli Usa da una parte e gli alleati europei dall’altra, riuscissero ad esercitare con successo le loro reciproche influenze perché in Medio Oriente, ora, c’è bisogno di pressioni forti. Purtroppo la politica estera degli Stati Uniti ha perso parte della sua credibilità in quell’area, ma le cose stanno cambiando e speriamo che in futuro ci possa essere questa azione comune.
Nel frattempo, è già una buona notizia che agli Usa, possa affiancarsi l’alleato europeo.

Nelle manovre diplomatiche della crisi libanese l’Italia ha avuto un ruolo da protagonista. Come giudica l’operato del governo?

L’elemento di novità in questa vicenda è stata la sicurezza con cui il governo italiano ha tenuto la sua linea anche quando la Francia si è sottratta. A mio avviso la parte più interessante della vicenda è stata quella settimana dopo l’annuncio dei francesi di ridurre drasticamente il loro impegno militare, nella quale si è vista un’ostinata determinazione italiana nel mantenere aperta una opzione di peace-keeping forte come Unifil 2 a prescindere dai dubbi francesi. L’Italia
è stata capace di tenere la barra da sola, di guidare e gestire la situazione. Si è trattata di un episodio abbastanza straordinario, perché in genere l’istinto italiano porta a cercare appoggi e partner, eredità di una certa debolezza geopolitica ma anche della fragilità strutturale dei governi di coalizione.
In questo caso, invece, il governo italiano ha mostrato sicurezza in se stesso, ha saputo mantenere i nervi saldi in un momento in cui, bisogna riconoscerlo, poteva essere facile fare un passo indietro e seguire i colleghi europei.

Un successo diplomatico della tradizione europea, un ruolo determinante dell’Italia, ma bisogna riconoscere che non si è vista l’Ue, al solito sono i singoli stati a muoversi, a decidere.

In Libano ha avuto successo complessivamente la politica estera europea; rimane però evidente che questa consiste in un “sistema di politica estera”, in cui la parte comune, la Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) è solo uno degli elementi che interagisce con le scelte dei singoli stati. L’assenza di un esercito europeo e la mancanza di un vero e proprio corpo diplomatico dell’Ue non ci consentono di parlare di una politica estera europea in senso istituzionale, ma di un sistema complesso, qualcosa di più delle politiche di singoli stati, ma anche qualcosa di meno di una politica comune per la quale mancano i meccanismi istituzionali necessari.

Ora non c’è politica estera comune, ma possiamo aspettarci che da qui a qualche anno la situazione sarà diversa?

Stanti gli attuali trattati possiamo raggiungere una maggiore efficacia di questo complesso sistema informale, ma non una vera e propria rappresentanza istituzionale comune.
Questo passaggio potrà avvenire solo nel caso in cui una riforma costituzionale trasferisca la volontà popolare a livello europeo. Non è pensabile avere una politica estera comune finché la democrazia si esprime soprattutto a livello nazionale: scelte che riguardano l’uso della forza, missioni militari, la possibilità che muoiano cittadini, non possono essere delegate, nessun governo potrebbe dare carta bianca a istituzioni europee su simili scelte. Questo significa che in politica estera l’Unione è necessariamente limitata, perché ci sono delle decisioni che proprio non può prendere e spettano ai parlamenti nazionali.
Un altro aspetto, poi, rende la politica estera comune un tema particolarmente complesso: il ritmo delle scelte e degli eventi nel panorama internazionale è dettato dall’esterno e spesso non si ha il tempo necessario a costruire consenso in un sistema istituzionale complesso in cui le procedure sono esposte al veto.

Di fatto allora, nello scenario internazionale, l’Ue non esiste ed è destinata a non esistere?

Dipende. In alcuni settori esiste eccome, ad esempio nella politica commerciale in cui l’Ue è una vera superpotenza, non a caso si definisce spesso l’Ue “gigante economico e nano politico”. Nei negoziati commerciali l’Europa parla con una voce sola e si vede.
Io credo che si possa e si debba procedere verso una maggiore rappresentanza comune sulla strada di accordi, anche di natura tecnico burocratica, tra le rappresentanze nazionali nei paesi terzi ed eventualmente attraverso una riforma che porti all’Ue un seggio unico al consiglio di sicurezza dell’Onu, cosa difficile ma non impossibile. Ma il limite rimane: quando si entra in un negoziato in cui non si sa se usare la forza o no, l’Ue deve partecipare con la riserva mentale che le decisioni ultime spettano ai singoli governi.


Comunque un certo dinamismo europeo e una linea politica nello scenario internazionale si possono riconoscere, soprattutto nell’area che comprende Medio Oriente e Iran: Solana a colloquio con Ahmadinejad ottiene una disponibilità a interrompere i programmi di arricchimento dell’uranio; la missione Unifil 2 che non comprende tra i suoi obiettivi il di Hezbollah come chiesto da Usa e Israele; da parete europea, poi, c’è una evidente inclinazione a integrare Hamas nei processi politici piuttosto che escluderla.
È una linea politica molto diversa da quella statunitense, e qualcuno sostiene che questi atteggiamenti possano portare a una nuova frattura transatlantica. Lei è d’accordo?

Assolutamente no. Innanzi tutto lei ha citato diversi problemi, tutti separati tra loro, perché il Medio Oriente ha elementi comuni ma anche tratti di specificità e quindi non tutto è collegato.
In secondo luogo, le iniziative europee in Iran e in Libano godevano entrambe del pieno accordo degli Stati Uniti che hanno spinto l’Ue a prendere una posizione di protagonismo diplomatico perché l’amministrazione Bush sapeva bene di non rappresentare un interlocutore credibile per la controparte, Ahmadinejad ed Hezbollah.
Altra cosa è la questione israelo-palestinese, in cui ci sono diverse posizioni sulla possibilità di integrare o meno Hamas nel processo democratico, ma lì l’attore principale è Israele, ed è il governo israeliano che decide sostanzialmente delle sorti del negoziato con Hamas; Europa e Stati Uniti sono in questo caso attori di secondo piano che possono influenzare le scelte solo fino a un certo punto.

Dunque, la metafora di Marte e Venere, che sottolinea in politica estera l’approccio più muscolare degli Usa di fronte all’atteggiamento più “morbido” dell’Europa, non è che una vecchia e inutile semplificazione?

No, è una differenza che esiste ancora e c’è stata durante tutta la guerra fredda. Si è trattato di una differenza creativa, costruttiva, che di fronte a una linea dura tenuta dagli Usa nel contenimento dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati, ha visto gli europei accollarsi a volte l’onere, nella strategia complessiva del patto atlantico, di tenere contatti aperti con quegli stessi paesi.
Ci sono momenti in cui questa tattica diversa diventa una strategia, come è successo in Iraq, e allora si può parlare di una frattura transatlantica; ma per quanto riguarda gli eventi dell’ultimo anno invece direi che siamo nella tradizione di alleati che hanno approcci diversi ma che sono integrati in una strategia unica.


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