C’è un’Europa da allargare e 
                            una da approfondire. A quest’ultima appartiene 
                            anche l’Europa britannica. Nonostante la retorica 
                            e i buoni propositi enunciati dal premier londinese 
                            Tony Blair un anno fa davanti al Parlamento di Bruxelles, 
                            la Gran Bretagna rimane un paese ancora con solo un 
                            piede nell’Ue, e non soltanto perché 
                            non pare intenzionata a lasciare la sterlina per l’euro. 
                            E’ allora decisamente benvenuto Mark Leonard, 
                            con il suo Europa 21 (Bompiani, prefazione 
                            di Romano Prodi). Il giovanissimo direttore del Foreign 
                            Policy al Centre for European Reform è una 
                            firma già nota dei quotidiani in lingua inglese.
                          Il titolo originale del libro è piuttosto 
                            scioccante (“Perché l’Europa guiderà 
                            il 21esimo secolo”) e si basa sulla constatazione 
                            della potenza e dell’efficacia del soft power 
                            europeo, contrapposto al decadente hard power americano 
                            (la distinzione è opera di Joseph S. Nye, che 
                            contrappone potere diplomatico a quello militare, 
                            e che non a caso ha usato parole di elogio verso Leonard). 
                            Guardando al declino dell’immagine degli Usa 
                            nel mondo, al successo dell’allargamento a est 
                            e al modo in cui Africa Asia e Sud America vanno organizzandosi 
                            in sistemi complessi sul modello dell’Ue, Leonard 
                            elogia la “debolezza” dell’Europa 
                            e la descrive come un “transformative power”, 
                            una “passive aggression” in grado di condizionare 
                            e migliorare tutto ciò che viene a contatto 
                            con essa: “Gli Usa possono aver cambiato il 
                            regime in Afghanistan, ma l’Europa sta cambiando 
                            l’intera società polacca, dall’economia 
                            alle leggi sulla proprietà al trattamento delle 
                            minoranze. L’Europa non cambia i paesi minacciando 
                            di invaderli: la sua peggiore minaccia è che 
                            non avrà nulla a che fare con essi”.
                          Un punto che accomuna il britannico agli altri saggisti 
                            europeisti è la rivalutazione delle condizioni 
                            economico-sociali dell’Ue, che spesso vengono 
                            sottovalutate apertamente dalla propaganda euroscettica 
                            (che è sempre filoamericana): “Il valore 
                            aggiunto dell’Europa sta nella qualità 
                            della vita che permette più che nei tassi di 
                            crescita, ma, anche secondo i metri di giudizio tradizionali 
                            sulle performance economiche, le prestazioni dell’Europa 
                            sono molto più rispettabili di quanto pretendano 
                            i suoi critici americani”. Persino durante il 
                            boom degli anni Novanta i salari sono cresciuti da 
                            noi più che negli Stati Uniti, e il Pil pro 
                            capite è praticamente identico, anche se gli 
                            americani hanno dovuto lavorare più ore e più 
                            giorni per raggiungere quel livello. Ci sono tre ragioni 
                            per essere ottimisti a proposito della crescita economica 
                            del Vecchio Continente: l’euro (cui molti paesi 
                            hanno già convertito le proprie riserve), la 
                            propensione allo sfruttamento delle energie rinnovabili, 
                            la crescita del Pil come conseguenza dell’allargamento. 
                            Tutto merito dello “Stockholm Consensus”, 
                            il modello verso cui si stanno riposizionando tutti 
                            i paesi europei e che implica innovazione, flessibilità 
                            e stato sociale. 
                          Il linguaggio è spesso ispirato (“L’Europa 
                            è un viaggio senza una destinazione finale”) 
                            e l’argomentazione brillante. Le idee sono a 
                            volte già note (vedi soprattutto “Il 
                            sogno europeo” di Rifkin, molto citato dall’autore), 
                            ma altre volte sono spiegate con argomenti nuovi e 
                            convincenti (come quando si dice che il sistema dell’Ue 
                            è più democratico del sistema delle 
                            nazioni, perché in un mondo globale la voce 
                            degli stati andrebbe persa, mentre grazie all’Ue 
                            recupera un peso nella politica mondiale: stare dentro 
                            l’Europa conviene, perché quando il Wto 
                            stabilisce nuove regole per la pesca del salmone gli 
                            interessi dei pescatori irlandesi sono rappresentati 
                            dal gigante di Bruxelles, mentre quelli dei norvegesi 
                            sono rappresentati dal nano di Oslo). 
                          Il segreto della rivoluzione silenziosa dell’Ue 
                            sta, per l’autore, nel suo non avere un centro, 
                            nel suo essere una moderna Idra dalle tante teste. 
                            E il motivo per cui tutti dovremmo sperare in una 
                            diffusione globale del suo modello è che esso 
                            si basa sui valori della democrazia, dei diritti umani, 
                            dell’approccio multilaterale, del diritto e 
                            della diplomazia al posto della forza militare. Ora 
                            la vera sfida dell’Ue, per Leonard, è 
                            come riuscire a esportare questo suo modello: “Assisteremo 
                            all’emergere di un ‘Nuovo Secolo Europeo’ 
                            – conclude profetico il giovane britannico – 
                            non perché l’Europa governerà 
                            il mondo come un impero, ma perché il modo 
                            europeo di fare le cose diventerà quello del 
                            mondo intero”. 
                          
                            Mark Leonard
                            Europa 21 
                            Bompiani, pp. 173, 14,00 euro
                          
                           
                           
                            
                          Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti 
                            da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
                            redazione@caffeeuropa.it