Per il professor
Jacques Rupnik, direttore di ricerca al Ceri (Centro
di studi e ricerche internazionali) di Parigi e consigliere
nei primi anni Novanta del presidente Ceco Vaclav Havel,
non ci sono dubbi: per uscire dall’impasse politica
causata dal “no” francese e olandese al
Trattato costituzionale, l’Ue deve adottare realismo
e pragmatismo per riformare le proprie istituzioni.
Insomma, un profilo più basso che le permetta
di continuare il cammino verso un’integrazione
che dopo quella monetaria sia anche politica. Lo abbiamo
incontrato dopo che all’ultimo Consiglio europeo
i capi di Stato e di governo dei Venticinque hanno delineato
un percorso che porti ad un nuovo trattato entro il
2009.
Professore partiamo dall’inizio, dal
“no” di Francia e Olanda al Trattato costituzionale.
Quei referendum sembrano aver svelato qualcosa agli
europei, sembrano aver alzato un velo che annebbiava
lo sguardo. In che cosa consisteva questo velo?
Direi, anzitutto, che c’era al centro dei paesi
fondatori un dubbio, una perplessità davanti
alla direzione che il progetto europeo stava prendendo
o, piuttosto, all’assenza di definizione di questo
stesso progetto. Il rigetto francese ha mostrato che
non sono solo i paesi che si associano tradizionalmente
a un certa reticenza e a un certo scetticismo verso
la costruzione europea, come la gran Bretagna e i paesi
nordici, a dubitare. Ciò è legato sia
a situazioni particolari e contingenti, sia al fatto,
più importante, che l’Unione Europea non
è più percepita come un’istituzione
e un progetto rassicurante. Nel dopoguerra la pace,
la prosperità e la democrazia fornivano un quadro
rassicurante ai francesi e agli europei. Oggi l’Ue
è percepita invece come un fattore d’insicurezza,
d’instabilità, come uno strumento della
mondializzazione che conduce sempre più alle
deregolamentazioni e alle privatizzazioni. In più
non si sa quali siano le sue frontiere. Da strumento
modernizzatore rassicurante, l’Europa è
divenuta uno strumento globalizzatore che provoca insicurezza.
Quanto ha giocato in tutto questo il processo
di allargamento?
Molto. Direi che l’allargamento ha causato una
sorta di perdita di punti di riferimento, di straniamento.
Come se a un certo punto i membri fondatori si sentissero
improvvisamente stranieri in un’Unione Europea
che non comprendono più molto bene.
Queste le cause, ma quali sono state le conseguenze
pratiche del “no” al Trattato costituzionale?
La prima e immediata conseguenza è stata la
morte stessa del Trattato. La seconda è stata
un indebolimento dell’Europa politica e di tutti
quelli che desideravano dopo il mercato unico e la moneta
unica procedere sulla strada dell’integrazione
politica. In questo senso, paradossalmente, sono stati
proprio i francesi che si lamentavano dell’assenza
di un Europa politica a comprometterne il cammino. Si
è tentati di fare il parallelo con il 1954 e
il rigetto della Comunità di difesa europea (Ced),
un progetto che costituiva un audace avanzamento politico
e che il voto negativo francese all’Assemblea
nazionale bloccò. Dopo quel tentativo si dovette
passare per l’economia per rivenire, dopo un lungo
giro, alla questione politica. Si ha l’impressione
che cinquant’anni più tardi la Francia
si sia ripetuta.
All’ultimo Consiglio europeo i venticinque
capi di Stato e di governo, coscienti della necessità
di un passo avanti sulla strada delle riforme istituzionali,
hanno tentato di rimettere in piedi un timido cammino
e hanno schizzato una procedura per portare ad un nuovo
Trattato non prima del 2009. Qual è il suo parere?
Direi che quello che è emerso dal Consiglio
sia la saggezza stessa, il realismo. Sarebbe stato difficile
nel clima attuale rilanciare il progetto di Costituzione
e in tutti i casi non si sarebbe potuto far votare francesi
e olandesi due volte sullo stesso testo.
In questo momento credo che la cosa possibile sia trovare
un compromesso sulle riforme istituzionali necessarie
abbandonando tutta quella che era la terza parte del
Trattato costituzionale e conservando la parte più
importante delle riforme istituzionali e la dichiarazione
dei diritti. Il compromesso andrebbe adottato non come
Costituzione ma come trattato supplementare che prolunga
e emenda i trattati precedenti, e andrebbe fatto ratificare
dai parlamenti. Credo che la lezione principale del
“no” francese sia quella di diffidare dei
referendum perché sono voti molto particolari.
Questo è ancor più vero in Francia dove
il referendum ha sempre una connotazione plebiscitaria
che viene dalla tradizione bonapartista e gollista e
che vira sempre verso le materie interne e sulla fiducia
a colui che pone la questione.
Quindi: niente referendum e, in secondo luogo, si cerchi
il consenso necessario su un trattato che riformi le
istituzioni e i trattati attuali. Con un’Europa
a 27 o 28 membri sarà impossibile convocare una
nuova Convenzione e trovare un accordo che accontenti
tutti.
A proposito dei contrasti in seno al gruppo
dei Venticinque: la formazione del nuovo governo slovacco
conferma una tendenza decisamente antiliberale e nazionalista
che si sta manifestando presso i paesi dell’Europa
Centrale. Si tratta anche di una ventata euroscettica
che sta conquistando i nuovi paesi che hanno aderito
all’Unione?
Sì. Prima di entrare nell’Ue in tutta
l’Europa Centrale ha dominato ovunque sul piano
economico il liberalismo, con il simbolo della flat
tax come misura faro della politica liberale, e sul
piano politico coalizioni pro europee. Coalizioni di
centro sinistra a Budapest, a Praga, a Varsavia e di
centro destra in Slovacchia.
Dopo l’adesione del 2004, una sorta di rigetto
della politica liberale e dell’Unione europea
ha conquistato questi paesi. La più virulenta
in questo senso è la Polonia dove al governo
abbiamo oggi una coalizione nazional-populista con un
partito, il Pis, molto critico verso l’Ue e altri
due partiti, Lpr e Samoobrona, che sono apertamente
ostili. Anche in Slovacchia si è formata una
coalizione nazionl-populista ma di sinistra, una coalizione
che rimetterà in discussione le politiche liberali
degli ultimi anni e che adotterà un tono più
riservato verso l’integrazione europea. Ancora
un paradosso: l’integrazione all’Ue che
è stato un successo, dati i benefici che porta,
coincide con l’indebolimento delle coalizioni
europeiste liberali di centro destra o di centro sinistra
che hanno traghettato questi paesi nell’Unione.
In questo scenario qual è il ruolo del
nuovo governo italiano di Romano Prodi?
Se per l’Europa centrale la situazione è
quella evidenziata prima, per il vostro paese il clima
è totalmente mutato. L’Italia ritorna in
Europa dopo cinque anni di governo Berlusconi, poco
incline alle tematiche europee. Invece ora anche il
fatto di avere come Primo ministro l’ex presidente
della Commissione ed un governo dichiaratamente europeista,
pone l’Italia di nuovo al centro del discorso
europeo . Prima dell’Italia era tornata in Europa
anche la Spagna dopo il periodo Aznar, quindi direi
che a controbilanciare quello che accade nell’Europa
centrale, ci sono le condizioni più favorevoli
a Sud Ovest dell’Europa con l’Italia, la
Spagna, il Portogallo, che sono e restano paesi europeisti.
Come arrivare a una Costituzione con posizioni
così diverse?
Penso che il nuovo trattato non potrà che essere
un esercizio molto più modesto. Bisogna abbandonare
l’idea dell’attesa della grand soir costituzionale
e accontentarsi che nella riforma delle sue istituzioni
l’Ue avanzi per tappe, per obiettivi successivi.
Abbiamo avuto Maastricht, abbiamo avuto Amsterdam, poi
c’è stata Nizza, c’è stata
la Convenzione, che non è andata a buon fine,
e ci saranno altri trattati. Ma bisogna vedere tutto
questo come un processo e non come un evento che risolva
tutti i problemi. In un certo senso il costituzionalismo,
inteso come processo, è più importante
della costituzione stessa.
Sono il pragmatismo e il realismo che ci si impongono
dopo la sconfitta del trattato costituzionale.
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