301 - 16.06.06


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Gli Stati Uniti nell’Europa
Lucia Serena Rossi

A quasi cinquant’anni dalla firma del Trattato di Roma, voltarsi indietro e considerare il cammino sin qui percorso può aiutarci a riflettere meglio sul futuro dell’Unione europea. Un cammino fatto di successi: uno sviluppo economico, sociale e democratico, un processo di collaborazione pacifica e sempre più intensa che ha riunificato l’Europa, ricomponendo le spaccature fra Francia e Germania, poi fra le due Germanie e le due Europe della Guerra fredda. Il processo di integrazione ha anche attraversato diverse crisi, di carattere istituzionale o innescate da atteggiamenti dissonanti di uno o più Stati membri: la sedia vuota di De Gaulle, l’euroscetticismo programmatico ed aggressivo della Tatcher , il fallimento del progetto Spinelli la lettera degli Otto nella guerra in Irak. Occorre però riconoscere che da tali crisi l’Unione ha sempre tratto lo stimolo per ricompattarsi attorno a soluzioni innovative: il compromesso di Lussemburgo, l’Atto Unico, il principio di sussidiarietà, la firma del Trattato costituzionale.

La crisi che è ora in atto è particolarmente grave, non solo perché riguarda il progetto complessivo, ma anche perché viene dai cittadini. Sicuramente dietro i rifiuti referendari di Francia e Olanda vi è uno spaesamento dovuto all’incertezza sulle finalità ultime dell’Unione europea, oltre che sui confini esterni della stessa.
Quali possibilità vi sono per sbloccare una situazione di semi-paralisi? Esaminiamo innanzitutto le prospettive più immediate. Anche se il processo di ratifica sta continuando (da ultimo la ratifica dell’Estonia e presto quella della Finlandia), rimangono ancora alcuni Stati il cui voto positivo appare estremamente improbabile (Regno Unito, Polonia, Svezia).

La pausa di riflessione voluta dalle istituzioni non sembra sino ad ora aver portato a soluzioni condivise, anche se emergono alcune idee che sembrano poter affermarsi.
Innanzitutto vi è quella di una riflessione sulla “capacità di assorbimento” dell’Unione (la possibilità cioè di “filtrare” i futuri allargamenti sulla base non solo dei requisiti degli Stati candidati, ma anche in base ad una sorta di “valutazione di impatto” della loro entrata). Il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di presentare un rapporto in tal senso entro la fine dell’anno.

Quanto al destino del Trattato costituzionale, da più parti si avanza l’idea di abbreviarne il testo, concentrandosi sulla parte I (che però dovrà essere necessariamente accompagnata da alcune norme della parte III), con l’aggiunta di un articolo (o un protocollo) che rinvii alla Carta dei diritti fondamentali. Tale nuovo trattato potrebbe conservare l’appellativo di “costituzionale”, ma sarebbe forse più saggio denominarlo in altro modo: “legge fondamentale” oppure “nuovo atto unico europeo”. Vi è inoltre un movimento a livello europeo che chiede che il nuovo trattato sia sottoposto ad un referendum, quantomeno consultivo a livello europeo nel 2009, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo. Pur non essendo un referendum di tale tipo previsto dal diritto comunitario, la sua fattibilità sembra possibile, in quanto basterebbe indire, su invito del Consiglio europeo, 25 referendum nazionali. Più difficile sarebbe però attribuire a tale referendum un valore vincolante.

Nel frattempo (e comunque in attesa che il futuro del Trattato costituzionale risulti più chiaro) la Francia ha proposto alcune innovazioni che si possono già effettuare sulla base dei trattati esistenti, in particolare quella di utilizzare le “disposizioni-passerella”, per comunitarizzare alcune materie relative alla cooperazione penale, giudiziaria e di polizia, al fine di rafforzare la lotta al terrorismo ed alla criminalità. Si discute anche della possibilità di coinvolgere maggiormente i parlamenti nazionali nel controllo del rispetto del principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni comunitarie.

Quelle sin qui analizzate sono prospettive di breve periodo. Ma quando lo sguardo si sposta sul futuro, e sulla destinazione finale del processo di integrazione europea, emerge da più parti la consapevolezza che due diverse visioni dell’Europa si confrontano e scontrano ormai su ogni aspetto e difficilmente consentiranno di progredire tutti assieme verso un’ulteriore integrazione. Per tali ragioni si invocano in maniera sempre più aperta le integrazioni differenziate.

Da un lato vi è la visione di un’Europa sempre più integrata dal punto di vista economico e politico, il cui traguardo è una federazione di Stati-nazione, e dall’altra quella di una zona, la più estesa possibile, con competenze minime per garantire il libero scambio, la competizione economica (e non l’integrazione) fra gli Stati membri, un sostegno alla Nato e una cooperazione con gli Stati Uniti in materia di lotta al terrorismo. Questa seconda visione mira al costante allargamento dell’Unione, anche per impedire l’approfondimento dell’integrazione. La prima visione, propugnata dal Regno Unito, inizialmente minoritaria, si trova oggi, a seguito dell’ultimo (ma anche già dal penultimo) allargamento, in maggioranza all’interno delle istituzioni intergovernative (Consiglio e Consiglio europeo).

Le varie revisioni dei trattati istitutivi hanno via via cercato di contemperare queste due visioni, per cercare di accontentare tutti. Il risultato è però sempre meno coerente e finisce con non accontentare nessuno, proprio perché il progetto complessivo sul futuro dell’Europa rimane ambiguo e poco chiaro agli occhi dei cittadini.
Il tema dell’integrazione differenziata non è nuovo nella storia dell’Unione europea, ma ora sta divenendo centrale nel dibattito sul futuro dell’Europa. La ragione è che è sempre più difficile trovare compromessi coerenti e persuasivi tra le due visioni dell’Europa.
Da un lato prosegue in alcuni Stati la spinta federalista, recentemente ribadita da un libro di Guy Verhofstadt che auspica la costituzione degli “Stati Uniti d’Europa”.
D’altro canto, la sfida dei futuri allargamenti solleva la questione della possibilità di trovare modelli d’integrazione diversi dall’adesione da proporre ai paesi dell’Europa orientale che non sono ancora candidati, ma verosimilmente aspirano ad esserlo. Emerge dunque una duplice domanda di integrazione differenziata, sia nelle relazioni fra Stati membri, creando delle avanguardie, sia nelle relazioni con stati europei, con cu studiare forme di integrazione diverse dall’adesione.

Nell’impossibilità di trovare un consenso con le maggioranze previste dai trattati attuali, vi sono alcuni strumenti che possono consentire ad un gruppo di Stati membri di avanzare su una scala più ristretta nel processo di integrazione.
Innanzitutto si può ricorrere ad uno strumento previsto dai trattati e sin qui mai utilizzato: l’istituto della cooperazione rafforzata, che consente di adottare atti nel quadro istituzionale dell’Unione, ma su scala ridotta (con un minimo di otto stati), con l’obbligo di accettare qualunque stato comunitario voglia successivamente aggiungersi. Vi è inoltre la possibilità di fare ricorso a convenzioni internazionali esterne ai trattati comunitari (come fu per gli Accordi di Schengen e com’è stato più recentemente per gli accordi di Pruem), in questo caso non soggette ai vincoli della cooperazione rafforzata.
Tuttavia, se l’obbiettivo è quello di costituire un nucleo di avanguardia federale è evidente che tali strumenti di per sé non bastano. Essi infatti rischiano di frammentare l’integrazione europea in tanti processi autonomi e scollegati (una sorta di integrazione “a macchia di leopardo”), aperti di volta in volta a Stati differenti.

Si potrebbe allora immaginare qualcosa di nuovo. Uno strumento che permetta ad alcuni Stati volenterosi di progredire verso gli “Stati Uniti d’Europa”.
Si può immaginare la conclusione di un patto federatore fra alcuni Stati membri dell’Unione, desiderosi di procedere verso la costituzione di uno Stato federale . Questo accordo dovrebbe stabilire i fini comuni e gli strumenti per realizzarli, prima di tutto in seno all’Unione ed alle sue istituzioni. L’accordo dovrebbe fissare delle modalità di convergenza non unanimitarie per le decisioni in seno al Consiglio Ue. Ove gli Stati federali non riescano a promuovere le loro idee all’interno delle istituzioni comunitarie e del quadro dell’Unione, essi faranno ricorso alle cooperazioni rafforzate. Se anche questo non fosse possibile, essi potranno utilizzare gli strumenti della cooperazione internazionale. Il tutto in un disegno federale coerente e trasparente.

In tal modo gli Stati Uniti d’Europa potrebbero formare un blocco stabile, compatto ed integrato, riunendosi prima delle sessioni del Consiglio per concordare una posizione comune, su cui fare convergere i loro voti in seno al Consiglio. Sarebbe, in altri termini una sorta di patto di sindacato in seno alle istituzioni. Una pratica forse non gradita agli altri Stati membri, ma sicuramente legittima ai sensi dei trattati vigenti (ed anche del Trattato costituzionale), anche perché è ispirata a quanto già accade per l’euro-gruppo.

In questo scenario l’avanguardia non si realizzerebbe al di fuori o a fianco dell’Unione, ma all’interno di essa: quello che si creerebbe sarebbero “gli Stati Uniti nell’Europa” .
Non sarebbero necessarie né nuove istituzioni, né una nuova burocrazia. Una convergenza fra le amministrazioni nazionali, con un processo di consultazione continuativa anche ai più alti livelli istituzionali, come quella che già avviene a livello bilaterale fra Germania e Francia, sarebbe sufficiente.

Il patto federatore potrà aprirsi a tutti gli Stati che sottoscrivano l’obbiettivo federale, ma nessuna diluizione dell’approfondimento dovrà essere concessa in nome dell’allargamento (come invece è accaduto sino qui).
Un simile scenario semplificherebbe enormemente anche il problema dell’adesione di nuovi Stati. Se all’interno dell’Unione attuale si costituisce un’avanguardia (core-Europe), il cerchio più esterno potrà allargarsi senza troppi problemi, in quanto sarà formato da Stati più propensi all’allargamento che all’approfondimento. Entrambi i cerchi di questa Europa (quello interno, federale, e quello esterno, comunitario) rimarrebbero aperti a chi ne condivide i fini e si impegna a rispettarne le regole.

Questo modello permette dunque di conciliare allargamento ed approfondimento, senza sacrificare le diverse vocazioni e senza condurre a compromessi incoerenti. Sicuramente gli Stati che non partecipano al nucleo federale inizialmente protesterebbero, ma non si vede come potrebbero impedire agli altri di integrarsi reciprocamente attorno ad un progetto che resterebbe comunque aperto a tutti. Nel lungo periodo il nucleo federale potrebbe esercitare sugli Stati membri dell’Unione quella stessa attrazione che l’Unione stessa crea per gli Stati terzi: in tal prospettiva gli Stati Uniti dentro l’Europa potrebbero diventare gli stati Uniti d’Europa.


 

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