A quasi cinquant’anni dalla firma del Trattato
di Roma, voltarsi indietro e considerare il cammino
sin qui percorso può aiutarci a riflettere
meglio sul futuro dell’Unione europea. Un cammino
fatto di successi: uno sviluppo economico, sociale
e democratico, un processo di collaborazione pacifica
e sempre più intensa che ha riunificato l’Europa,
ricomponendo le spaccature fra Francia e Germania,
poi fra le due Germanie e le due Europe della Guerra
fredda. Il processo di integrazione ha anche attraversato
diverse crisi, di carattere istituzionale o innescate
da atteggiamenti dissonanti di uno o più Stati
membri: la sedia vuota di De Gaulle, l’euroscetticismo
programmatico ed aggressivo della Tatcher , il fallimento
del progetto Spinelli la lettera degli Otto nella
guerra in Irak. Occorre però riconoscere che
da tali crisi l’Unione ha sempre tratto lo stimolo
per ricompattarsi attorno a soluzioni innovative:
il compromesso di Lussemburgo, l’Atto Unico,
il principio di sussidiarietà, la firma del
Trattato costituzionale.
La crisi che è ora in atto è particolarmente
grave, non solo perché riguarda il progetto
complessivo, ma anche perché viene dai cittadini.
Sicuramente dietro i rifiuti referendari di Francia
e Olanda vi è uno spaesamento dovuto all’incertezza
sulle finalità ultime dell’Unione europea,
oltre che sui confini esterni della stessa.
Quali possibilità vi sono per sbloccare una
situazione di semi-paralisi? Esaminiamo innanzitutto
le prospettive più immediate. Anche se il processo
di ratifica sta continuando (da ultimo la ratifica
dell’Estonia e presto quella della Finlandia),
rimangono ancora alcuni Stati il cui voto positivo
appare estremamente improbabile (Regno Unito, Polonia,
Svezia).
La pausa di riflessione voluta dalle istituzioni
non sembra sino ad ora aver portato a soluzioni condivise,
anche se emergono alcune idee che sembrano poter affermarsi.
Innanzitutto vi è quella di una riflessione
sulla “capacità di assorbimento”
dell’Unione (la possibilità cioè
di “filtrare” i futuri allargamenti sulla
base non solo dei requisiti degli Stati candidati,
ma anche in base ad una sorta di “valutazione
di impatto” della loro entrata). Il Parlamento
europeo ha chiesto alla Commissione di presentare
un rapporto in tal senso entro la fine dell’anno.
Quanto al destino del Trattato costituzionale, da
più parti si avanza l’idea di abbreviarne
il testo, concentrandosi sulla parte I (che però
dovrà essere necessariamente accompagnata da
alcune norme della parte III), con l’aggiunta
di un articolo (o un protocollo) che rinvii alla Carta
dei diritti fondamentali. Tale nuovo trattato potrebbe
conservare l’appellativo di “costituzionale”,
ma sarebbe forse più saggio denominarlo in
altro modo: “legge fondamentale” oppure
“nuovo atto unico europeo”. Vi è
inoltre un movimento a livello europeo che chiede
che il nuovo trattato sia sottoposto ad un referendum,
quantomeno consultivo a livello europeo nel 2009,
in occasione delle elezioni del Parlamento europeo.
Pur non essendo un referendum di tale tipo previsto
dal diritto comunitario, la sua fattibilità
sembra possibile, in quanto basterebbe indire, su
invito del Consiglio europeo, 25 referendum nazionali.
Più difficile sarebbe però attribuire
a tale referendum un valore vincolante.
Nel frattempo (e comunque in attesa che il futuro
del Trattato costituzionale risulti più chiaro)
la Francia ha proposto alcune innovazioni che si possono
già effettuare sulla base dei trattati esistenti,
in particolare quella di utilizzare le “disposizioni-passerella”,
per comunitarizzare alcune materie relative alla cooperazione
penale, giudiziaria e di polizia, al fine di rafforzare
la lotta al terrorismo ed alla criminalità.
Si discute anche della possibilità di coinvolgere
maggiormente i parlamenti nazionali nel controllo
del rispetto del principio di sussidiarietà
da parte delle istituzioni comunitarie.
Quelle sin qui analizzate sono prospettive di breve
periodo. Ma quando lo sguardo si sposta sul futuro,
e sulla destinazione finale del processo di integrazione
europea, emerge da più parti la consapevolezza
che due diverse visioni dell’Europa si confrontano
e scontrano ormai su ogni aspetto e difficilmente
consentiranno di progredire tutti assieme verso un’ulteriore
integrazione. Per tali ragioni si invocano in maniera
sempre più aperta le integrazioni differenziate.
Da un lato vi è la visione di un’Europa
sempre più integrata dal punto di vista economico
e politico, il cui traguardo è una federazione
di Stati-nazione, e dall’altra quella di una
zona, la più estesa possibile, con competenze
minime per garantire il libero scambio, la competizione
economica (e non l’integrazione) fra gli Stati
membri, un sostegno alla Nato e una cooperazione con
gli Stati Uniti in materia di lotta al terrorismo.
Questa seconda visione mira al costante allargamento
dell’Unione, anche per impedire l’approfondimento
dell’integrazione. La prima visione, propugnata
dal Regno Unito, inizialmente minoritaria, si trova
oggi, a seguito dell’ultimo (ma anche già
dal penultimo) allargamento, in maggioranza all’interno
delle istituzioni intergovernative (Consiglio e Consiglio
europeo).
Le varie revisioni dei trattati istitutivi hanno
via via cercato di contemperare queste due visioni,
per cercare di accontentare tutti. Il risultato è
però sempre meno coerente e finisce con non
accontentare nessuno, proprio perché il progetto
complessivo sul futuro dell’Europa rimane ambiguo
e poco chiaro agli occhi dei cittadini.
Il tema dell’integrazione differenziata non
è nuovo nella storia dell’Unione europea,
ma ora sta divenendo centrale nel dibattito sul futuro
dell’Europa. La ragione è che è
sempre più difficile trovare compromessi coerenti
e persuasivi tra le due visioni dell’Europa.
Da un lato prosegue in alcuni Stati la spinta federalista,
recentemente ribadita da un libro di Guy Verhofstadt
che auspica la costituzione degli “Stati Uniti
d’Europa”.
D’altro canto, la sfida dei futuri allargamenti
solleva la questione della possibilità di trovare
modelli d’integrazione diversi dall’adesione
da proporre ai paesi dell’Europa orientale che
non sono ancora candidati, ma verosimilmente aspirano
ad esserlo. Emerge dunque una duplice domanda di integrazione
differenziata, sia nelle relazioni fra Stati membri,
creando delle avanguardie, sia nelle relazioni con
stati europei, con cu studiare forme di integrazione
diverse dall’adesione.
Nell’impossibilità di trovare un consenso
con le maggioranze previste dai trattati attuali,
vi sono alcuni strumenti che possono consentire ad
un gruppo di Stati membri di avanzare su una scala
più ristretta nel processo di integrazione.
Innanzitutto si può ricorrere ad uno strumento
previsto dai trattati e sin qui mai utilizzato: l’istituto
della cooperazione rafforzata, che consente di adottare
atti nel quadro istituzionale dell’Unione, ma
su scala ridotta (con un minimo di otto stati), con
l’obbligo di accettare qualunque stato comunitario
voglia successivamente aggiungersi. Vi è inoltre
la possibilità di fare ricorso a convenzioni
internazionali esterne ai trattati comunitari (come
fu per gli Accordi di Schengen e com’è
stato più recentemente per gli accordi di Pruem),
in questo caso non soggette ai vincoli della cooperazione
rafforzata.
Tuttavia, se l’obbiettivo è quello di
costituire un nucleo di avanguardia federale è
evidente che tali strumenti di per sé non bastano.
Essi infatti rischiano di frammentare l’integrazione
europea in tanti processi autonomi e scollegati (una
sorta di integrazione “a macchia di leopardo”),
aperti di volta in volta a Stati differenti.
Si potrebbe allora immaginare qualcosa di nuovo.
Uno strumento che permetta ad alcuni Stati volenterosi
di progredire verso gli “Stati Uniti d’Europa”.
Si può immaginare la conclusione di un patto
federatore fra alcuni Stati membri dell’Unione,
desiderosi di procedere verso la costituzione di uno
Stato federale . Questo accordo dovrebbe stabilire
i fini comuni e gli strumenti per realizzarli, prima
di tutto in seno all’Unione ed alle sue istituzioni.
L’accordo dovrebbe fissare delle modalità
di convergenza non unanimitarie per le decisioni in
seno al Consiglio Ue. Ove gli Stati federali non riescano
a promuovere le loro idee all’interno delle
istituzioni comunitarie e del quadro dell’Unione,
essi faranno ricorso alle cooperazioni rafforzate.
Se anche questo non fosse possibile, essi potranno
utilizzare gli strumenti della cooperazione internazionale.
Il tutto in un disegno federale coerente e trasparente.
In tal modo gli Stati Uniti d’Europa potrebbero
formare un blocco stabile, compatto ed integrato,
riunendosi prima delle sessioni del Consiglio per
concordare una posizione comune, su cui fare convergere
i loro voti in seno al Consiglio. Sarebbe, in altri
termini una sorta di patto di sindacato in seno alle
istituzioni. Una pratica forse non gradita agli altri
Stati membri, ma sicuramente legittima ai sensi dei
trattati vigenti (ed anche del Trattato costituzionale),
anche perché è ispirata a quanto già
accade per l’euro-gruppo.
In questo scenario l’avanguardia non si realizzerebbe
al di fuori o a fianco dell’Unione, ma all’interno
di essa: quello che si creerebbe sarebbero “gli
Stati Uniti nell’Europa” .
Non sarebbero necessarie né nuove istituzioni,
né una nuova burocrazia. Una convergenza fra
le amministrazioni nazionali, con un processo di consultazione
continuativa anche ai più alti livelli istituzionali,
come quella che già avviene a livello bilaterale
fra Germania e Francia, sarebbe sufficiente.
Il patto federatore potrà aprirsi a tutti
gli Stati che sottoscrivano l’obbiettivo federale,
ma nessuna diluizione dell’approfondimento dovrà
essere concessa in nome dell’allargamento (come
invece è accaduto sino qui).
Un simile scenario semplificherebbe enormemente anche
il problema dell’adesione di nuovi Stati. Se
all’interno dell’Unione attuale si costituisce
un’avanguardia (core-Europe), il cerchio
più esterno potrà allargarsi senza troppi
problemi, in quanto sarà formato da Stati più
propensi all’allargamento che all’approfondimento.
Entrambi i cerchi di questa Europa (quello interno,
federale, e quello esterno, comunitario) rimarrebbero
aperti a chi ne condivide i fini e si impegna a rispettarne
le regole.
Questo modello permette dunque di conciliare allargamento
ed approfondimento, senza sacrificare le diverse vocazioni
e senza condurre a compromessi incoerenti. Sicuramente
gli Stati che non partecipano al nucleo federale inizialmente
protesterebbero, ma non si vede come potrebbero impedire
agli altri di integrarsi reciprocamente attorno ad
un progetto che resterebbe comunque aperto a tutti.
Nel lungo periodo il nucleo federale potrebbe esercitare
sugli Stati membri dell’Unione quella stessa
attrazione che l’Unione stessa crea per gli
Stati terzi: in tal prospettiva gli Stati Uniti dentro
l’Europa potrebbero diventare gli stati Uniti
d’Europa.
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