Antisemitismo,
omofobia, populismo, razzismo, antieuropeismo. La Polonia
è stata dipinta, negli ultimi tempi, come la
grande malata dell’Ue, dal punto di vista dei
valori. Ma è un discorso semplicistico, secondo
Paolo Morawski, dirigente Rai e autore, insieme al fratello
Andrea, del libro Polonia mon amour. Dalle Indie
d’Europa alle Indie d'America (Ediesse 2006).
L’estrema destra e gli ultracattolici di Radio
Marija sono delle minoranze, e “il 64% dei polacchi
– ci spiega – secondo i sondaggi è
contento di stare in Europa”. Insomma la Polonia
come specchio dei mali del continente, come ha scritto
anche Gad Lerner su “la Repubblica”. Da
una parte un paese che alza la voce per contare di più,
dall’altra un’Europa in cui “il mercato
comune delle idee è abbastanza debole”,
e in cui soprattutto, conclude Morawski, “il muro
della cortina di ferro, quello che divideva le due Europe,
è rimasto ancora conficcato nelle teste”.
Nelle ultime settimane i media italiani hanno
fatto un ritratto tutto in negativo, allarmato, della
Polonia odierna. Antisemitismo, omofobia, populismo,
razzismo, antieuropeismo: Varsavia sembra oggi la sentina
di tutti i vizi del continente. Ma è proprio
così, o si è esagerato?
Gli episodi negativi vanno condannati, perché
preoccuparsi del destino degli altri paesi fa parte
integrante dell’europeizzazione. Al tempo stesso,
sì, credo che i media italiani abbiano esagerato.
Si parla di gruppi di estrema destra particolarmente
inquietanti, e poi in realtà, se li si va a contare,
si tratta di 300 persone, che su una popolazione di
38 milioni di abitanti è chiaramente una minoranza.
Lo stesso discorso può valere per Radio Marija.
Avrà un bacino d’ascolto di 3 milioni di
persone, ma per gran parte del giorno i programmi sono
composti da preghiere e riflessioni spirituali. E’
una radio di religione, in cui può capitare che
uno speaker o un commentatore esponga delle tesi negative.
Fenomeni da condannare, ma che vanno anche riportati
alle proprie proporzioni.
E a cosa è dovuta questa disinformazione
sulla Polonia?
Non si tratta solo di disinformazione, è un
problema di lunga durata. Il muro della cortina di ferro,
quello che divideva le due Europe, è anzitutto
rimasto conficcato nelle teste. I paesi dell’Est,
mentre cercavano di avvicinarsi all’Europa, hanno
fatto lo sforzo di aprirsi all’Ovest, e hanno
ad esempio recepito le 80mila pagine del know-how comunitario.
Ma l’Ovest, da parte sua, non sempre riesce ad
aprirsi. Magari il problema è anche linguistico,
perché l’ungherese e il polacco non sono
lingue semplici, ma non è solo quello, perché
molto spesso ci mancano gli strumenti. Faccio un esempio.
Quando parliamo di destra e di sinistra, utilizzando
categorie italiane non sempre riusciamo ad afferrare
esattamente cosa stia sotto alla realtà polacca.
Il partito conservatore dei fratelli Kaczynski, Legge
e Giustizia (PiS), ha fatto una campagna elettorale
tutta incentrata su temi sociali come la difesa dei
poveri e dei senza lavoro, su temi come la moralità
e la tradizione…
Un po’ come la destra storica italiana,
la destra sociale...
Una destra che però è anche sinistra.
E’ un discorso più complicato di quanto
sembri, perché in Polonia non esiste più
una sinistra. I postcomunisti, nell’ultimo periodo,
assomigliavano di più a dei partiti del nostro
centrodestra, quanto alla capacità di parlare
di marketing e di business. E’ vero che ci sono
coordinate simili che ci permettono di orientarci, ma
è anche vero che le etichette di “destra”
e “sinistra” ci pongono dei problemi quando
parliamo di Polonia.
Possiamo dire che a soli due anni dall’ingresso
nell’Ue i paesi dell’Est siano ancora considerati
figli di un dio minore?
Direi piuttosto che i paesi dell’Est pensavano
di trovare una certa Europa e se ne sono ritrovati un’altra,
disincantata, un po’ in crisi, dubbiosa e preoccupato,
che dice no al trattato costituzionale e che soprattutto
è meno aperta di quanto si credeva. Un’Europa
in cui tutti, mentre prima si preoccupavano del destino
comune, vanno oggi per conto proprio, difendono il proprio
interesse nazionale.
Insomma un’Europa che, nei difetti, è
più simile alla Polonia di oggi, se solo pensiamo
a come Varsavia ha difeso i privilegi che le sono stati
concessi dal trattato di Nizza...
Sì, ma purché si ammetta che Varsavia
non si è mossa diversamente dalla Gran Bretagna
e dalla Spagna, e che forse la Francia, già prima
del no al referendum, ha fornito esempi di un nazionalismo
eccessivo, e che la stessa Italia negli ultimi anni
si è allontanata dall’europeismo tradizionale.
Quindi da una parte c’è un Est che incontra
un’Europa cambiata, diversa da come se l’aspettava.
I polacchi erano convinti che gli europei guardassero
a loro ancora come ai polacchi di Solidarnosc, movimento
nei confronti del quale vigeva al tempo una vasta solidarietà
internazionale, e oggi non è più così.
E dall’altra parte, invece, gli europei dell’Ovest
non hanno accolto quelli dell’Est come se fossimo
ancora ai tempi di Solidarnosc.
Questo ci aiuta a spiegare il perché
dell’euroscetticismo polacco attuale…
E’ vero. Quando parliamo dell’euroscetticismo
polacco, dimentichiamo che questo paese, per arrivare
ad ancorarsi alle strutture euroatlantiche (la Nato
nel 1999 e l’Ue nel 2004), ha pagato un costo
sociale enorme. E’ transitato da un modello all’altro
senza avere né modelli né paracadute.
I polacchi ce l’hanno fatta, e però oggi
hanno dei tassi di disoccupazione alti e un forte malcontento
sociale. Ho l’impressione che un certo relativo
disamore dei polacchi verso l’Europa sia dovuto
soprattutto ai costi della transizione, ma c’è
anche un problema di psicologia collettiva. Se per 15-17
anni l’elite, la classe dirigente dice al paese
che l’obiettivo è ancorarsi alle strutture
euroatlantiche, è chiaro che alla fine di questo
processo la gente si chieda: va bene, finora avete parlato
solo di Europa e Nato, ma la Polonia che fine ha fatto?
E’ così che questa transizione ha bruciato
tutte le elite, sia postcomuniste sia post-Solidarnosc.
Tutti i grandi nomi, i grandi vecchi che hanno fatto
la transizione, ora o sono fuori dalla politica o sono
fuori dai giochi. Oggi emerge una nuova classe dirigente,
che però non sa muoversi così bene, e
che crede che alzando la voce si ottiene di più,
anche se non penso sia vero.
E che fine ha fatto l’altra Polonia,
quella europeista, laica e progressista, quella di Adam
Michnik?
Il 64% dei polacchi, secondo i sondaggi, è contento
di stare in Europa. Oggi c’è una nuova
classe politica rumorosa che, per differenziarsi dalla
vecchia classe dirigente che spingeva verso l’Europa,
ha assunto toni antieuropeistici. E usano questi toni
perché sono convinti che sia una chiave per contare
di più in Europa. Il discorso è “contare
di più”, e non “uscire dall’Europa”.
E così Varsavia conta di più?
Sicuramente non conta di più se va contro la
Germania e contro le minoranze. E nemmeno se continua
a non crearsi alleanze in Europa, a non fare mediazione
e compromessi, a non partecipare a progetti comuni.
Però oggi il mercato comune delle idee dell’Europa
è abbastanza debole, non sento grandi proposte
provenire dalla Francia, dall’Italia o dalla Gran
Bretagna. Non possiamo pretendere che i polacchi ci
risolvano tutto. Ci vorrebbe una proposta che agglutina
tutti quanti, e potrebbe essere quella dell’energia,
che è un problema che riguarda tutti.
E in quale campo la Polonia può fornire
un apporto indispensabile, un valore aggiunto, al futuro
dell’Ue?
Può fornirlo alla riconciliazione tedesco-polacca,
che rappresenterebbe un modello per l’Europa.
E’ iniziata nel 1965, ma va ancora portata a termine.
Come hanno fatto anche molti polacchi, anch’io
leggo in questa chiave il recente viaggio del Papa tedesco
in Polonia.
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