“L’allargamento a due anni di distanza:
un successo economico”. Il giudizio della Commissione
Europea non poteva essere più chiaro. Anche
nelle sue reticenze.
Il rapporto preparato in occasione del secondo anniversario
dell’entrata, avvenuta il primo maggio 2004,
dei dieci nuovi paesi dell’Europa centrale e
orientale nell’Unione, contiene già nel
titolo la risposta esclusivamente economica che la
Commissione ha voluto dare alle inquietudini che l’allargamento
passato e quelli futuri hanno suscitato e suscitano
tra i cittadini europei.
Il no francese e olandese alla Costituzione europea
è lì a ricordarlo, a ricordare che la
paura del minaccioso idraulico polacco pronto a sottrarre
al collega francese salario e garanzie ha giocato
un ruolo determinante nel bloccare l’integrazione
politica dell’Unione. Come dire: le due direttrici
fondamentali sulle quali si è mosso sin qui
il processo di costruzione europea, allargamento e
integrazione, sono entrati in rotta di collisione
portando l’Unione stessa all’impasse che
oggi sconta.
Il commissario all’allargamento Olli Rehn non
è lontano dal vero quando allo spettro dell’idraulico
polacco risponde, dati alla mano, che “gli scenari
catastrofici che sono stati immaginati non si sono
affatto realizzati”. I flussi migratori provenienti
dai nuovi 10 “sono stati in generale molto limitati”,
mentre i trasferimenti di attività, le delocalizzazioni,
sono stati “minimi”. Anche la concorrenza
fiscale, il dumping, in realtà si è
dimostrata più immaginaria che reale, in quanto,
pur essendo l’imposizione per le società
“il 10% più basso ad Est che a Ovest”,
le tasse indirette e i contributi sociali “stanno
erodendo questo vantaggio”.
Con una crescita media del 3,75% annuo tra il 1997
e il 2005, i nuovi dieci membri hanno ottenuto risultati
migliori dei quindici vecchi che si sono attestati
su una crescita del 2,5% nello stesso periodo. Certo
le disparità Est-Ovest sono innumerevoli, il
tasso di disoccupazione nei nuovi paesi membri si
aggira in media intorno al 13,4% contro il 7,9 dei
paesi Occidentali, ma a buon ragione, in una certa
misura, Joaquìn Almunia, commissario degli
affari economici e monetari, può sostenere
che “la riunificazione dell’Europa è
un successo sul piano economico”. Ha ragione
altresì a dire che “tutti traiamo vantaggio
dal miglioramento del tenore di vita dei cittadini
dei nuovi Stati membri” e che “le imprese
della Ue beneficiano di nuove opportunità commerciali,
rafforzano la loro efficienza e diventano più
competitive”. Ha ragione, Almunia, a ricordare
che “l’allargamento aiuta l’Unione
a far fronte al nuovo ordine economico mondiale”,
anche se per ora sembra più un desiderio che
una realtà. Il problema rimane quello politico
e istituzionale.
Il primo maggio di due anni fa, quando Repubblica
Ceca, Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania,
Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia entrarono in
un solo colpo a far parte dell’Unione, l’accento
venne messo sulla dimensione storica dell’avvenimento.
Certo, l’Europa tagliava un traguardo epocale,
si riconciliava con se stessa reintegrando paesi che
per mezzo secolo erano stati separati dalla cortina
di ferro; ma quanto si è ragionato nei mesi
seguenti sul cambiamento di natura dell’Ue?
L’Unione a venticinque – e l’anno
prossimo a ventisette con l’entrata di Romania
e Bulgaria – è la stessa di quella a
sei o a quindici? E se non lo è, di quale nuova
identità e di quali nuovi strumenti ha bisogno?
Cerchi concentrici, differenziazione, velocità
molteplici d’approfondimento. Un po’ di
realismo, l’unico in grado in questo momento
di riconciliare i due assi della costruzione europea,
allargamento e integrazione, sta riconquistando terreno
in giro per il Continente. Certo bisognerà
attendere che gli equilibri politici in singoli stati
come Francia e Italia si definiscano meglio o del
tutto per cominciare a costruire nuove alleanze e
veder nascere proposte concrete.
Per ora la Commissione ha preferito mettere l’accento
sul “successo economico dell’allargamento”
e rimanere reticente sullo scacco politico dello stesso.
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