298 - 05.05.06


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Stati Uniti d’Europa, l’utopia possibile
Daniele Castellani Perelli

Due cerchi concentrici: “Un nucleo politico, ossia gli ‘Stati Uniti d’Europa’ fondati sulla zona euro, con attorno una confederazione di paesi che potremmo definire ‘Organizzazione degli Stati europei’”. Di fronte al fallimento dei referendum olandese e francese, di fronte a un’Europa in crisi, al centro di “una tempesta non passeggera”, il premier belga Guy Verhofstadt rilancia il progetto dell’Europa politica. Lo fa in un libro dal titolo emblematico (Gli Stati Uniti d’Europa, Fazi Editore, pagine 80, 8,50 euro), in cui avverte: “E’ il progetto stesso dell’Ue che oggi viene messo in discussione”.

L’Europa politica è un sogno che era vivo già in letterati come Victor Hugo e in politici come Winston Churchill (che nel 1946 invocava “la necessità di una sorta di Stati Uniti d’Europa”) e Jean Monnet (“Abbiamo intrapreso un viaggio di sola andata per gli Stati Uniti d’Europa”). L’ex candidato alla presidenza della Commissione europea ricorda le sfide principali che stanno indebolendo il progetto europeo, dall’invecchiamento della popolazione alla concorrenza globale, dalla crisi dell’economia (tra il 1992 e il 2002 l’occupazione nella zona Euro è cresciuta del 6,5%, contro il 17% degli Usa) alle paure che si diffondono tra i cittadini del continente (l’idraulico polacco, l’allargamento, la perdita dei diritti assicurati dal modello sociale europeo).

Per rispondere a queste sfide, serve, secondo Verhofstadt, più Europa. Il suo messaggio non è del tutto federalista, come quando ammette, fedele al principio di sussidiarietà, che Bruxelles “deve lasciare agli Stati membri le questioni che possono affrontare meglio da soli”: “In determinati settori l’Unione è troppo presente. L’Ue non deve esprimersi in materia di cultura o di sport. Né deve intraprendere iniziative in settori quali la struttura dell’assistenza sanitaria, la previdenza sociale, l’istruzione, la gestione dei servizi pubblici o dell’apparato giudiziario”.

Nel libro abbondano, comunque, proposte concrete e coraggiose per una maggiore integrazione europea. Su temi decisivi come la pressione fiscale e la protezione sociale (rigidità del mercato del lavoro, lunghezza della carriera lavorativa), Verhofstadt auspica che sia Bruxelles a definire una “fascia di fluttuazione”, valori minimi e massimi cui devono attenersi le politiche degli Stati membri, un po’ come già succede con il patto di stabilità e di crescita. Chiede che si crei, all’interno della Commissione, un gabinetto socioeconomico, composto dai commissari competenti, che guidi la politica dell’Ue. Propone la nascita di un brevetto europeo, e che si sposti l’1% del Pil dalle imposte dirette a quelle indirette per aumentare l’occupazione.

Il capo dell’esecutivo liberal-socialista belga sottolinea l’importanza delle risorse finanziarie, del cui prelievo chiede la riforma: “Vanno aboliti i versamenti nazionali, calcolati in base al reddito interno lordo. Sarebbe preferibile ricavare le entrate dell’Unione dalle imposte sul consumo o dalle ecotasse. Come negli Usa, ogni famiglia deve poter vedere, ad esempio sullo scontrino fiscale, che percentuale delle tasse è destinata al finanziamento dell’Europa e quale alle casse dello Stato membro. Così tutti si renderanno conto di quant’è ridotto il bilancio europeo rispetto a quello dei singoli Stati, e sarà chiaro che l’Europa che naviga nell’oro è solo un mito”.

Europol, inoltre, dovrebbe diventare un ufficio d’investigazione europeo e Eurojust un tribunale europeo. L’“eurogergo” dovrebbe farsi più vicino ai cittadini: la commissione diventi “governo”, il “presidente del Consiglio europeo” diventi il “presidente dell’Europa”. Verhofstadt rilancia inoltre la necessità di una vera politica di difesa, con un esercito comune, e di una vera politica estera, con un ministro competente, con un seggio unico all’Onu e con un unico corpo diplomatico (un’ambasciata europea in ogni paese terzo). Le istituzioni siano più semplici: come in tutte le democrazie parlamentari il governo europeo dovrebbe ottenere la fiducia di un Parlamento bicamerale ed essere guidato da un presidente, il quale a sua volta dovrebbe essere eletto direttamente dai cittadini.

Il progetto è ambizioso e arduo, ma per confortare gli europeisti si può forse ricordare, come fa l’autore, che anche la federazione degli Stati Uniti non nacque in un giorno o senza ostacoli. La Costituzione entrò in vigore solo grazie all’articolo VII, che stabiliva che per l’approvazione bastava il sì di 9 dei 13 Stati, e per oltre un secolo gli Usa “furono governati sotto molti aspetti come una confederazione”. Fino al 1861 l’esercito federale americano non ebbe mai più di 15mila soldati, e nel 1929 “solo l’1% del Pil americano andò al governo federale”, un dato paragonabile alle risorse finanziarie dell’Ue nel 2005. Verhofstadt cita diversi rilevamenti di Eurobarometro, secondo cui i cittadini del continente vogliono più Europa, un’Europa più forte e più efficace: 3/4 dei cittadini vogliono una difesa comune, 2/3 una politica estera comune, una grande maggioranza invoca una Europa politica, una Costituzione e più poteri al Parlamento.

Sottotraccia si avverte, va detto, un atteggiamento vagamente retrò. Più che un protagonista dell’Europa a 25 (verso l’allargamento l’autore non spende mai parole di grande entusiasmo, neanche retoricamente), si sente che Verhofstadt, oltre ad essere un tipico europeista funzionalista (il metodo concreto dei piccoli passi), è anche in fondo un nostalgico dell’Europa dei 6, quell’Europa concreta, lenta ma solida del “nocciolo duro”. Nonostante questo particolare un po’ anacronistico, il suo manifesto non può che essere benvenuto, in un momento di crisi non solo dell’Europa, ma dello stesso dibattito intorno all’Europa.

“La via verso quest’Europa politica va nuovamente incoraggiata”, implora Verhofstadt. “C’è un grande bisogno di forti slanci e idee coraggiose per scuotere l’Europa”, gli fanno eco Giuliano Amato e Romano Prodi nella prefazione, invocando “visione, idee forti e uomini che abbiano la coscienza di cosa significa l’interesse comune europeo”. “E’ necessario che i paesi come l’Italia, tradizionalmente europeisti, ritornino ad essere protagonisti del suo rilancio”, spiegano, e dopo le elezioni nessuno più di loro possono far avverare quella speranza. “Si tratta forse dell’ultima grande Utopia: la nascita dell’Europa politica e democratica – concludono Amato e Prodi, in armonia con il manifesto di Verhofstadt – Si tratta di un progetto possibile”.

 

 

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