Il 2 febbraio scorso un commando palestinese ha
occupato gli uffici dell’Ue a Gaza. Intendeva
così protestare contro la pubblicazione, in
Francia, Danimarca e Norvegia, di vignette ritenute
oltraggiose nei confronti del profeta Maometto. Una
ventina di uomini armati, legati all’ala estremista
di Fatah e alla Jihad Islamica hanno dichiarato gli
uffici “chiusi fino a nuovo ordine”: “Proclamiamo
la sede dell’Ue chiusa fino a nuovo ordine e
diamo ai governi danesi, francese e norvegese 48 ore
di tempo per presentare le loro scuse”, affermò
allora il commando armato in un comunicato, minacciando
“di bombardare la sede dell’Ue, gli altri
uffici europei e le chiese” se le “provocazioni”
contro l’Islam fossero continuate.
C’è di che rallegrarsi. Per protestare
contro dei paesi europei, la Jihad ha pensato prima
di tutto a occupare la sede dell’Ue, e non le
singole sedi di Francia, Danimarca e Norvegia (come
in parte è successo dopo, anche con l’Italia,
perché il messaggio fosse ancora più
chiaro). E’ la testimonianza che l’Europa
esiste, è riconosciuta e conta qualcosa. I
commentatori non l’hanno notato, anche perché
molti di loro erano troppo occupati a trovare nuove
colpe da addossare all’Europa. Eppure, se sorvoliamo
un attimo sul riferimento alle “chiese”
(che sottintende una visione cristiana dell’Europa,
in curiosa sintonia con il Ppe e in barba all’estenuante
dibattito continentale che ha portato poi all’esclusione
del riferimento alle radici cristiane dal preambolo
della Costituzione), il comunicato della Jihad Islamica
avrebbe fatto la gioia di Altiero Spinelli e dei federalisti.
Nel chiasso della retorica euroscettica, la politica
estera dell’Unione Europea silenziosamente si
muove.
Non è un caso che questo riconoscimento istintivo
e per nulla diplomatico, dunque doppiamente significativo,
sia venuto in territorio palestinese. Negli ultimi
anni l’Ue ha intensificato il suo impegno nel
conflitto israeliano-palestinese, e non ci riferiamo
solo alla sua presenza nel Quartetto della road map,
insieme a Usa, Onu e Russia. I finanziamenti europei
sono sempre più decisivi per la vita quotidiana
del popolo palestinese. Nel solo 2005 il programma
Meda (il principale strumento finanziario dell’Ue
al servizio del partenariato euro-mediterraneo) ha
stanziato 70 milioni di euro a favore del fondo fiduciario
per la riforma della gestione delle finanze pubbliche,
gestito dalla Banca mondiale. La Cisgiordania e Gaza
hanno beneficiato di un sostegno finanziario pari
a 50,75 milioni di euro a titolo della linea di bilancio
‘Processo di pace’. Per far fronte all’urgente
fabbisogno di infrastrutture a seguito del disimpegno
da Gaza, l’Ue ha deciso anche di concedere un
contributo finanziario pari a 40,55 milioni di euro.
Oltre all’impegno per l’organizzazione
delle elezioni presidenziali, oltre ai 9 milioni di
euro destinati a varie iniziative sanitarie, didattiche
e culturali, si devono aggiungere gli aiuti d’urgenza,
alimentari e umanitari forniti dalla Commissione attraverso
diversi canali (Echo, Unwra, Ong), che nel 2005 hanno
raggiunto 120 milioni di euro. Ma la presenza europea
nell’area, ultimamente, si è fatta anche
fisica, umana. Da novembre è il personale Ue
(più precisamente, i Carabinieri guidati dal
generale Pietro Pistolese) a monitorare il valico
di Rafah, al confine tra Gaza e Egitto, un passaggio
cruciale presso il quale sono transitati senza problemi,
nei primi 3 mesi, oltre 100 mila palestinesi, con
grande vantaggio per l’economia e la vita quotidiana
dei palestinesi.
Viene così smentita la banale retorica dell’“Europa
assente”, dell’“Europa impotente
e intenta a guardare solo il suo ombelico”.
La politica estera dell’Ue, fondata più
sul soft power caro a Joseph Nye che sull’hard
power caro a George W. Bush, continua a raccogliere
successi. L’allargamento ad est, che presto
comprenderà anche la Turchia e gran parte dei
Balcani, è un limpido e pacifico esempio di
esportazione della democrazia. Il pur lento e zoppicante
processo integrativo dell’Ue sta ispirando interessanti
imitazioni nel Sud-Est asiatico (Asean) e in Africa
(Unione Africana). All’estero (che qui significa:
al di là delle frontiere dell’Europa)
si fa largo la consapevolezza dell’esistenza
dell’Unione, tanto che non sentirete più
molti intellettuali stranieri parlare di “Francia”,
“Germania” o “Italia”, ma
di “Europa” e “Unione Europea”.
Nonostante l’assordante silenzio mediatico
e programmatico del presidente della Commissione Josè
Manuel Barroso e dell’Alto rappresentante per
la politica estera Javier Solana (troppo spesso sonnacchiosi
e assenti, incapaci persino di una gaffe che faccia
notizia), l’idea dell’Europa regge, in
attesa di “eroi” politici, e si registra
una diffusa richiesta e un diffuso bisogno internazionale
d’Europa. Inutile dire che questa richiesta
è parallela a quella di “meno America”,
e la cosa non deve preoccupare. Europa ed America
sono oggi due facce della stessa medaglia, l’Occidente.
E in questa fase, per il resto del mondo, l’Europa
del soft power e del dialogo è la faccia buona,
rispetto all’America di Bush.
Ma la sfida mediorientale dell’Ue è
appena iniziata. Sempre in territorio palestinese,
per il momento, le due facce dell’Occidente
giocano con Hamas al gioco dei “due poliziotti”,
come nei film americani. Davanti alla minaccia/occasione
rappresentata dagli integralisti al governo dell’Anp,
è motivata la sensazione che il gioco non funzionerebbe
più senza il poliziotto cattivo (Washington)
che minaccia di rompere ogni relazione e di congelare
tutti i fondi. E così il poliziotto buono (Bruxelles)
fa spesso la figura dell’ingenuo, quando si
ostina a chiedere “più dialogo”.
Ma oggi in realtà entrambi i poliziotti sono
ancora necessari. Senza la pazienza del poliziotto
buono, c’è il rischio che domani i palestinesi,
a corto di finanze, vadano a bussare alla porta di
Iran e Arabia Saudita (o magari, dopodomani, a quella
di al Qaeda). Ce ne rallegreremmo?
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