295 - 10.03.06


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L’Europa esiste. Lo dice la Jihad
Daniele Castellani Perelli

Il 2 febbraio scorso un commando palestinese ha occupato gli uffici dell’Ue a Gaza. Intendeva così protestare contro la pubblicazione, in Francia, Danimarca e Norvegia, di vignette ritenute oltraggiose nei confronti del profeta Maometto. Una ventina di uomini armati, legati all’ala estremista di Fatah e alla Jihad Islamica hanno dichiarato gli uffici “chiusi fino a nuovo ordine”: “Proclamiamo la sede dell’Ue chiusa fino a nuovo ordine e diamo ai governi danesi, francese e norvegese 48 ore di tempo per presentare le loro scuse”, affermò allora il commando armato in un comunicato, minacciando “di bombardare la sede dell’Ue, gli altri uffici europei e le chiese” se le “provocazioni” contro l’Islam fossero continuate.

C’è di che rallegrarsi. Per protestare contro dei paesi europei, la Jihad ha pensato prima di tutto a occupare la sede dell’Ue, e non le singole sedi di Francia, Danimarca e Norvegia (come in parte è successo dopo, anche con l’Italia, perché il messaggio fosse ancora più chiaro). E’ la testimonianza che l’Europa esiste, è riconosciuta e conta qualcosa. I commentatori non l’hanno notato, anche perché molti di loro erano troppo occupati a trovare nuove colpe da addossare all’Europa. Eppure, se sorvoliamo un attimo sul riferimento alle “chiese” (che sottintende una visione cristiana dell’Europa, in curiosa sintonia con il Ppe e in barba all’estenuante dibattito continentale che ha portato poi all’esclusione del riferimento alle radici cristiane dal preambolo della Costituzione), il comunicato della Jihad Islamica avrebbe fatto la gioia di Altiero Spinelli e dei federalisti. Nel chiasso della retorica euroscettica, la politica estera dell’Unione Europea silenziosamente si muove.

Non è un caso che questo riconoscimento istintivo e per nulla diplomatico, dunque doppiamente significativo, sia venuto in territorio palestinese. Negli ultimi anni l’Ue ha intensificato il suo impegno nel conflitto israeliano-palestinese, e non ci riferiamo solo alla sua presenza nel Quartetto della road map, insieme a Usa, Onu e Russia. I finanziamenti europei sono sempre più decisivi per la vita quotidiana del popolo palestinese. Nel solo 2005 il programma Meda (il principale strumento finanziario dell’Ue al servizio del partenariato euro-mediterraneo) ha stanziato 70 milioni di euro a favore del fondo fiduciario per la riforma della gestione delle finanze pubbliche, gestito dalla Banca mondiale. La Cisgiordania e Gaza hanno beneficiato di un sostegno finanziario pari a 50,75 milioni di euro a titolo della linea di bilancio ‘Processo di pace’. Per far fronte all’urgente fabbisogno di infrastrutture a seguito del disimpegno da Gaza, l’Ue ha deciso anche di concedere un contributo finanziario pari a 40,55 milioni di euro.

Oltre all’impegno per l’organizzazione delle elezioni presidenziali, oltre ai 9 milioni di euro destinati a varie iniziative sanitarie, didattiche e culturali, si devono aggiungere gli aiuti d’urgenza, alimentari e umanitari forniti dalla Commissione attraverso diversi canali (Echo, Unwra, Ong), che nel 2005 hanno raggiunto 120 milioni di euro. Ma la presenza europea nell’area, ultimamente, si è fatta anche fisica, umana. Da novembre è il personale Ue (più precisamente, i Carabinieri guidati dal generale Pietro Pistolese) a monitorare il valico di Rafah, al confine tra Gaza e Egitto, un passaggio cruciale presso il quale sono transitati senza problemi, nei primi 3 mesi, oltre 100 mila palestinesi, con grande vantaggio per l’economia e la vita quotidiana dei palestinesi.

Viene così smentita la banale retorica dell’“Europa assente”, dell’“Europa impotente e intenta a guardare solo il suo ombelico”. La politica estera dell’Ue, fondata più sul soft power caro a Joseph Nye che sull’hard power caro a George W. Bush, continua a raccogliere successi. L’allargamento ad est, che presto comprenderà anche la Turchia e gran parte dei Balcani, è un limpido e pacifico esempio di esportazione della democrazia. Il pur lento e zoppicante processo integrativo dell’Ue sta ispirando interessanti imitazioni nel Sud-Est asiatico (Asean) e in Africa (Unione Africana). All’estero (che qui significa: al di là delle frontiere dell’Europa) si fa largo la consapevolezza dell’esistenza dell’Unione, tanto che non sentirete più molti intellettuali stranieri parlare di “Francia”, “Germania” o “Italia”, ma di “Europa” e “Unione Europea”.

Nonostante l’assordante silenzio mediatico e programmatico del presidente della Commissione Josè Manuel Barroso e dell’Alto rappresentante per la politica estera Javier Solana (troppo spesso sonnacchiosi e assenti, incapaci persino di una gaffe che faccia notizia), l’idea dell’Europa regge, in attesa di “eroi” politici, e si registra una diffusa richiesta e un diffuso bisogno internazionale d’Europa. Inutile dire che questa richiesta è parallela a quella di “meno America”, e la cosa non deve preoccupare. Europa ed America sono oggi due facce della stessa medaglia, l’Occidente. E in questa fase, per il resto del mondo, l’Europa del soft power e del dialogo è la faccia buona, rispetto all’America di Bush.

Ma la sfida mediorientale dell’Ue è appena iniziata. Sempre in territorio palestinese, per il momento, le due facce dell’Occidente giocano con Hamas al gioco dei “due poliziotti”, come nei film americani. Davanti alla minaccia/occasione rappresentata dagli integralisti al governo dell’Anp, è motivata la sensazione che il gioco non funzionerebbe più senza il poliziotto cattivo (Washington) che minaccia di rompere ogni relazione e di congelare tutti i fondi. E così il poliziotto buono (Bruxelles) fa spesso la figura dell’ingenuo, quando si ostina a chiedere “più dialogo”. Ma oggi in realtà entrambi i poliziotti sono ancora necessari. Senza la pazienza del poliziotto buono, c’è il rischio che domani i palestinesi, a corto di finanze, vadano a bussare alla porta di Iran e Arabia Saudita (o magari, dopodomani, a quella di al Qaeda). Ce ne rallegreremmo?


 

 

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