287 - 28.10.05


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Ci vuole un
labour all’europea?
Luca Sebastiani

Modello francese o anglosassone? Danese o svedese? Più sociale o più liberale? Oppure, un po’ di questo con una parte di quello? Si potrebbe discuterne all’infinito: se funzioni meglio uno o l’altro, a partire da una realtà data o da un’astrazione modellata.

Il prossimo 27 e 28 ottobre, convocati dalla presidenza britannica dell’Unione europea, è proprio di questo che discuteranno i Venticinque in una riunione informale fortemente voluta dall’ospite di turno.

È stato Tony Blair a volere il summit: per cercare una via d’uscita al dibattito sull’avvenire del modello economico e sociale europeo di fronte alla mondializzazione e, in subordine, per una resa dei conti con i francesi riottosi ad accettare le lezioni economiche e pragmatiche del nuovo laburismo blairiano.

Il premier britannico, dopo aver segnato dei punti a proprio favore in giugno nel corso del Consiglio europeo, ora vuole consolidare la propria leadership sul Vecchio continente incassando nuovo consenso attraverso l’esibizione delle virtuose performance nazionali. Naturalmente lo show è rivolto principalmente ai paesi di recente adesione che, per allineare i propri standard economici e sociali a quelli euroccidentali, sono alla ricerca di valide ricette.

Alla fine di settembre, rivolgendosi al suo partito in occasione del congresso, Blair non ha lesinato chiarezza: “Noi, i laburisti, siamo gli artefici del cambiamento. Il malessere della Francia, l’angoscia della Germania non fanno per noi!”. Chiarissimo: il modello franco-tedesco segna il passo, noi funzioniamo e cresciamo.

Grande antagonista di quello anglosaxon, alleato con quello renano declinato alla tedesca, ora, sembra, in declino. Ma insomma, che cos’è il modello francese? Nicolas Sarkozy, presidente dell’Ump e ministro dell’Interno, lo vuole “rompere, Dominique De Villepin, primo ministro del governo francese, lo vuole mettere a punto, i socialisti riformare, ma di cosa si tratta con precisione?

Dopo l’ultima Guerra mondiale, l’idea – che del resto veniva da lontano – era chiara: lo Stato-provvidenza deve procurare al cittadino-lavoratore e alla sua famiglia un reddito differito al fine di proteggerlo dai rischi della vita. Il mezzo per farlo la Sécurité sociale. Le risorse complementari avrebbero sostenuto il consumo interno, quindi la crescita e l’occupazione.

Tutto ha funzionato fino al giungere della mondializzazione, quando motore della crescita, al fianco di quello interno, è diventato il mercato esterno, l’esportazione. Il costo del lavoro è improvvisamente diventato alto e le aziende hanno cominciato a mal sopportare gli oneri da versare per la coesione sociale e la protezione dei lavoratori. La competitività globale ha imposto delocalizzazione e nuovi contratti flessibili-precari. Gli attuali parametri negativi francesi – flebile crescita e disoccupazione – derivano da qui: una spesa sociale tendenzialmente in aumento e una diminuzione della competitività. In sostanza, secondo i detrattori, eccesso di rigidità e mancato adattamento alle dinamiche della globalizzazione.

L’idea economica è anche espressione di una visione dello Stato e della sua funzione che, per i francesi - socialisti o gollisti - è quella regolatrice, volta ad intervenire per proteggere la società e i suoi legami interni. È l’espressione della “volontà generale” e il suo garante, anche di fronte al liberismo che considera l’individuo unico responsabile del proprio stato e crea individualismo e atomizzazione.

Il “volontarismo” si traduce sul piano internazionale con la necessità di regolare la mondializzazione e le disparità che essa produce. E qui la visione francese scontra naturalmente con quella del premier inglese che, invece, pensa che l’unica cosa che funzioni sia “un’economia liberale e aperta, che s’adatti in permanenza per restare competitiva”. Europa politica contro zona di libero scambio, nocciolo duro contro allargamento annacquante, interventismo contro laissez faire.

Blair al summit potrà vantare risultati migliori, ma non chiuderà la partita con l’economia sociale del modello “renano”. I tedeschi alle scorse elezioni non hanno dato ad Angela Merkel, possibile alleata anglosassone, pieno mandato. Non hanno votato per lo spostamento degli equilibri interni all’Ue, ma per una certa continuità e ora la nuova cancelliera si ritrova le mani legate dalla Grande coalizione insieme ai social democratici.

In Francia bisognerà aspettare le prossime elezioni presidenziali del 2007 per capire cosa succederà, per vedere se prevarranno quelli che sostengono che il modello francese è da buttare e da iniettare con una più (Sarkozy) o meno (De Villepin) massiccia dose di liberalismo anglosassone, o, invece, quelli che vogliono riformarlo conservandolo (Ps).

Per ora il primo ministro inglese può incassare dichiarazioni come quella che rilasciò l’eurodeputato polacco Bronislaw Geremek in giugno dopo il Consiglio europeo: “Il modello sociale francese non ci permetterebbe di ottenere la crescita di cui abbiamo bisogno. Noi siamo troppo poveri per rifiutare la flessibilità liberale”.
Il modello inglese per ora esercita più attrazione, ma il confronto continuerà.

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