Modello francese o anglosassone? Danese o svedese?
Più sociale o più liberale? Oppure,
un po’ di questo con una parte di quello? Si
potrebbe discuterne all’infinito: se funzioni
meglio uno o l’altro, a partire da una realtà
data o da un’astrazione modellata.
Il prossimo 27 e 28 ottobre, convocati dalla presidenza
britannica dell’Unione europea, è proprio
di questo che discuteranno i Venticinque in una riunione
informale fortemente voluta dall’ospite di turno.
È stato Tony Blair a volere il summit: per
cercare una via d’uscita al dibattito sull’avvenire
del modello economico e sociale europeo di fronte
alla mondializzazione e, in subordine, per una resa
dei conti con i francesi riottosi ad accettare le
lezioni economiche e pragmatiche del nuovo laburismo
blairiano.
Il premier britannico, dopo aver segnato dei punti
a proprio favore in giugno nel corso del Consiglio
europeo, ora vuole consolidare la propria leadership
sul Vecchio continente incassando nuovo consenso attraverso
l’esibizione delle virtuose performance nazionali.
Naturalmente lo show è rivolto principalmente
ai paesi di recente adesione che, per allineare i
propri standard economici e sociali a quelli euroccidentali,
sono alla ricerca di valide ricette.
Alla fine di settembre, rivolgendosi al suo partito
in occasione del congresso, Blair non ha lesinato
chiarezza: “Noi, i laburisti, siamo gli artefici
del cambiamento. Il malessere della Francia, l’angoscia
della Germania non fanno per noi!”. Chiarissimo:
il modello franco-tedesco segna il passo, noi funzioniamo
e cresciamo.
Grande antagonista di quello anglosaxon,
alleato con quello renano declinato alla tedesca,
ora, sembra, in declino. Ma insomma, che cos’è
il modello francese? Nicolas Sarkozy, presidente dell’Ump
e ministro dell’Interno, lo vuole “rompere,
Dominique De Villepin, primo ministro del governo
francese, lo vuole mettere a punto, i socialisti riformare,
ma di cosa si tratta con precisione?
Dopo l’ultima Guerra mondiale, l’idea
– che del resto veniva da lontano – era
chiara: lo Stato-provvidenza deve procurare al cittadino-lavoratore
e alla sua famiglia un reddito differito al fine di
proteggerlo dai rischi della vita. Il mezzo per farlo
la Sécurité sociale. Le risorse
complementari avrebbero sostenuto il consumo interno,
quindi la crescita e l’occupazione.
Tutto ha funzionato fino al giungere della mondializzazione,
quando motore della crescita, al fianco di quello
interno, è diventato il mercato esterno, l’esportazione.
Il costo del lavoro è improvvisamente diventato
alto e le aziende hanno cominciato a mal sopportare
gli oneri da versare per la coesione sociale e la
protezione dei lavoratori. La competitività
globale ha imposto delocalizzazione e nuovi contratti
flessibili-precari. Gli attuali parametri negativi
francesi – flebile crescita e disoccupazione
– derivano da qui: una spesa sociale tendenzialmente
in aumento e una diminuzione della competitività.
In sostanza, secondo i detrattori, eccesso di rigidità
e mancato adattamento alle dinamiche della globalizzazione.
L’idea economica è anche espressione
di una visione dello Stato e della sua funzione che,
per i francesi - socialisti o gollisti - è
quella regolatrice, volta ad intervenire per proteggere
la società e i suoi legami interni. È
l’espressione della “volontà generale”
e il suo garante, anche di fronte al liberismo che
considera l’individuo unico responsabile del
proprio stato e crea individualismo e atomizzazione.
Il “volontarismo” si traduce sul piano
internazionale con la necessità di regolare
la mondializzazione e le disparità che essa
produce. E qui la visione francese scontra naturalmente
con quella del premier inglese che, invece, pensa
che l’unica cosa che funzioni sia “un’economia
liberale e aperta, che s’adatti in permanenza
per restare competitiva”. Europa politica contro
zona di libero scambio, nocciolo duro contro allargamento
annacquante, interventismo contro laissez faire.
Blair al summit potrà vantare risultati migliori,
ma non chiuderà la partita con l’economia
sociale del modello “renano”. I tedeschi
alle scorse elezioni non hanno dato ad Angela Merkel,
possibile alleata anglosassone, pieno mandato. Non
hanno votato per lo spostamento degli equilibri interni
all’Ue, ma per una certa continuità e
ora la nuova cancelliera si ritrova le mani legate
dalla Grande coalizione insieme ai social democratici.
In Francia bisognerà aspettare le prossime
elezioni presidenziali del 2007 per capire cosa succederà,
per vedere se prevarranno quelli che sostengono che
il modello francese è da buttare e da iniettare
con una più (Sarkozy) o meno (De Villepin)
massiccia dose di liberalismo anglosassone, o, invece,
quelli che vogliono riformarlo conservandolo (Ps).
Per ora il primo ministro inglese può incassare
dichiarazioni come quella che rilasciò l’eurodeputato
polacco Bronislaw Geremek in giugno dopo il Consiglio
europeo: “Il modello sociale francese non ci
permetterebbe di ottenere la crescita di cui abbiamo
bisogno. Noi siamo troppo poveri per rifiutare la
flessibilità liberale”.
Il modello inglese per ora esercita più attrazione,
ma il confronto continuerà.
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