281 - 13.07.05


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Dalla crisi può nascere
una nuova Europa
Franco Venturini con
Daniele Castellani Perelli

BRUXELLES. Quando in sala stampa si diffonde la notizia del fallimento del Consiglio europeo, Franco Venturini non si scompone. Europeista di lunga data (“ma qualche volta un po’ critico”), l’editorialista del Corriere della Sera non aveva coltivato illusioni sul successo del vertice. Apprezza l’impegno del Presidente di turno dell’Ue Juncker, un europeista tradizionale, ma non per questo non riconosce la grandezza di Blair, che un po’ tutti accusano di aver fatto fallire il Consiglio, ma del quale Venturini dice: “Ha ragione, quando chiede che il bilancio europeo venga ripensato. E’ assurdo che il 43% delle risorse vada all’agricoltura e che si prevedano tagli alle grandi infrastrutture, alla ricerca, all’educazione, a progetti come l’Erasmus”. I colleghi italiani lo accerchiano e gli chiedono un’impressione. La voce europea del primo quotidiano italiano segnala che i governi hanno ormai vinto sulla Commissione, e che le prossime elezioni in Francia e Germania potrebbero riportare al centro della scena le due vecchie potenze. Per il resto, la sfida tra due diverse idee dell’Europa, rappresentate da Chirac e da Blair, è solo all’inizio. E non tutto è perduto, anzi: “Io mi auguro e ritengo addirittura probabile che, dopo un periodo di grande sofferenza, rinasca un’Europa sicuramente diversa da quella che abbiamo conosciuto – avverte Venturini – a mio avviso un’Europa a diverse velocità, ma che sarà più europea di quella che si andava disegnando prima dei referendum”.

Facciamo un bilancio di questo Consiglio europeo, dall’accordo sulla necessità di una “pausa di riflessione” per la ratifica della Costituzione al fallimento sulle prospettive finanziarie 2007-2013.

Il bilancio è doppiamente negativo. Anche sulla Costituzione, quella che è stata chiamata ‘pausa di riflessione’ è in realtà soltanto una reazione difensiva davanti al non sapere cosa fare, e davanti al non voler dichiarare morto il trattato costituzionale. In effetti non è stato indicato cosa dovrebbe seguire alla pausa di riflessione, e dunque quando si lascia un open-end di questo genere si capisce che molto difficilmente i paesi che rinviano il referendum lo terranno successivamente. Non vedo come le condizioni possano migliorare, in particolare per quanto riguarda il referendum inglese, che mi sembra tramontato per sempre.

Lei ha vissuto molti consigli europei. Che sensazioni ha avuto in questo?

Seguo i consigli dalla fine degli anni Ottanta, in particolar modo sono stato presente a quelli che portarono al Trattato di Amsterdam, a Nizza, all’entrata in vigore dell’euro. Furono tutti drammatici, però si conclusero con un qualche tipo di risultato. Persino Nizza, nel 2000, che fu il summit peggiore, il più litigioso, che si prolungò fin quasi al mattino, si concluse con un compromesso. Ampiamente insoddisfacente, ma comunque non si dovette ammettere il fallimento. Questo è stato abbastanza traumatico, e se lo si somma con il no dei referendum francese e olandese si capisce che non siamo di fronte ad una crisi come le altre.

Ma già all’inizio di questo vertice c’era un’atmosfera diversa...

Sì, perché quando si arriva preceduti dal verdetto elettorale in Francia e Olanda le posizioni risultano radicalizzate e c’è poco entusiasmo. Diciamo che alcune volte l’Europa era riuscita a reagire a fatti esterni manifestando una sua volontà politica. Ad esempio nel primo giorno della guerra per il Kosovo l’Europa era riunita nel Consiglio di Berlino. C’era una certa tensione per la nomina del nuovo presidente della Commissione, e Prodi fu nominato in due ore. Ugualmente, quando l’Europa non riusciva a trovare un accordo sul trattato costituzionale, subito dopo ci fu un vertice all’indomani dell’attentato di Madrid, e gli europei ritennero di dover dare un segnale politico, e trovarono l’accordo sul trattato costituzionale. Questa volta poteva teoricamente verificarsi la stessa cosa. Si poteva sperare che venisse dato un segnale politico, proprio perché i referendum erano andati male. Non ce l’hanno fatta, il ché dimostra la profondità della crisi.

Possiamo dire che questa crisi è strettamente legata all’allargamento? Crede che ci sarà un rallentamento nell’ingresso di nuovi paesi?

Sì, sicuramente è la crisi dell’allargamento, perché questo ne è uno dei motivi principali. E non vedo come si possa continuare sul programma previsto, ad eccezione di ciò che è già irreversibile come l’ingresso di Romania e Bulgaria (che comunque potrebbero anche subire un ritardo) e della Croazia (quando risponderà alle richieste di piena collaborazione del Tribunale dell’Aja, e anche lì c’è un criterio che potrà essere usato per ritardare un po’). A parte questi tre paesi, quando si parla di Turchia e ancora di più quando si parla di Ucraina e Balcani, credo che prima di fare nuovi passi gli europei ci penseranno più di due volte.

Parliamo di personaggi. Quali sono i vincitori e gli sconfitti?

Credo in realtà che siano tutti un po’ sconfitti. Due un po’ più colpevoli e un po’ meno sconfitti degli altri, e parlo di Blair e di Chirac. Un po’ più colpevoli perché certamente è stata la loro intransigenza, sul rimborso finanziario britannico e sulla spesa per l’agricoltura francese, che ha creato il clima generale sfavorevole a qualsiasi concessione, e dunque incline al fallimento. Però sono anche un po’ meno sconfitti degli altri perché tornando a casa non avranno da vendere solo un fallimento, ma anche una sorta di vittoria nazionalistica, interna. Blair potrà dire: non ce l’hanno fatta, volevano toglierci il rebate, io ho resistito. Chirac potrà dire: volevano ridurci le spese agricole, e io ho resistito. Dunque paradossalmente i due maggiori colpevoli sono anche quelli che perdono di meno.

Siamo stati alla conferenza stampa di Blair, e il premier britannico ci è parso volare molto alto. Ha parlato di modernizzazione, globalizzazione. Era un modo per ammantare discorsi molto più bassi, molto più venali, oppure veramente la prima questione sul tavolo è che c’è un’idea dell’Europa completamente diversa, specialmente a livello economico e sociale, tra Blair e Chirac?

Io credo che siano autentiche tutte e due le cose. Credo che Blair abbia ragione, quando dice che il bilancio europeo, a prescindere dall’esito di questo vertice, va ripensato. In effetti pare assurdo che il 43% delle risorse europee venga dedicato all’agricoltura mentre lo stesso bilancio proposto, che poi non è stato approvato, prevedeva tagli alle grandi infrastrutture, alla ricerca, all’educazione, a progetti come l’Erasmus, che consente ai giovani di muoversi nei diversi paesi europei ed entrare in contatto con coetanei di altre lingue e culture. Il futuro dell’Europa effettivamente necessita di risorse abbondanti in questi settori. E’ impensabile tagliare la ricerca o l’educazione. E siccome non solo si vuole bloccare il tetto del bilancio, ma lo si vuole anche ridurre, bisogna fare una scelta drastica. O si continua a finanziare l’agricoltura europea, e allora si tagliano tutti questi programmi, oppure si modernizzano la spesa e gli investimenti europei e allora bisogna tagliare l’agricoltura. In questo, credo che Blair abbia ragione: il bilancio europeo va ripensato. Diversa è la questione del modello, di come ci si immagina cosa debba essere l’Europa. Indubbiamente i britannici hanno una visione molto liberoscambista e poco di più, non vedono l’Ue come uno sforzo di unità politica, nemmeno a piccoli gruppi. La gran parte degli altri, in particolare l’ex asse franco-tedesco (oggi unito alla Spagna, domani forse unito all’Italia), quelli che potremmo chiamare gli europeisti continentali tradizionali, si appoggiano a un progetto di Europa che è anche un progetto politico. E qui effettivamente la Manica divide due concezioni molto diverse.

A molti commentatori il presidente Barroso è parso debole, schiacciato dai primi ministri. Che giudizio dà della sua Commissione?

Non credo che sia un problema di Barroso. Credo che il problema sia la Commissione perché l’Unione nei momenti di crisi, tanto più adesso vista la gravità di quella attuale, tende a diventare sempre più intergovernativa. Quando lo diventa, l’importanza della Commissione diminuisce automaticamente. Dunque l’esecutivo ha spazio quando c’è un clima generale positivo, può mantenere l’iniziativa e può anche esercitare un’influenza sui governi. Ma quando questi scendono in trincea, la Commissione perde influenza, tende quasi a sparire.

Barroso però in trincea non sembra sappia portare l’elmetto, non sembra sappia entrare in battaglia.

Questo può darsi, però se pensiamo a grandi Commissioni del passato, a Delors o anche alcuni momenti della Commissione Prodi, c’è stato un rapido cambiamento della situazione. Credo che nessuno, alla testa della Commissione europea, oggi in questo vertice avrebbe potuto fare meglio, perché hanno comandato i governi, e in particolare quelli che non volevano fare concessioni.

E Juncker, il Presidente di turno, come le è sembrato? Chirac e Schroeder l’hanno definito entrambi “un grande presidente, un grande europeo”.

C’è questa sensazione che nella sfortuna europea Juncker sia probabilmente il miglior leader europeo di questo periodo. Però ahimè è il leader di un paese molto piccolo, anche se lui scherza e dice che dopo l’ingresso di Malta nell’Ue il Lussemburgo non è più il paese più piccolo dell’Unione. Credo comunque che come politico e leader sia giustamente apprezzato da tutti. Del resto se non c’è riuscito lui, verosimilmente nessun presidente di turno sarebbe riuscito a fare l’accordo.

Che ruolo ha avuto l’Italia in questo vertice? Non le pare che ci sia una differenza tra la posizione del premier Berlusconi e del ministro degli Esteri Fini?

L’Italia ha avuto un ruolo modesto, ma positivo. Era arrivata qui con delle lamentele per quanto riguarda i tagli ai fondi di coesione, che interessano il nostro Mezzogiorno ma alla fine si è mostrata molto incline al compromesso. Il nostro governo ha mostrato un atteggiamento piuttosto costruttivo e quindi non credo gli si possa imputare nulla della mancata riuscita del vertice.
Tra Berlusconi e Fini ci sono sicuramente delle diversità di accento. La linea del Ministro degli esteri è riconoscibile, più inserita nel dibattito europeo, mentre quella del Presidente del Consiglio qualche volta è difficile da captare: o è troppo generica, oppure subisce qualche sbandamento forse causato dalle posizioni che esistono all’interno della sua maggioranza. Direi che la linea di Fini è la più facile da seguire se si vuole dialogare (come dobbiamo) con gli altri protagonisti europei, e se vogliamo ritrovare in Europa un posto che negli ultimi anni abbiamo un po’ perduto, senza guadagnare altre posizioni.

Quali sono invece i protagonisti dell’Europa di domani? In Germania e in Francia stanno per entrare in campo, probabilmente, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy.

Io non so se saranno eletti loro, ma certamente i protagonisti del futuro saranno il nuovo Cancelliere tedesco e il nuovo Presidente francese. Questo comporta una difficoltà perché in Francia le elezioni avranno luogo nel 2007 e fino ad allora l’Europa non avrà una visione sicura o una capacità d’agire. Penso che malgrado l’indebolimento dell’asse franco-tedesco, Francia e Germania continueranno a essere elementi centrali almeno in quella seconda concezione europea di cui abbiamo parlato, e dunque le loro leadership, entrambe in via di rinnovo, saranno quelle determinanti.

Ma l’indebolimento dell’asse franco-tedesco non potrebbe indurre la Gran Bretagna a prendere la testa dell’Europa?

Io non credo che la Gran Bretagna possa prendere la testa dell’Europa. Anche se dal punto di vista strettamente economico i paesi dell’Est sono vicini all’idea britannica di affrontare la mondializzazione. Probabilmente Blair proverà a conquistare una sua leadership all’interno dell’Unione, ci ha sempre provato, ma può riuscirci solo quando francesi e tedeschi sono in crisi profonda, come oggi. Dunque ci potrà essere un periodo nel quale Blair farà valere le sue ragioni, prenderà la leadership, come ha detto, ma nel medio e lungo termine o l’Europa si disgrega definitivamente oppure tornerà ad essere prevalente un gruppo di paesi continentali.

Secondo Habermas l’opinione pubblica europea è nata il 15 febbraio 2003, con le manifestazioni contro la guerra in Iraq. Rifkin ha scritto ultimamente su Liberation che il referendum in Francia e Olanda non va letto in modo solo negativo, perché è stato comunque accompagnato da un ampio dibattito di massa sull’Europa. Esiste secondo lei un’opinione pubblica europea?

A parte il suo forse eccessivo ottimismo, credo che Habermas abbia ragione. Un’opinione pubblica europea esiste, lo si è visto proprio in occasione dell’Iraq, quando, mentre i singoli governi si dividevano, l’opinione pubblica europea è risultata invece uniforme senza essere coordinata. In Inghilterra, dove la divisione era attorno al 50%, c’era l’opinione pubblica più vicina alla posizione degli Stati Uniti, ma negli altri paesi le percentuali delle persone contrarie alla guerra raggiungevano punte molto alte. In questo senso abbiamo visto un’opinione pubblica europea che ha anticipato i governi e ha superato le spaccature che questi hanno dimostrato sulla crisi irachena.
Credo si sia trattato di un segnale importante che però, purtroppo, in questo momento è difficile da captare, perché le opinioni pubbliche europee si dividono su altre cose.

Per quanto riguarda i referendum credo anch’io che ci sia qualcosa di potenzialmente positivo in quello che, per adesso, è un disastro: prima di tutto si è aperto un dibattito di cui l’Europa aveva molto bisogno, in secondo luogo l’Europa, secondo me, stava declinando in silenzio in un clima di relativa soddisfazione, stava andando alla deriva, e andando verso quello sbocco auspicato da Blair attraverso gli allargamenti e le promesse di nuovi allargamenti. I referendum hanno posto brutalmente dei problemi che adesso dovranno essere affrontati. Io mi auguro e ritengo addirittura probabile che, dopo un periodo di grande sofferenza, rinasca un’Europa sicuramente diversa da quella che abbiamo conosciuto, magari un’Europa a diverse velocità, ma che sia più europea di quella che si andava disegnando prima dei referendum.

 

 

 

 

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