BRUXELLES. Quando in sala stampa
si diffonde la notizia del fallimento del Consiglio
europeo, Franco Venturini non si scompone. Europeista
di lunga data (“ma qualche volta un po’
critico”), l’editorialista del Corriere
della Sera non aveva coltivato illusioni sul
successo del vertice. Apprezza l’impegno del
Presidente di turno dell’Ue Juncker, un europeista
tradizionale, ma non per questo non riconosce la grandezza
di Blair, che un po’ tutti accusano di aver
fatto fallire il Consiglio, ma del quale Venturini
dice: “Ha ragione, quando chiede che il bilancio
europeo venga ripensato. E’ assurdo che il 43%
delle risorse vada all’agricoltura e che si
prevedano tagli alle grandi infrastrutture, alla ricerca,
all’educazione, a progetti come l’Erasmus”.
I colleghi italiani lo accerchiano e gli chiedono
un’impressione. La voce europea del primo quotidiano
italiano segnala che i governi hanno ormai vinto sulla
Commissione, e che le prossime elezioni in Francia
e Germania potrebbero riportare al centro della scena
le due vecchie potenze. Per il resto, la sfida tra
due diverse idee dell’Europa, rappresentate
da Chirac e da Blair, è solo all’inizio.
E non tutto è perduto, anzi: “Io mi auguro
e ritengo addirittura probabile che, dopo un periodo
di grande sofferenza, rinasca un’Europa sicuramente
diversa da quella che abbiamo conosciuto – avverte
Venturini – a mio avviso un’Europa a diverse
velocità, ma che sarà più europea
di quella che si andava disegnando prima dei referendum”.
Facciamo un bilancio di questo Consiglio
europeo, dall’accordo sulla necessità
di una “pausa di riflessione” per la ratifica
della Costituzione al fallimento sulle prospettive
finanziarie 2007-2013.
Il bilancio è doppiamente negativo. Anche sulla
Costituzione, quella che è stata chiamata ‘pausa
di riflessione’ è in realtà soltanto
una reazione difensiva davanti al non sapere cosa
fare, e davanti al non voler dichiarare morto il trattato
costituzionale. In effetti non è stato indicato
cosa dovrebbe seguire alla pausa di riflessione, e
dunque quando si lascia un open-end di questo genere
si capisce che molto difficilmente i paesi che rinviano
il referendum lo terranno successivamente. Non vedo
come le condizioni possano migliorare, in particolare
per quanto riguarda il referendum inglese, che mi
sembra tramontato per sempre.
Lei ha vissuto molti consigli europei. Che
sensazioni ha avuto in questo?
Seguo i consigli dalla fine degli anni Ottanta, in
particolar modo sono stato presente a quelli che portarono
al Trattato di Amsterdam, a Nizza, all’entrata
in vigore dell’euro. Furono tutti drammatici,
però si conclusero con un qualche tipo di risultato.
Persino Nizza, nel 2000, che fu il summit peggiore,
il più litigioso, che si prolungò fin
quasi al mattino, si concluse con un compromesso.
Ampiamente insoddisfacente, ma comunque non si dovette
ammettere il fallimento. Questo è stato abbastanza
traumatico, e se lo si somma con il no dei referendum
francese e olandese si capisce che non siamo di fronte
ad una crisi come le altre.
Ma già all’inizio di questo
vertice c’era un’atmosfera diversa...
Sì, perché quando si arriva preceduti
dal verdetto elettorale in Francia e Olanda le posizioni
risultano radicalizzate e c’è poco entusiasmo.
Diciamo che alcune volte l’Europa era riuscita
a reagire a fatti esterni manifestando una sua volontà
politica. Ad esempio nel primo giorno della guerra
per il Kosovo l’Europa era riunita nel Consiglio
di Berlino. C’era una certa tensione per la
nomina del nuovo presidente della Commissione, e Prodi
fu nominato in due ore. Ugualmente, quando l’Europa
non riusciva a trovare un accordo sul trattato costituzionale,
subito dopo ci fu un vertice all’indomani dell’attentato
di Madrid, e gli europei ritennero di dover dare un
segnale politico, e trovarono l’accordo sul
trattato costituzionale. Questa volta poteva teoricamente
verificarsi la stessa cosa. Si poteva sperare che
venisse dato un segnale politico, proprio perché
i referendum erano andati male. Non ce l’hanno
fatta, il ché dimostra la profondità
della crisi.
Possiamo dire che questa crisi è strettamente
legata all’allargamento? Crede che ci sarà
un rallentamento nell’ingresso di nuovi paesi?
Sì, sicuramente è la crisi dell’allargamento,
perché questo ne è uno dei motivi principali.
E non vedo come si possa continuare sul programma
previsto, ad eccezione di ciò che è
già irreversibile come l’ingresso di
Romania e Bulgaria (che comunque potrebbero anche
subire un ritardo) e della Croazia (quando risponderà
alle richieste di piena collaborazione del Tribunale
dell’Aja, e anche lì c’è
un criterio che potrà essere usato per ritardare
un po’). A parte questi tre paesi, quando si
parla di Turchia e ancora di più quando si
parla di Ucraina e Balcani, credo che prima di fare
nuovi passi gli europei ci penseranno più di
due volte.
Parliamo di personaggi. Quali sono i vincitori
e gli sconfitti?
Credo in realtà che siano tutti un po’
sconfitti. Due un po’ più colpevoli e
un po’ meno sconfitti degli altri, e parlo di
Blair e di Chirac. Un po’ più colpevoli
perché certamente è stata la loro intransigenza,
sul rimborso finanziario britannico e sulla spesa
per l’agricoltura francese, che ha creato il
clima generale sfavorevole a qualsiasi concessione,
e dunque incline al fallimento. Però sono anche
un po’ meno sconfitti degli altri perché
tornando a casa non avranno da vendere solo un fallimento,
ma anche una sorta di vittoria nazionalistica, interna.
Blair potrà dire: non ce l’hanno fatta,
volevano toglierci il rebate, io ho resistito.
Chirac potrà dire: volevano ridurci le spese
agricole, e io ho resistito. Dunque paradossalmente
i due maggiori colpevoli sono anche quelli che perdono
di meno.
Siamo stati alla conferenza stampa di Blair,
e il premier britannico ci è parso volare molto
alto. Ha parlato di modernizzazione, globalizzazione.
Era un modo per ammantare discorsi molto più
bassi, molto più venali, oppure veramente la
prima questione sul tavolo è che c’è
un’idea dell’Europa completamente diversa,
specialmente a livello economico e sociale, tra Blair
e Chirac?
Io credo che siano autentiche tutte e due le cose.
Credo che Blair abbia ragione, quando dice che il
bilancio europeo, a prescindere dall’esito di
questo vertice, va ripensato. In effetti pare assurdo
che il 43% delle risorse europee venga dedicato all’agricoltura
mentre lo stesso bilancio proposto, che poi non è
stato approvato, prevedeva tagli alle grandi infrastrutture,
alla ricerca, all’educazione, a progetti come
l’Erasmus, che consente ai giovani di muoversi
nei diversi paesi europei ed entrare in contatto con
coetanei di altre lingue e culture. Il futuro dell’Europa
effettivamente necessita di risorse abbondanti in
questi settori. E’ impensabile tagliare la ricerca
o l’educazione. E siccome non solo si vuole
bloccare il tetto del bilancio, ma lo si vuole anche
ridurre, bisogna fare una scelta drastica. O si continua
a finanziare l’agricoltura europea, e allora
si tagliano tutti questi programmi, oppure si modernizzano
la spesa e gli investimenti europei e allora bisogna
tagliare l’agricoltura. In questo, credo che
Blair abbia ragione: il bilancio europeo va ripensato.
Diversa è la questione del modello, di come
ci si immagina cosa debba essere l’Europa. Indubbiamente
i britannici hanno una visione molto liberoscambista
e poco di più, non vedono l’Ue come uno
sforzo di unità politica, nemmeno a piccoli
gruppi. La gran parte degli altri, in particolare
l’ex asse franco-tedesco (oggi unito alla Spagna,
domani forse unito all’Italia), quelli che potremmo
chiamare gli europeisti continentali tradizionali,
si appoggiano a un progetto di Europa che è
anche un progetto politico. E qui effettivamente la
Manica divide due concezioni molto diverse.
A molti commentatori il presidente Barroso
è parso debole, schiacciato dai primi ministri.
Che giudizio dà della sua Commissione?
Non credo che sia un problema di Barroso. Credo che
il problema sia la Commissione perché l’Unione
nei momenti di crisi, tanto più adesso vista
la gravità di quella attuale, tende a diventare
sempre più intergovernativa. Quando lo diventa,
l’importanza della Commissione diminuisce automaticamente.
Dunque l’esecutivo ha spazio quando c’è
un clima generale positivo, può mantenere l’iniziativa
e può anche esercitare un’influenza sui
governi. Ma quando questi scendono in trincea, la
Commissione perde influenza, tende quasi a sparire.
Barroso però in trincea non sembra
sappia portare l’elmetto, non sembra sappia
entrare in battaglia.
Questo può darsi, però se pensiamo a
grandi Commissioni del passato, a Delors o anche alcuni
momenti della Commissione Prodi, c’è
stato un rapido cambiamento della situazione. Credo
che nessuno, alla testa della Commissione europea,
oggi in questo vertice avrebbe potuto fare meglio,
perché hanno comandato i governi, e in particolare
quelli che non volevano fare concessioni.
E Juncker, il Presidente di turno, come le
è sembrato? Chirac e Schroeder l’hanno
definito entrambi “un grande presidente, un
grande europeo”.
C’è questa sensazione che nella sfortuna
europea Juncker sia probabilmente il miglior leader
europeo di questo periodo. Però ahimè
è il leader di un paese molto piccolo, anche
se lui scherza e dice che dopo l’ingresso di
Malta nell’Ue il Lussemburgo non è più
il paese più piccolo dell’Unione. Credo
comunque che come politico e leader sia giustamente
apprezzato da tutti. Del resto se non c’è
riuscito lui, verosimilmente nessun presidente di
turno sarebbe riuscito a fare l’accordo.
Che ruolo ha avuto l’Italia in questo
vertice? Non le pare che ci sia una differenza tra
la posizione del premier Berlusconi e del ministro
degli Esteri Fini?
L’Italia ha avuto un ruolo modesto, ma positivo.
Era arrivata qui con delle lamentele per quanto riguarda
i tagli ai fondi di coesione, che interessano il nostro
Mezzogiorno ma alla fine si è mostrata molto
incline al compromesso. Il nostro governo ha mostrato
un atteggiamento piuttosto costruttivo e quindi non
credo gli si possa imputare nulla della mancata riuscita
del vertice.
Tra Berlusconi e Fini ci sono sicuramente delle diversità
di accento. La linea del Ministro degli esteri è
riconoscibile, più inserita nel dibattito europeo,
mentre quella del Presidente del Consiglio qualche
volta è difficile da captare: o è troppo
generica, oppure subisce qualche sbandamento forse
causato dalle posizioni che esistono all’interno
della sua maggioranza. Direi che la linea di Fini
è la più facile da seguire se si vuole
dialogare (come dobbiamo) con gli altri protagonisti
europei, e se vogliamo ritrovare in Europa un posto
che negli ultimi anni abbiamo un po’ perduto,
senza guadagnare altre posizioni.
Quali sono invece i protagonisti dell’Europa
di domani? In Germania e in Francia stanno per entrare
in campo, probabilmente, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy.
Io non so se saranno eletti loro, ma certamente i
protagonisti del futuro saranno il nuovo Cancelliere
tedesco e il nuovo Presidente francese. Questo comporta
una difficoltà perché in Francia le
elezioni avranno luogo nel 2007 e fino ad allora l’Europa
non avrà una visione sicura o una capacità
d’agire. Penso che malgrado l’indebolimento
dell’asse franco-tedesco, Francia e Germania
continueranno a essere elementi centrali almeno in
quella seconda concezione europea di cui abbiamo parlato,
e dunque le loro leadership, entrambe in via di rinnovo,
saranno quelle determinanti.
Ma l’indebolimento dell’asse
franco-tedesco non potrebbe indurre la Gran Bretagna
a prendere la testa dell’Europa?
Io non credo che la Gran Bretagna possa prendere la
testa dell’Europa. Anche se dal punto di vista
strettamente economico i paesi dell’Est sono
vicini all’idea britannica di affrontare la
mondializzazione. Probabilmente Blair proverà
a conquistare una sua leadership all’interno
dell’Unione, ci ha sempre provato, ma può
riuscirci solo quando francesi e tedeschi sono in
crisi profonda, come oggi. Dunque ci potrà
essere un periodo nel quale Blair farà valere
le sue ragioni, prenderà la leadership, come
ha detto, ma nel medio e lungo termine o l’Europa
si disgrega definitivamente oppure tornerà
ad essere prevalente un gruppo di paesi continentali.
Secondo Habermas l’opinione pubblica
europea è nata il 15 febbraio 2003, con le
manifestazioni contro la guerra in Iraq. Rifkin ha
scritto ultimamente su Liberation che il
referendum in Francia e Olanda non va letto in modo
solo negativo, perché è stato comunque
accompagnato da un ampio dibattito di massa sull’Europa.
Esiste secondo lei un’opinione pubblica europea?
A parte il suo forse eccessivo ottimismo, credo che
Habermas abbia ragione. Un’opinione pubblica
europea esiste, lo si è visto proprio in occasione
dell’Iraq, quando, mentre i singoli governi
si dividevano, l’opinione pubblica europea è
risultata invece uniforme senza essere coordinata.
In Inghilterra, dove la divisione era attorno al 50%,
c’era l’opinione pubblica più vicina
alla posizione degli Stati Uniti, ma negli altri paesi
le percentuali delle persone contrarie alla guerra
raggiungevano punte molto alte. In questo senso abbiamo
visto un’opinione pubblica europea che ha anticipato
i governi e ha superato le spaccature che questi hanno
dimostrato sulla crisi irachena.
Credo si sia trattato di un segnale importante che
però, purtroppo, in questo momento è
difficile da captare, perché le opinioni pubbliche
europee si dividono su altre cose.
Per quanto riguarda i referendum credo anch’io
che ci sia qualcosa di potenzialmente positivo in
quello che, per adesso, è un disastro: prima
di tutto si è aperto un dibattito di cui l’Europa
aveva molto bisogno, in secondo luogo l’Europa,
secondo me, stava declinando in silenzio in un clima
di relativa soddisfazione, stava andando alla deriva,
e andando verso quello sbocco auspicato da Blair attraverso
gli allargamenti e le promesse di nuovi allargamenti.
I referendum hanno posto brutalmente dei problemi
che adesso dovranno essere affrontati. Io mi auguro
e ritengo addirittura probabile che, dopo un periodo
di grande sofferenza, rinasca un’Europa sicuramente
diversa da quella che abbiamo conosciuto, magari un’Europa
a diverse velocità, ma che sia più europea
di quella che si andava disegnando prima dei referendum.
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