Senza istituzioni e senza bilancio.
La crisi è servita. Nessun accordo sul budget
e processo di ratifica costituzionale rinviato alle
calende greche.
Il Consiglio europeo del 16 e 17 giugno ha solo sancito
una situazione di fatto. È stato il luogo su
cui tutte le tensioni degli ultimi anni sono confluite
e il punto di svolta che segna, per il momento, la
risoluzione della pluriennale guerra tra le due visioni
differenti e concorrenti dell’Europa: quella
franco-tedesca, con la sua visione di un’Europa
politicamente integrata e con un suo modello sociale
originale da esportare nel mondo, e quella anglosassone,
più liberale e più conforme alle leggi
esistenti della globalizzazione.
Il ciclo del “nocciolo duro” sembra concluso.
Imploso in virtù delle sue contraddizioni interne
e della sua incapacità di correggersi per perseguire
i propri obiettivi, ha lasciato la mano al concorrente,
che, sapientemente, ha spinto verso l’attuale
crisi per gestirne, da vincitore, le conseguenze.
Non c’è dubbio che il nuovo ciclo europeo
sarà più anglosassone, più blairiano.
I personaggi stessi che hanno rappresentato queste
posizioni a Bruxelles scontano le medesime tensioni
delle proprie visioni. Chirac, indebolito dal no francese
al referendum del 29 maggio sbattutogli in faccia
da una popolazione stanca di disoccupazione e incertezza,
è in una fase politica calante, non si presenterà
alle elezioni presidenziali del 2007 o, se lo farà,
le perderà. Schröeder, anche lui sanzionato
dagli elettori alle regionali del 22 maggio per la
crescente disoccupazione, si presenterà alle
elezioni politiche anticipate del prossimo ottobre
e probabilmente le perderà.
E Blair? Beh, lui aveva al Consiglio europeo, e ha
tuttora, almeno tre vantaggi sui suoi concorrenti.
Un terzo mandato rinnovatogli fresco fresco dagli
elettori, una situazione economica che sulla carta
sembra funzionare coniugando crescita e quasi piena
occupazione, e la presidenza di turno dell’Ue
per i prossimi sei mesi che gli permetterà
di gestire il futuro prossimo dell’Unione.
Il Presidente francese, a picco nei sondaggi interni
di gradimento dopo il 29 maggio, aveva anche questa
volta tentato la carta della politica estera per riconquistare
un po’ di lustro agli occhi dei suoi concittadini.
Gli era già riuscito con la posizione intransigente
contro la guerra in Iraq, momento in cui il suo prestigio
si era sollevato all’apice, in patria e all’estero.
Chirac aveva costruito sapientemente la sua strategia
d’attacco a Blair. Era da marzo che continuava
a definire “inaccettabile” e senza giustificazione
alcuna lo sconto sui contributi europei di cui i britannici
godono dal 1984. Intorno a lui era riuscito a compattare
la maggioranza dei Paesi Ue. Sembrava fatta: il fuoco
di 24 paesi puntato sui privilegi di uno.
Ma il premier inglese non si è fatto mettere
all’angolo e ha giocato la carta della Politica
agricola comune (Pac) - di cui sono i francesi a godere
i maggiori benefici - per non cedere sul ribasso e
mandare tutto all’aria. Carta pretestuosa che
gli ha permesso, altresì, di difendere la sua
visione dell’Europa: di un Europa che non può
più spendere la maggior parte del suo bilancio
in un settore arcaico come l’agricoltura, ma
che deve puntare invece su innovazione e ricerca.
È riuscito così a rinnovare lo scontro
simbolico tra la vecchia Europa e la nuova e più
moderna incarnata da lui stesso.
Nonostante un isolamento momentaneo che Blair dovrà
scontare per essere stato il responsabile del mancato
accordo sul bilancio – di cui subiranno le conseguenze
soprattutto i nuovi partner dell’Unione –
è comunque lui che ha vinto la battaglia. Alcuni
lo hanno già seguito, altri lo faranno ben
presto e a nulla serviranno le polemiche che Parigi
continua ad alimentare affermando che dietro gli attacchi
alla Pac si profila la vecchia idea britannica di
ridurre l’Unione europea ad una semplice zona
di libero scambio. È senz’altro vero,
ma quello inglese sembra a quest’altezza il
modello più funzionale alla crescita e all’occupazione
e c’è da immaginare che al momento di
scegliere in molti preferiranno questi dati a quelli
francesi (disoccupazione oltre il 10% e crescita prevista
di uno striminzito 1,5% secondo l’Istituto nazionale
di statistica).
I francesi intanto dovranno occuparsi di sanare il
degrado economico interno per poi proporsi all’esterno
come esempio e stanno già cercando di farlo
con il nuovo governo di Dominique de Villepin, che
esibisce un grande impegno in materia, anche se per
adesso senza risultati degni di nota. Probabilmente
il futuro francese sarà compito di un altro
Presidente, Jacques Chirac, infatti, ha imboccato
definitivamente, con l’ultima sconfitta bruxellese,
il viale del tramonto politico.
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