BRUXELLES. Il corpo dell’Europa
è il corpo di Joschka Fischer. Il ministro
degli Esteri tedesco, l’ex maratoneta, il politico
che nel maggio 2000 lanciò il progetto di una
Costituzione per l’Ue, ora, a Consiglio europeo
appena fallito, tossisce al fianco del Cancelliere
Schroeder. La giacca si gonfia come una vela, e il
suo corpo affaticato e terribilmente ingrassato è
il simbolo della grave crisi del sogno europeo. E’
venerdì 17 giugno. Dopo aver deciso che è
salutare “una pausa di riflessione” nel
processo di ratifica della Costituzione, i capi di
Stato e di governo non raggiungono un accordo sul
bilancio dell’Unione. “E’ colpa
della Gran Bretagna – si indignano i franco-tedeschi
– Per difendere il vecchio ‘sconto’
ottenuto nel 1984 dalla Thatcher, Blair non ha accettato
il compromesso”. Ma la faccenda è molto
più complicata.
Alla conferenza stampa della Germania, attorno a
noi ci sono solo giornalisti tedeschi. L’ex
locomotiva del continente non tira più. Schroeder
esibisce un broncio depresso, e non esita a dare le
colpa del fallimento a quel Tony Blair che “vuole
solo un mercato, e non una politica europea”.
In presunta polemica col britannico, il Cancelliere
difende a spada tratta “la solidarietà
dello Stato sociale europeo”, anche se in Germania
un bel gruppetto di deputati della sinistra della
Spd, per protesta contro le sue riforme “liberiste”,
ha appena fondato un altro partito.
Nella stanza affianco, stracolma, è appena
cominciato lo show di Jacques Chirac. Il Presidente
è da mesi sulla via del tramonto, eppure è
ancora un gigante. Come un monarca solitario, dà
lui la parola ai giornalisti (“Madame…,
Monsieur…”), risponde energico, e usa
un linguaggio d’altri tempi (“Voi avete
sottolineato a giusto titolo”). Non ha peli
sulla lingua, Jacques Chirac: definisce la politica
agricola “una politica moderna e del futuro”,
e chi non lo capisce, come Blair, “dà
prova d’ignoranza”. Quando il cronista
del Financial Times prende parola, un brusio
malizioso serpeggia nella sala, e Monsieur le President
lo cavalca: risponde secco e ironico, come parlasse
a un emissario di Blair. Francia e Germania hanno
coordinato la strategia: ambedue esaltano il presidente
di turno dell’Ue Juncker, danno la colpa del
fallimento a Blair, sottolineano con toni patetici
l’ultimo generoso tentativo dei paesi dell’Est,
che pur di trovare un accordo si sono offerti all’ultimo
di pagare di tasca propria. Per Chirac, come per Schroeder,
con Blair vince una “visione indebolita dell’Europa”.
Ma i due sono leader a tempo: prima o poi Nicolas
Sarkozy e Angela Merkel li spazzeranno via dalla scena.
Quando Blair comincia a parlare non c’è
più nemmeno un posto in piedi. Ha lo stesso
piglio vigoroso di Chirac. Ma è molto più
convincente e perfino più appassionato, e non
usa un linguaggio tratto da Stendhal. “Non siamo
sulla via di diventare l’economia più
dinamica del mondo, come voleva l’agenda di
Lisbona”, e poi vola alto ed elegante, anche
se quando esce dalla sala con lo scudiero Straw ha
sulle labbra un sorriso quasi macabro, fuori luogo.
Davanti al suo apparente atteggiamento thatcheriano,
si ha la tentazione di urlargli il grido degli operai
britannici, che gli rimproverano di essere diventato
un ‘blue’, un conservatore (“Tony
Blair, shame on you, shame on you for turning blue”).
Ma il pensiero si spegne davanti al dilemma: e se
Blair avesse ragione?
Se credergli fino in fondo è un esercizio
estremo di ingenuità, banalizzare la sua posizione
è ancora più sbagliato. Se ne accorge
sette giorni dopo anche l’ultimo bastione istituzionale
dell’europeismo, il Parlamento europeo. Dopo
essersi spellato le mani per Juncker (che un quotidiano
ha definito “l’ultimo federalista”),
l’emiciclo di Bruxelles tributa un identico
scroscio di applausi allo stesso Blair, il Presidente
di turno entrante, sulle cui spalle il giorno prima
anche Juncker ha addossato la colpa del fallimento
del vertice. E’ in questo doppio applauso, apparentemente
contraddittorio, che sta la chiave per capire l’Europa
di oggi. Il Parlamento ha sentito che finalmente l’Europa
è percepita degna di una vera battaglia d’idee
tra veri leader continentali. Non importa se abbia
ragione Juncker o Blair. Importa che, sulla scia dell’ampio
dibattito che in Francia ha accompagnato il referendum
sulla Costituzione, l’Europa abbia la volontà
di mettersi in discussione, pronta a ripartire.
Daniel Cohn-Bendit e Graham Watson incalzano Blair
con stile e grinta. Il leader dei Verdi non crede
al suo presunto europeismo, e il capo dei liberali
lo invita a passare ai fatti (“Se vuole davvero
cambiare l’Europa, lo dimostri. Show it!”).
La democrazia europea è in cammino. Blair replica
alternando una contagiosa simpatia a argomenti inoppugnabili.
Secondo Juncker, Chirac e Schroder, le due visioni
d’Europa in campo sarebbero quella meramente
liberoscambista di Blair e quella più profondamente
politica dell’Europa continentale. Ma Blair
non ci sta, e ribatte che in ballo sono due visioni
diverse dell’economia, forse nemmeno così
distanti. Blair si definisce un “europeista
appassionato, da sempre”: “Io credo in
una Europa come progetto politico. Credo in una Europa
con una forte e solidale dimensione sociale. Non accetterei
mai una Europa che sia solo un mercato economico”.
Poi il premier laburista attacca il modello sociale
europeo tradizionale: “Ditemi: che tipo di modello
sociale è quello che ha 20 milioni di disoccupati
in Europa, tassi di produttività inferiori
a quelli americani, meno laureati dell’India
in materie scientifiche, e indietreggia in ricerca
e sviluppo, brevetti e tecnologie delle comunicazioni?”.
Rivendica i suoi successi sociali interni, dal programma
contro la disoccupazione agli investimenti per i servizi
pubblici, dal salario minimo alla lotta alla povertà
infantile. Altro che “visione indebolita dell’Europa”,
altro che modello ultraliberista. Blair parla di “futuro”,
“opportunità”, di “idee che
sopravvivono attraverso il cambiamento”, di
un’Europa più vicina ai cittadini. “In
ogni crisi c’è un’occasione. Ce
ne è una qui per l’Europa, ora, se abbiamo
il coraggio di coglierla”, aggiunge Blair, e
poi lancia l’ultima sfida: “C’è
una crisi di leadership politica. Viviamo in un’era
di profondi sconvolgimenti. Il popolo europeo è
preoccupato dalla globalizzazione, dalla sicurezza
del lavoro, dalle pensioni e dagli standard di vita.
Questo è un momento di decisioni per l’Europa.
Il popolo ci parla, ci pone domande, chiede una leadership.
E’ tempo di dargliela”.
La Commissione europea, come spiega in privato un
autorevole eurodeputato italiano, è inesistente.
L’asse franco-tedesco è a pezzi. Oggi
sulla scena continentale si staglia solo lui, Tony
Blair. Dall’applauso che gli riserva il Parlamento,
si capisce che la sua opera di seduzione è
riuscita. Sarà in grado ora di spingere il
Continente verso le riforme, perché l’economia
traini il consenso dei cittadini verso il progetto
comunitario e la Costituzione? Riuscirà a far
approvare un budget europeo più moderno, a
portare dalla propria parte i paesi dell’Est
e l’asse franco-tedesco? Gli sta davvero così
a cuore l’Europa, o Bruxelles è solo
l’ennesimo strumento della sua ambizione?
Forse Blair ci ha preso in giro, ha solo voluto strappare
qualche applauso prima delle vacanze: “E’
il solito vecchio affascinante e scaltro Tony –
avrà pensato qualcuno – Il vecchio ‘Phony
Tony’, ‘Tony B-liar’, forse non
proprio bugiardo o falso, ma perlomeno un po’
troppo furbetto, come sulle armi di distruzione di
massa in Iraq”. Ma non è da escludere,
invece, che l’Europa abbia trovato il leader
del suo futuro, un leader mai visto. Vive a Londra,
ha un sorriso smagliante, una moglie in carriera e
quattro figli. Gioca a tennis, va in piscina la domenica
dopo la messa, ed è un ragazzo molto ambizioso.
Sogna di portare la democrazia in Iraq e di salvare
l’Africa dalla povertà. Anche se non
tutti gli credono, tra i suoi personali millenium
goals ne ha appena aggiunto uno: secondo semestre
2005, salvare l’Europa da se stessa.
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