L’Unione europea è in panne. Il no al
progetto di Trattato costituzionale pronunciato forte
e chiaro dai francesi – seguito da quello degli
olandesi – ha sortito gli effetti prevedibili
e auspicati dai becchini della Carta: tumulazione
del testo e crisi politica. Il progetto dei militanti
del no di sinistra si è realizzato però
solo sin qui: nessuna Costituzione “più
sociale” sarà negoziata e uno spazio
economico di libero scambio continuerà, invece,
ad esistere a tempo indeterminato con le regole vigenti.
Del resto erano in pochi a credere all’esistenza
di un piano B.
La crisi aperta dal no francese è una crisi
di prospettive che lascia un vuoto politico che sarà
riempito dall’esistente e di cui profitterà
non il piano B, ma mister B, Blair. Del resto il premier
inglese ha già cominciato ad attivarsi per
trarre il massimo vantaggio dalla situazione. Ha seppellito
il referendum interno sulla Costituzione – che
avrebbe probabilmente perso – accelerando la
morte del comatoso Testo e ha voltato pagina candidandosi
alla carica di capofila di una nuova stagione della
costruzione europea, più inglese, più
anglosassone. Lo si è capito dalle parole usate
da Gordon Brown, ministro inglese dell’economia,
che nel presentare il programma della presidenza britannica
dell’Unione ha spiegato che “solo un’Europa
che leghi flessibilità ed equità sul
mercato del lavoro, che incoraggi impresa e innovazione
e apertura al commercio può trovare una nuova
via verso la giustizia sociale nell’epoca della
mondializzazione”.
Dopo il 29 maggio le condizioni sembrano più
che favorevoli a mister B per espandere sul continente
l’egemonia del suo modello. Il mitico nocciolo
duro, l’unico avversario credibile, l’asse
franco-tedesco promotore di un’Europa politicamente
integrata e di un’economia sociale di mercato
attenta alla protezione del lavoro, sembra infatti
entrata in una fase nettamente declinante. Il referendum
ha indebolito enormemente i francesi, mentre a Schroeder
ci hanno pensato gli elettori dei lander
della Renania e Westfalia che il 22 maggio scorso
gli hanno inflitto la bruciante sconfitta elettorale
che lo ha indotto a convocare le elezioni anticipate
di ottobre che probabilmente perderà.
La Vecchia Europa ha perso e la giovane, anglosassone
e atlantista, ha vinto? I giochi non sono chiusi,
ma di certo i secondi godono di migliore salute dei
primi, da tutti i punti di vista. Il modello renano
sembra inceppato da tempo e il referendum in Francia
ne ha solo disvelato, se ancora ce n’era bisogno,
tutte le contraddizioni.
Tutti gli analisti sono concordi nel ritenere quel
voto una manifestazione di protesta contro la disoccupazione
di massa e le crescenti disuguaglianze, le responsabilità
delle quali i francesi – confortati dai discorsi
dei partigiani del no - hanno attributo all’Europa.
Da qui il rifiuto della Costituzione “liberale”
per difendere il modello “sociale” francese.
Ma è l’Ue che produce disoccupazione?
A guardare i dati non si direbbe affatto, dato che
non in tutti i paesi europei sembra essere il male
maggiore. Se la Francia è piazzata al ventunesimo
posto nella classifica dei tassi di disoccupazione
dell’Unione con il suo 10% – seguita da
Spagna, Grecia, Polonia e Slovacchia – altri
Stati, come Irlanda, Danimarca, Gran Bretagna, Austria
e Svezia, sono in una situazione di quasi pieno impiego.
Lo stesso dicasi per la crescita. Se la Francia nel
2004 ha avuto un +2,3% e ben cinque paesi se la sono
passata male con una crescita inferiore al 2% (Italia,
Germania, Malta, Portogallo, Olanda), dall’altra
parte ci sono state quindici performance che hanno
superato un buon 3%.
Certo, con questi risultati sarà difficile
convincere i cittadini europei ad accettare il modello
francese. In un certo senso i francesi stessi lo hanno
rifiutato credendo di difenderlo.
La vecchia Europa, però, è ancora in
grado di suscitare grandi speranze e mobilitare la
coscienza e l’identità del continente,
lo si è visto durante la vicenda irachena e
si avrà modo di costatarlo in futuro. Forse
quello che manca al sogno europeo – come lo
chiama Rifkin - per diventare una realtà attraente
e espansiva, è un’efficace politica di
crescita e occupazione.
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