La crisi aperta dai no francese ed olandese alla
ratifica del Trattato costituzionale è senz’altro
una delle più gravi (forse la più grave
dopo il fallimento della Comunità europea di
difesa del 1954) che il processo di integrazione europea
abbia mai attraversato. E’ inutile e pericoloso
minimizzarla, procedendo come se (quasi) nulla fosse
successo. Affermare che non esistono “piani
B” purtroppo non sarà sufficiente per
resuscitare il “piano A”. E soprattutto,
come ha osservato al Commissaria Margot Wallstrom,
occorre passare al “piano D, come Democrazia”,
evitando che il destino del Trattato costituzionale
sia deciso con scelte incomprensibili agli elettori.
Quando la Costituzione europea è stata firmata
l’ipotesi che qualche Stato non la ratificasse
già appariva realistica. Astrattamente, a seconda
dei paesi che l’avessero rifiutata, potevano
immaginarsi diversi scenari: cooperazioni rafforzate,
cooperazioni internazionali, applicazioni informali
della costituzione, protocolli di opting out,
recesso dai trattati esistenti e conclusione di accordi
di parternariato privilegiato (ho analizzato tali
possibilità in un articolo sulla Revue
Trimestrielle de Droit Europèen 4/2004).
E’ successo, in passato, che Danimarca e Irlanda
rifiutassero, rispettivamente, i Trattati di Maastricht
e di Nizza. Ma si trattava di casi isolati, ed è
stato sufficiente aggiungere qualche protocollo o
dichiarazione ai Trattati per far loro cambiare idea.
Tuttavia questi scenari erano pensati immaginando
che i Paesi che avrebbero respinto la Costituzione
sarebbero probabilmente stati il Regno Unito o la
Danimarca, vale a dire Paesi tradizionalmente refrattari
al processo di integrazione europea. L’idea
era infatti che vi fosse pur sempre un nucleo di testa
di Paesi che volessero proseguire nel cammino dell’integrazione
costituzionale.
Il no francese sembra però rappresentare un
ostacolo quasi insormontabile non solo all’entrata
in vigore della Costituzione (o almeno di questa costituzione),
ma anche alla praticabilità di tutti gli scenari
alternativi basati sulle integrazioni differenziate.
La Francia infatti è stata da sempre, assieme
alla Germania (e sino ai tempi non lontanissimi anche
all’Italia) il motore del nucleo di testa dell’integrazione
europea. Dopo il no francese ci si deve chiedere se
è ancora possibile un’avanguardia che
porti avanti la Costituzione.
Certo è giusto sostenere che il processo di
ratifica da parte degli altri stati possa e debba
andare avanti, così come prevede il diritto
internazionale. Un interessante articolo di Greco
e Tosato, presentato recentemente allo IAI, perora
questa soluzione, ritenendo che un obbligo in tal
senso derivi anche dalla dichiarazione n.30 allegata
al Trattato costituzionale, ai sensi della quale,
se dopo due anni dalla firma di questo (novembre 2006)
i quattro quinti degli Stati membri (20, allo stato
attuale) abbiano ratificato ed altri abbiano invece
incontrato difficoltà a completare il processo
di ratifica, la questione sarà deferita al
Consiglio europeo. Forse è inutile disquisire
sul valore giuridico di tale dichiarazione (atto di
per sé non vincolante, per giunta allegato
ad un trattato non in vigore), perché il Consiglio
europeo non ha bisogno di alcuna autorizzazione per
riunirsi ed affrontare un problema.
Sicuramente, al più tardi nei tempi previsti
dalla Dichiarazione, esso si riunirà. Potrebbe
comunque affrontare la questione anche prima, ad esempio
per invitare tutti gli altri stati a completare il
processo di ratifica.
Ma è bene non illudersi sui poteri del Consiglio
europeo. Sicuramente non potrà sostituire la
propria voce a quella dei popoli che hanno detto no:
né il diritto europeo, né le costituzioni
nazionali, né infine i principi elementari
della democrazia glielo consentirebbero.
Bisogna prendere atto che abbiamo già oggi
un’Europa dei “si” e un’Europa
dei “no” ed è immaginabile che
questo divario si allarghi ulteriormente con le nuove
consultazioni. Si dovrà affrontare il seguente
problema: non si può far finta che nulla sia
successo, ignorando le ragioni del “no”,
ma non si può nemmeno arrestare il processo
di integrazione ignorando le ragioni dei “si”.
Taluno spera che, compiuto il giro delle ratifiche,
gli Stati del “si” riescano a convincere
gli Stati del “no” a cambiare idea, accettando
il Trattato costituzionale in una seconda consultazione.
Ma riesce veramente difficile credere che questo sia
possibile.
Dunque, che fare? Penso che il percorso che gli Stati
membri, con l’aiuto delle istituzioni europee,
dovrebbero percorrere passi attraverso tre strade:
dialogare, cooperare per l’attuazione di alcune
parti della Costituzione che non richiedono la revisione
del Trattato e pensare una nuova revisione.
1) Dialogo.
Occorre innanzitutto capire le ragioni della crisi
e gli sbocchi possibili. Gli Stati del “si”
(o, come anche potremmo chiamarli, gli Stati della
Costituzione) dovranno innanzitutto interrogarsi fra
loro per capire se e cosa sono disposti a sacrificare
di quel trattato, per venire incontro a quelli che
lo hanno respinto, o cosa di quel trattato potrebbe
essere applicato utilizzando gli strumenti già
esistenti. E dovrebbero contemporaneamente mantenere
il dialogo con gli Stati che lo hanno rifiutato, per
capirne a fondo le ragioni e per comprendere cosa
possa salvarsi di quel testo così lungamente
negoziato e cosa di diverso vogliano i cittadini che
l’hanno rifiutato.
Il confronto fra l’Europa del “si”
e l’Europa del “no” dovrebbe avvenire
in maniera continua e strutturata. L’Italia
potrebbe avere un ruolo trainante per promuovere un
tale confronto, assieme alla Spagna (che si è
già fatta avanti proponendo di coordinare gli
Stati del “si”), alla Germania e agli
altri Stati che hanno già ratificato (cui si
aggiungeranno via via i prossimi che ratificheranno).
Come primo fra gli Stati fondatori ad aver accettato
la Costituzione, essa avrebbe le carte in regola per
lanciare un’iniziativa diplomatica a tutto campo,
un foro permanente di consultazione fra gli stati
del “si” che promuova il dialogo con gli
stati del “no”. Si tratta di un’iniziativa
diplomatica e politica che dovrebbe promuovere un
collegamento permanente, una consultazione sempre
aperta, il nostro Paese potrebbe guidare, forte della
diffusa accettazione dell’integrazione europea
fra i suoi cittadini. Non è questione di chi
è al governo oggi e di chi ci sarà domani:
è una questione di consapevolezza ed orgoglio
del nostro ruolo nella storia europea. Ed è
una questione su cui tutta la classe politica dovrebbe
rappresentare non solo se stessa, ma il Paese ed i
suoi ideali. La Farnesina del resto si è guadagnata
la stima da parte delle diplomazie degli altri Paesi,
per la sua competenza e per la continuità della
sua linea di fondo pur nella discontinuità
dei governi. Naturalmente una tale iniziativa può
avere successo solo se è portata avanti non
con protagonismo istrionico e vanesio (che sarebbe
controproducente), ma con spirito di servizio, azioni
congiunte e toni costruttivi. Un esempio può
venire dall’impegno europeista del Presidente
della Repubblica.
2) Cooperazione costituzionale.
Da più parti si afferma la possibilità
di trapiantare, con gli strumenti esistenti, alcune
innovazioni previste dal Trattato costituzionale,
magari anticipandone l’applicazione in via informale.
In alcuni settori si può ricorrere a diverse
forme di cooperazione senza la necessità di
procedere alla revisione dei Trattati esistenti. Si
tratta di possibilità che sono realizzabili
solo per un limitato numero di ipotesi. Così
come l’agenzia degli armamenti è già
stata istituita, si potrebbe cominciare a strutturare
un servizio diplomatico europeo e si potrebbero coinvolgere
i parlamenti nazionali nel controllo del rispetto
del principio di sussidiarietà. Ma sicuramente
non si possono riformare le istituzioni, le procedure
di voto, la tipologia degli atti. Quasi tutte le innovazioni
istituzionali previste dal Trattato costituzionale
contrastano con il testo del Trattato vigente. Non
si può, senza un nuovo trattato, creare il
Ministro egli Esteri: non si potrebbe formalmente
attribuire a Solana la presidenza dei Consigli Esteri,
né egli potrebbe avere alcuna competenza in
seno alla Commissione, perché il Trattato attuale
è basato sulla separazione dei poteri tra Consiglio
e Commissione e sull’indipendenza dei Commissari
dai Governi. Non si potrebbe creare neppure il Presidente
del Consiglio Europeo, perché il Trattato esplicitamente
prevede che questo sia presieduto dagli Stati membri
a rotazione semestrale.
Si tratta dunque di soluzioni che potranno essere
attuate solo con un nuovo trattato di revisione. In
mancanza di quest’ultimo, anche la Carta dei
diritti fondamentali è destinata momento a
rimanere nell’attuale limbo “semigiuridico”.
3) Studiare una nuova revisione.
Per quanto possa apparire una scelta dolorosa, credo
sarà inevitabile proporre una revisione del
Trattato diversa dal Trattato costituzionale. Occorrerà
probabilmente rinegoziare un accordo più snello,
più comprensibile e forse, per il momento,
dichiaratamente meno ambizioso.
A questo punto si aprirà una fase delicatissima,
soprattutto se, come probabile, sarà la presidenza
inglese ad impostarla. Si deve aver ben chiaro che
l’accettazione parziale dei principi del Trattato
costituzionale non è esente da rischi per la
coerenza ed il buon funzionamento dell’Unione.
Il Trattato costituzionale infatti rappresentava un
punto di equilibrio negoziale fra diverse posizioni,
equilibrio che potrebbe venire sbilanciato da un frettoloso
accoglimento di posizioni che costituiscono l’unica
spinta, per certi stati, ad accettare progressi in
altri settori. Ogni Stato, a seconda dei suoi interessi,
cercherà di far includere nella nuova revisione
ciò che gradisce e di far eliminare ciò
che non gli piace.
Per fare un esempio eclatante, l’introduzione
del Ministri degli Affari Esteri, se da un lato presenta
vantaggi sotto il profilo della rappresentanza esterna
dell’Unione, dall’altro è in grado
di alterare l’equilibrio interno e forse anche
l’indipendenza della Commissione: non a caso
l’introduzione di tale figura sta particolarmente
a cuore al Regno Unito. Ma ottenutane l’introduzione
con una minirevisione, tale Stato non avrebbe più
alcuna ragione per accettare altre innovazioni del
Trattato costituzionale, come l’estensione del
voto a maggioranza qualificata e la Carta dei diritti
fondamentali. Quest’ultima però è
il cuore stesso della Costituzione ed è passata
attraverso non una ma due convenzioni. L’Italia
dovrebbe controbilanciare questa tendenza in maniera
forte, ponendo l’incorporazione della Carta
nel Trattato come condizione irrinunciabile per il
suo assenso a qualunque futura revisione. La Carta
dei diritti va spiegata meglio ai cittadini. In Francia
si è votato contro la Costituzione anche perché
si riteneva che essa facilitasse l’accesso della
Turchia. E’ proprio la Carta dei diritti che
può invece costituire un limite invalicabile,
non geografico, ma di civiltà al disotto del
quale nessuno Stato può entrare a far parte
del progetto di integrazione europea. E’ importante
che i cittadini percepiscano il valore della Carta
come tutela contro i potenziali pregiudizi che derivano
da futuri allargamenti e, più in generale,
dal processo di globalizzazione mondiale.
Non credo invece sia possibile ed opportuno che la
futura revisione si limiti ad espungere (come qualcuno
sembra affermare) la parte III della Costituzione,
perché altrimenti molti principi contenuti
nella parte I rimarrebbero monchi.
Credo che, a parte la Carta dei diritti, il futuro
trattato dovrebbe differire notevolmente dal Trattato
costituzionale. Esso dovrebbe rispondere a due obbiettivi:
salvare alcuni principi essenziali di quest’ultimo
e porre le basi perché gli altri principi possano
essere adottati, in futuro, in modo graduale e con
minori traumi. Un Trattato forse non altisonante,
ma efficace, che contenga meccanismi procedurali,
di adozione degli atti, di revisione dei Trattati,
di recesso e di nuove condizioni per l’allargamento:
un secondo Atto Unico europeo, insomma, che (come
successe nel 1986) getti un ponte “tecnico”
verso un ulteriore Trattato più esplicitamente
politico e costituzionale.
L'autrice è ordinario di diritto dell’Unione
europea, facoltà di Giurisprudenza, Università
di Bologna.
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