“Una grande delusione”. Bastano queste
parole a Elena Paciotti per raccontare quello che
ha provato di fronte al doppio rifiuto di Francia
e Olanda al trattato costituzionale europeo. Un boccone
amarissimo da ingoiare per lei che, parlamentare europeo
dal ‘99 al 2004, è una europeista convinta,
per lei che ha scritto una parte importante di quel
testo quando fece parte della Convenzione per la Carta
dei diritti fondamentali, poi diventata la parte centrale
del trattato oggi tanto discusso; per lei che ha partecipato
ai lavori della seconda Convenzione e quindi ha seguito
questo trattato sin dal momento in cui non era che
un’idea da realizzare.
“La delusione è grande – ci dice
Elena Paciotti – perché so bene che la
nascita di una Europa politica è oggi una necessità;
credo anche che questa mia convinzione sia così
diffusa che vederla svanire è un vera e propria
tragedia”. Il dramma sta tutto nel vedere vacillare
il progetto europeo colpito dall’uno-due referendario,
un doppio schiaffo che rischia di dissolvere l’idea
politica dell’Unione, o almeno il tentativo
di costruirla, in una chimera impalpabile e distante
anni luce dagli interessi, dalla curiosità
e dai problemi delle persone comuni.
Ma l’amarezza non basta a capire quello che
è successo a Parigi e ad Amsterdam, e per rendersi
conto di come mai le minacce “dell’idraulico
polacco” abbiano potuto di più di qualsiasi
prospettiva politica bisogna affondare lo sguardo
là dove l’Unione, politicamente, è
stata più debole, carente, addirittura assente.
Bisogna guardare cioè alla distanza che corre
tra i cittadini e questa Europa vissuta sempre più
come una questione da politici di professione, sempre
meno come un futuro da mettere in piedi.
Uno dei motivi principali di questa bocciatura
referendaria al trattato costituzionale sta proprio
lì: c’è un abisso tra le élites
politiche e gli elettori, e l’Unione è
sempre più vissuta come un problema minaccioso.
Perché?
Questa percezione dell’Europa che hanno i cittadini
ha giocato un ruolo molto rilevante nei referendum.
A mio parere la causa di tutto ciò si può
riassumere in una definizione: si è trattato
di una cattiva politica. Così si spiega il
fatto che si possa costantemente strumentalizzare
l’Europa.
L’ha fatto Fabius, che ha accettato i trattati
di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza, per poi rifiutare
questo trattato costituzionale e accusarlo di non
contenere sufficienti tutele sociali mentre, invece,
ve ne sono assai più di quante ce ne fossero
negli accordi che l’hanno preceduto.
L’Europa è stata poi costantemente strumentalizzata
dai governi che, da una parte, sono sempre stati chiamati
a prendere decisioni sul futuro dell’Unione,
dall’altra, nelle questioni politiche nazionali,
hanno sempre additato l’Ue come prima responsabile
di ogni tipo di problema, come se quanto detto dall’Unione
non fosse stato stabilito da loro stessi.
Insomma, il dramma dell’Europa è che
manca una politica europeista, pensata e realizzata
per l’Europa, che sappia individuarne e promuoverne
il ruolo. All’origine di questo vuoto c’è
l’inadeguatezza delle classi politiche dirigenti,
un’inadeguatezza drammatica in Italia, ma che
certo da questo punto di vista non è molto
diversa, negli altri paesi europei.
Uno sguardo che non fa ben sperare per l’avvenire…
Noi abbiamo bisogno di un vero progetto dell’Europa
sull’avvenire, abbiamo bisogno di disegnare
il suo ruolo nel mondo, far valere le ragioni dell’allargamento,
parlare delle difficoltà che questo comporta
ma allo stesso tempo dobbiamo essere in grado di affermare
che è una fatica necessaria per tutelare le
generazioni future, per avere un peso reale nella
politica internazionale, per garantire nel mondo il
nostro modello sociale. E invece di queste cose, abbiamo
avuto una cattiva politica che ha strumentalizzato
le paure fino a farle prevalere.
A questo punto, guardando al futuro, o ci si lascia
andare alla prospettiva di un declino definitivo dell’Europa,
oppure è necessario impegnarsi nell’approfondimento
dell’integrazione per trovare quella dimensione
politica che è mancata. Ha ragione Ulrich Beck:
chi sostiene la visione neoliberista di un’Unione
che sia solo integrazione economica, insegue una chimera.
L’integrazione sociale e politica non sono né
dannose né inutili, ma semplicemente necessarie,
perché l’Europa non può essere
un semplice mercato.
Una politica europeista non esiste, manca
e se ne sente la mancanza, ma quando il testo del
trattato è stato scritto, non si è pensato
di promuoverlo, di parlarne, di colmare l’abisso
tra le élites politiche e i cittadini?
Uno sforzo in questa direzione c’ è
stato. Ma il fatto è che questa buona volontà
si esprime nelle sedi del Consiglio europeo, delle
istituzioni unitarie: quando i capi di stato e di
governo si riuniscono in sede europea, capiscono benissimo
qual è la direzione da prendere. E così
sono nate le decisioni importanti come a Colonia,
dove si stabilì di scrivere la Carta dei diritti
fondamentali, come a Laeken dove si decise di dare
una costituzione all’Ue e come a Lisbona dove
è nata la strategia sul processo di sviluppo
economico. Vede allora che esiste la consapevolezza
dell’Europa politica, così come c’è
la costante preoccupazione della Commissione europea
di avvicinare i cittadini.
Ma non basta la buona volontà delle istituzioni
europee, tutto questo deve essere fatto dalle forze
politiche di ogni singolo paese. Come sarebbe mai
possibile raggiungere milioni di cittadini? È
un compito che spetta a delle forze politiche che,
all’interno di ogni singola realtà nazionale,
pensino con un respiro europeo.
E invece le nostre forze politiche, anche quando
astrattamente e teoricamente affrontano questi temi,
si lasciano guidare da ragioni contingenti, dalla
loro inadeguatezza culturale e politica, e soprattutto
dagli interessi politici. Eccoli allora sfruttare
paure e sentimenti, cavalcare le preoccupazioni anziché
indicare i progetti. E questo è quello che
è successo. D’altra parte coloro che
sostenevano il “no”, hanno forse disegnato
un’altra Europa, alternativa a quella proposta
dal trattato? Nel rifiuto si sono sommati, da una
parte, i sentimenti nazional-xenofobi dell’estrema
destra, la chimera nostalgica di tornare a uno stato
che viva nella sua esclusiva dimensione nazionale,
dall’altro le accuse a un‘Europa troppo
liberista.
Nessuno però ha spiegato che al referendum
non si poneva una scelta tra questo trattato costituzionale
e un testo migliore, nessuno ha chiarito che l’unica
alternativa attuale è il trattato di Nizza
che dà all’Europa un’impronta assai
più liberista di quanto non faccia il testo
sul quale si sta decidendo, che contiene la Carta
dei diritti e più solide garanzie dal punto
di vista sociale.
Nessuno ha proposto una nuova idea di Europa.
E adesso, dopo i no di Francia e Olanda qual
è il futuro del trattato costituzionale?
La situazione è difficile, ma da un punto
di vista giuridico non c’è altro da fare
che andare avanti. I governi dei paesi membri, sottoscrivendo
il trattato e la dichiarazione allegata, si sono impegnati
ad avviare i procedimenti di ratifica in modo che
siano compiuti entro il 2006; e poi tutti i popoli
hanno diritto di esprimersi, non possiamo dire che
l’Europa ha parlato, e ha bocciato il trattato
costituzionale perché così hanno deciso
i cittadini francesi e olandesi. Il procedimento deve
andare avanti e potrebbe bloccarsi solo se più
di cinque stati membri dicessero no; solo al sesto
rifiuto si potrebbero interrompere le ratifiche.
Lei teme un effetto domino? È possibile
che sulla scia dei risultati di Francia e Olanda si
alzi in tutta Europa un vento contrario al trattato?
È una cosa possibile. Ma bisogna tenere conto
del fatto che nei trattati internazionali nessuno
è pienamente soddisfatto, tanto meno in una
Unione a 25 membri. L’Ue è per definizione
unità nella diversità, quindi è
impossibile che una costituzione rappresenti esattamente
i desideri di tutti. È chiaramente il frutto
di un compromesso. La necessità di accettare
un testo che, dal proprio individuale punto di vista,
non si ritiene perfetto è raggiungibile solo
se c’è la consapevolezza di un disegno
superiore. Quando gli italiani sono stati chiamati
a fare sacrifici per entrare nell’euro, non
lo hanno certo fatto per semplice piacere, ma il fine
era tale da giustificare la fatica di qualche rinuncia.
Se si riesce a comunicare l’idea di una politica
che si fa portatrice di valori alti, che si propone
come un progetto concreto, come sforzo per costruire
un futuro migliore per le nuove generazioni, allora
si comprenderà anche quanto l’Europa
sia necessaria, agli europei e al mondo intero. Se
si riesce a spiegare che abbiamo bisogno di una nuova
democrazia sovranazionale, allora si potrà
superare l’impasse.
Ma il problema è che questa politica oggi non
c’è, e tra i nostri leader non se ne
vede traccia.
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