Nessun perdente, tutti vincitori. Titolava così
un articolo pubblicato sull’Economist
a commento della reazione britannica dinanzi ai risultati
referendari francese e olandese. E in effetti, non
sono in pochi all’interno delle fila sia laburiste
sia conservatrici ad aver tirato un respiro di sollievo
all’indomani della bocciatura della carta europea.
Per i conservatori, l’affossamento del trattato
costituzionale e dell’integrazione politica
in esso sottesa viene ad aprire un quanto mai insperato
spiraglio di rinascita per un partito da anni in crisi
profonda. Sin dai tempi dell’ammutinamento parlamentare
conservatore contro il governo Major, consumatosi
in occasione del voto di ratifica su Maastricht del
1993) l ‘Europa è all’origine di
profonde e insanabili fratture all’interno della
compagine Tory; tensioni che hanno largamente contribuito
all’immagine – elettoralmente perdente
– di partito disunito e riottoso e alle tre
sconfitte elettorali consecutive subite dal 1997.
L’Europa non solo ha diviso il partito, ma ha
per anni impedito la riconquista della leadership
da parte delle correnti moderate (pro-europeiste),
conditio sine qua non perché il partito
possa ricollocarsi al centro dello spettro politico
e riguadagnare così il terreno perduto all’abile
strategia centrista New Labour. Con il depotenziamento
della questione europea e la possibilità di
spostare il dibattito su questioni di politica interna,
non sono in pochi a ritenere che esponenti come Kenneth
Clarke potrebbero avere una qualche chance
più nell’elezione del successore di Michael
Howard (dimissionario) che avrà luogo il prossimo
autunno. Vi è un’ultima ragione che spiega
l’euforia con cui i conservatori hanno accolto
l’esito referendario francese. L’Europa
è da anni la carta elettorale su cui l’Ukip
(UK Independence Party), una forza politica che chiede
il ritiro unilaterale della Gran Bretagna dall’Europa,
ha costruito la propria fortuna elettorale. Alle elezioni
europee del giugno 2004 il partito di Roger Knapman
ha ottenuto il 16% dei voti quasi la metà dei
quali sottratti all’elettorato Tory. Alle recenti
politiche, penalizzati dal sistema elettorale maggioritario
secco, i candidati Ukip non sono riusciti ad impadronirsi
di alcun seggio. Ciò nondimeno, soprattutto
nei collegi a rischio, hanno agito da vera e propria
spina nel fianco della compagine Tory, che, non a
caso, si è fatta portavoce di una campagna
elettorale caratterizzata da toni quanto mai surriscaldati
su temi come l’Europa, l’immigrazione
o l’asilo politico.
I no francese e olandese hanno destato non minore
sollievo all’interno del governo laburista.
Travolto dalla crisi di popolarità seguita
dalla guerra in Iraq e vedendo ridursi pericolosamente
il vantaggio goduto sul Partito conservatore, Blair
non ebbe altra scelta nel 2004 che quella di indire
una consultazione referendaria sull’adesione
britannica al trattato costituzionale europeo: si
trattava dell’unico modo possibile per spuntare
l’arma elettorale dell’anti-europeismo
con cui i conservatori avrebbero potuto colmare l’ormai
sottile distanza. Fu una scelta vincente che, tuttavia,
consumatisi gli ultimi brindisi del dopo voto lo scorso
maggio, i laburisti hanno ben presto iniziato a rimpiangere.
Secondo recenti sondaggi la percentuale di elettori
contraria alla costituzione europea in Gran Bretagna
ammonterebbe quasi al 55% degli elettori contro un
30% circa di favorevoli.
Come il successo di partiti come l’Ukip e il
buon risultato ottenuto sempre in occasione delle
europee del 2004 dai conservatori (affermatisi primo
partito con il 26,7% dei voti) hanno messo bene in
evidenza, l’Europa, anche grazie ad una stampa
tabloid fortemente euro-scettica, continua ad incontrare
diffuse resistenze presso l’elettorato britannico:
convertitosi malvolentieri negli anni settanta alla
causa europea, pillola amara a cui affidare il rilancio
dell’economia nazionale allora segnata da forte
crisi, esso si è sempre mantenuto fedele ad
una visione comunitaria ‘minima’ rimanendo
altrimenti sospettoso di qualsiasi spinta federalista
e progetto di integrazione politica. Soprattutto oggi,
in un contesto completamente mutato rispetto al 1975,
(l’anno del referendum in cui i cittadini britannici
confermarono la propria adesione alla Cee), in cui
la Gran Bretagna vanta tassi di inflazione e di disoccupazione
che sono quasi la metà rispetto alla media
Ue e un ritmo di crescita senza pari, le aspirazioni
sovra-nazionali di paesi come la Francia o la Germania
si scontrano con un muro di diffusa diffidenza se
non radicata ostilità; una realtà questa
con cui lo stesso Blair è dovuto, volente o
nolente, scendere ben presto a patti: dopo una prima
legislatura segnata da un marcato pro-europeismo (sempre
che si trattasse di un’Europa sulle cui decisioni
e direzione la Gran Bretagna fosse riuscita ad esercitare
una maggiore influenza), il leader laburista ha successivamente
abbracciato una strategia di maggiore cautela, cedendo
così ai dubbi di Gordon Brown sull’euro,
e rimpiazzando agli esteri Robin Cook, noto euro-entusiasta,
con il ben più euro-tiepido Jack Straw.
Quanto al voto sulla carta europea promesso ai propri
elettori, ancora una volta toccato dalla bacchetta
magica della fortuna, Blair non solo è riuscito
a risparmiarsi l’imbarazzo di una bocciatura
referendaria lasciando, con non poca soddisfazione,
l’onta del fallimento del progetto europeo ai
francesi, ma ha visto anche concretizzarsi due obiettivi
importanti da sempre tenacemente perseguiti dalla
Gran Bretagna: la crisi di una visione comunitaria
che stava portando l’Europa ben oltre il concetto
di mercato doganale digerito a suo tempo già
a fatica dai sudditi di sua Maestà; e, non
meno importante, l’incrinatura dell’asse
franco-tedesco, indebolito anche dalla profonda crisi
politica e di legittimità che ha investito
Chirac in Francia e Schröeder in Germania: pur
essendo riuscito a portare a casa la ratifica del
trattato costituzionale (attraverso voto parlamentare),
il cancelliere tedesco sconta infatti la pesante sconfitta
subita in occasione delle recenti elezioni regionali
in Westfalia, un risultato alla luce del quale una
sua rielezione alle imminenti elezioni politiche sembra
alquanto improbabile.
A fronte di un ‘motore’ franco-tedesco
in parte ingolfato e forte del successo conseguito
al G8 sulla questione della cancellazione del debito
estero per i paesi in via di sviluppo, Blair, in attesa
di porsi al timone della presidenza Ue il prossimo
luglio, si trova oggi dinanzi alla possibilità
di esercitare nuova forza e influenza all’interno
della cornice europea. Il governo laburista ha già
iniziato a tendere i muscoli con i propri interlocutori
europei in relazione alla questione del rebate,
lo sconto sui contributi comunitari del Regno Unito
strappato dalla Thatcher nel 1984 per via del peso
limitato esercitato all’interno dell’economia
britannica del settore agricolo (vera e propria spugna
delle finanze europee) che oggi Francia e Germania
vorrebbero vedere venir meno per far fronte al costo
dell’allargamento. La contropartita richiesta
da Blair – la riforma dell’impianto protezionistico
della politica agricola europea oggi artificialmente
sostenuta da sovvenzioni eccessivamente generose -
incontra la ferma ostilità della Francia che
non sembra disposta a fare concessione alcuna a riguardo,
venendosi a prospettare un braccio di ferro dall’esito
tutt’altro che scontato. La riforma della Pac
(Politica agricola comune) e del bilancio comunitario
non sono certo le uniche questioni su cui la Gran
Bretagna avrà modo di mettere alla prova la
propria forza nell’alveo dei nuovi equilibri
europei venutisi a configurare con la bocciatura francese
della Costituzione.
L’allargamento e la spinosa questione turca,
così come la difesa e l’esportazione
del cosiddetto ‘modello anglo-sassone’
sono solo alcuni dei temi – non meno controversi
- su cui la leadership laburista ha già dato
indicazione di voler insistere nel corso dei prossimi
mesi.
La direzione auspicata da Blair (e da Brown, che sull’Europa
non si discosta in alcunché dall’eterno
rivale se non per un ancor meno malcelato orgoglio
nel modello britannico) va esattamente in senso opposto
a quella implicitamente sollecitata dal no espresso
dall’elettorato francese e olandese; un no che
ha agito da chiaro monito per molti governi europei
oggi, meno che mai, nella posizione di far proprio
il verbo della terza via blairiana e parole d’ordine
come quella della flessibilità del mercato
del lavoro e della riforma del welfare. A questo riguardo,
l’affermazione alle presidenziali francesi di
Nicolas Sarkozy e la vittoria della leader della Cdu
Angela Merkel in Germania su cui non sono in pochi
a scommettere, potrebbero entrambe segnare un importante
cambiamento negli equilibri interni europei e fornire
alla leadership laburista la sponda necessaria per
vedere parte delle proprie aspirazioni realizzate;
già in passato, come in occasione della costituzione
del cosiddetto asse Bab (Blair - Aznar -Berlusconi),
Blair non ha esitato a fare gioco con governi di centro-destra.
Tutti ‘vincitori’ quindi, almeno per
il momento: i conservatori nel veder chiudersi anni
di dolorose faide intestine sull’Europa; il
governo laburista nel vedere sfumare un progetto d’Europa
della cui bontà si prospettava alquanto difficile
– se non impossibile – convincere l’elettorato
britannico. Un solo perdente forse: Gordon Brown.
La consultazione referendaria prevista per il prossimo
maggio 2006 e oggi sospesa, era stata indicata da
molti come la data termine dopo la quale, nel bene
o nel male, Blair si sarebbe probabilmente fatto da
parte per consegnare, dopo una lunga e paziente attesa,
le redini del governo al Cancelliere dello Scacchiere.
Con l’inabissarsi del progetto europeo si inabissa
pure la speranza di un imminente avvicendamento alla
leadership, avvicendamento che, tuttavia, a consolazione
dei brownites, diversamente dall’Europa
unita – prospettiva oggi quanto mai incerta
e lontana –, avrà per lo meno luogo nello
spazio di una legislatura.
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