280 - 29.06.05


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A Londra sono
tutti vincitori
Ilaria Favretto

Nessun perdente, tutti vincitori. Titolava così un articolo pubblicato sull’Economist a commento della reazione britannica dinanzi ai risultati referendari francese e olandese. E in effetti, non sono in pochi all’interno delle fila sia laburiste sia conservatrici ad aver tirato un respiro di sollievo all’indomani della bocciatura della carta europea.

Per i conservatori, l’affossamento del trattato costituzionale e dell’integrazione politica in esso sottesa viene ad aprire un quanto mai insperato spiraglio di rinascita per un partito da anni in crisi profonda. Sin dai tempi dell’ammutinamento parlamentare conservatore contro il governo Major, consumatosi in occasione del voto di ratifica su Maastricht del 1993) l ‘Europa è all’origine di profonde e insanabili fratture all’interno della compagine Tory; tensioni che hanno largamente contribuito all’immagine – elettoralmente perdente – di partito disunito e riottoso e alle tre sconfitte elettorali consecutive subite dal 1997. L’Europa non solo ha diviso il partito, ma ha per anni impedito la riconquista della leadership da parte delle correnti moderate (pro-europeiste), conditio sine qua non perché il partito possa ricollocarsi al centro dello spettro politico e riguadagnare così il terreno perduto all’abile strategia centrista New Labour. Con il depotenziamento della questione europea e la possibilità di spostare il dibattito su questioni di politica interna, non sono in pochi a ritenere che esponenti come Kenneth Clarke potrebbero avere una qualche chance più nell’elezione del successore di Michael Howard (dimissionario) che avrà luogo il prossimo autunno. Vi è un’ultima ragione che spiega l’euforia con cui i conservatori hanno accolto l’esito referendario francese. L’Europa è da anni la carta elettorale su cui l’Ukip (UK Independence Party), una forza politica che chiede il ritiro unilaterale della Gran Bretagna dall’Europa, ha costruito la propria fortuna elettorale. Alle elezioni europee del giugno 2004 il partito di Roger Knapman ha ottenuto il 16% dei voti quasi la metà dei quali sottratti all’elettorato Tory. Alle recenti politiche, penalizzati dal sistema elettorale maggioritario secco, i candidati Ukip non sono riusciti ad impadronirsi di alcun seggio. Ciò nondimeno, soprattutto nei collegi a rischio, hanno agito da vera e propria spina nel fianco della compagine Tory, che, non a caso, si è fatta portavoce di una campagna elettorale caratterizzata da toni quanto mai surriscaldati su temi come l’Europa, l’immigrazione o l’asilo politico.

I no francese e olandese hanno destato non minore sollievo all’interno del governo laburista. Travolto dalla crisi di popolarità seguita dalla guerra in Iraq e vedendo ridursi pericolosamente il vantaggio goduto sul Partito conservatore, Blair non ebbe altra scelta nel 2004 che quella di indire una consultazione referendaria sull’adesione britannica al trattato costituzionale europeo: si trattava dell’unico modo possibile per spuntare l’arma elettorale dell’anti-europeismo con cui i conservatori avrebbero potuto colmare l’ormai sottile distanza. Fu una scelta vincente che, tuttavia, consumatisi gli ultimi brindisi del dopo voto lo scorso maggio, i laburisti hanno ben presto iniziato a rimpiangere. Secondo recenti sondaggi la percentuale di elettori contraria alla costituzione europea in Gran Bretagna ammonterebbe quasi al 55% degli elettori contro un 30% circa di favorevoli.

Come il successo di partiti come l’Ukip e il buon risultato ottenuto sempre in occasione delle europee del 2004 dai conservatori (affermatisi primo partito con il 26,7% dei voti) hanno messo bene in evidenza, l’Europa, anche grazie ad una stampa tabloid fortemente euro-scettica, continua ad incontrare diffuse resistenze presso l’elettorato britannico: convertitosi malvolentieri negli anni settanta alla causa europea, pillola amara a cui affidare il rilancio dell’economia nazionale allora segnata da forte crisi, esso si è sempre mantenuto fedele ad una visione comunitaria ‘minima’ rimanendo altrimenti sospettoso di qualsiasi spinta federalista e progetto di integrazione politica. Soprattutto oggi, in un contesto completamente mutato rispetto al 1975, (l’anno del referendum in cui i cittadini britannici confermarono la propria adesione alla Cee), in cui la Gran Bretagna vanta tassi di inflazione e di disoccupazione che sono quasi la metà rispetto alla media Ue e un ritmo di crescita senza pari, le aspirazioni sovra-nazionali di paesi come la Francia o la Germania si scontrano con un muro di diffusa diffidenza se non radicata ostilità; una realtà questa con cui lo stesso Blair è dovuto, volente o nolente, scendere ben presto a patti: dopo una prima legislatura segnata da un marcato pro-europeismo (sempre che si trattasse di un’Europa sulle cui decisioni e direzione la Gran Bretagna fosse riuscita ad esercitare una maggiore influenza), il leader laburista ha successivamente abbracciato una strategia di maggiore cautela, cedendo così ai dubbi di Gordon Brown sull’euro, e rimpiazzando agli esteri Robin Cook, noto euro-entusiasta, con il ben più euro-tiepido Jack Straw.

Quanto al voto sulla carta europea promesso ai propri elettori, ancora una volta toccato dalla bacchetta magica della fortuna, Blair non solo è riuscito a risparmiarsi l’imbarazzo di una bocciatura referendaria lasciando, con non poca soddisfazione, l’onta del fallimento del progetto europeo ai francesi, ma ha visto anche concretizzarsi due obiettivi importanti da sempre tenacemente perseguiti dalla Gran Bretagna: la crisi di una visione comunitaria che stava portando l’Europa ben oltre il concetto di mercato doganale digerito a suo tempo già a fatica dai sudditi di sua Maestà; e, non meno importante, l’incrinatura dell’asse franco-tedesco, indebolito anche dalla profonda crisi politica e di legittimità che ha investito Chirac in Francia e Schröeder in Germania: pur essendo riuscito a portare a casa la ratifica del trattato costituzionale (attraverso voto parlamentare), il cancelliere tedesco sconta infatti la pesante sconfitta subita in occasione delle recenti elezioni regionali in Westfalia, un risultato alla luce del quale una sua rielezione alle imminenti elezioni politiche sembra alquanto improbabile.

A fronte di un ‘motore’ franco-tedesco in parte ingolfato e forte del successo conseguito al G8 sulla questione della cancellazione del debito estero per i paesi in via di sviluppo, Blair, in attesa di porsi al timone della presidenza Ue il prossimo luglio, si trova oggi dinanzi alla possibilità di esercitare nuova forza e influenza all’interno della cornice europea. Il governo laburista ha già iniziato a tendere i muscoli con i propri interlocutori europei in relazione alla questione del rebate, lo sconto sui contributi comunitari del Regno Unito strappato dalla Thatcher nel 1984 per via del peso limitato esercitato all’interno dell’economia britannica del settore agricolo (vera e propria spugna delle finanze europee) che oggi Francia e Germania vorrebbero vedere venir meno per far fronte al costo dell’allargamento. La contropartita richiesta da Blair – la riforma dell’impianto protezionistico della politica agricola europea oggi artificialmente sostenuta da sovvenzioni eccessivamente generose - incontra la ferma ostilità della Francia che non sembra disposta a fare concessione alcuna a riguardo, venendosi a prospettare un braccio di ferro dall’esito tutt’altro che scontato. La riforma della Pac (Politica agricola comune) e del bilancio comunitario non sono certo le uniche questioni su cui la Gran Bretagna avrà modo di mettere alla prova la propria forza nell’alveo dei nuovi equilibri europei venutisi a configurare con la bocciatura francese della Costituzione.

L’allargamento e la spinosa questione turca, così come la difesa e l’esportazione del cosiddetto ‘modello anglo-sassone’ sono solo alcuni dei temi – non meno controversi - su cui la leadership laburista ha già dato indicazione di voler insistere nel corso dei prossimi mesi.

La direzione auspicata da Blair (e da Brown, che sull’Europa non si discosta in alcunché dall’eterno rivale se non per un ancor meno malcelato orgoglio nel modello britannico) va esattamente in senso opposto a quella implicitamente sollecitata dal no espresso dall’elettorato francese e olandese; un no che ha agito da chiaro monito per molti governi europei oggi, meno che mai, nella posizione di far proprio il verbo della terza via blairiana e parole d’ordine come quella della flessibilità del mercato del lavoro e della riforma del welfare. A questo riguardo, l’affermazione alle presidenziali francesi di Nicolas Sarkozy e la vittoria della leader della Cdu Angela Merkel in Germania su cui non sono in pochi a scommettere, potrebbero entrambe segnare un importante cambiamento negli equilibri interni europei e fornire alla leadership laburista la sponda necessaria per vedere parte delle proprie aspirazioni realizzate; già in passato, come in occasione della costituzione del cosiddetto asse Bab (Blair - Aznar -Berlusconi), Blair non ha esitato a fare gioco con governi di centro-destra.

Tutti ‘vincitori’ quindi, almeno per il momento: i conservatori nel veder chiudersi anni di dolorose faide intestine sull’Europa; il governo laburista nel vedere sfumare un progetto d’Europa della cui bontà si prospettava alquanto difficile – se non impossibile – convincere l’elettorato britannico. Un solo perdente forse: Gordon Brown. La consultazione referendaria prevista per il prossimo maggio 2006 e oggi sospesa, era stata indicata da molti come la data termine dopo la quale, nel bene o nel male, Blair si sarebbe probabilmente fatto da parte per consegnare, dopo una lunga e paziente attesa, le redini del governo al Cancelliere dello Scacchiere. Con l’inabissarsi del progetto europeo si inabissa pure la speranza di un imminente avvicendamento alla leadership, avvicendamento che, tuttavia, a consolazione dei brownites, diversamente dall’Europa unita – prospettiva oggi quanto mai incerta e lontana –, avrà per lo meno luogo nello spazio di una legislatura.


 

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