Et voilà! 54,68% non,
45,32% oui.
Il risultato è servito. Atteso da settimane,
previsto da sondaggi ed evocato da cinici profeti
di sventura, alla fine si è materializzato
con tutta la sua evidenza, squassando di colpo il
fragile corpaccione del Trattato europeo che custodiva
il perfettibile compromesso di un'Europa soggetto
politico.
Sull’arte della politica - e la razionalità
che le dovrebbe essere propria – ha prevalso
la paura, che le si è abbattuta contro con
la rabbia di una nazione smarrita nel turbinio di
una modernizzazione mondializzata, di una cittadinanza
che ha trovato nel primo strumento a tiro, il referendum
sul progetto di Costituzione, l’unico canale
per affermare la propria esistenza di fronte ad una
classe politica da tempo sorda.
Sorda di fronte al malcontento espresso dai francesi
nelle scorse elezioni regionali ed europee che hanno
sanzionato Jacques Chirac e il suo primo ministro
Jean-Pierre Raffarin. Ceca nello scegliere lo strumento
del referendum come mezzo di legittimazione politica
interna quando spesso, invece, questo si presta alla
strumentalizzazione populistica - che del resto, nella
situazione data, era facile prevedere. Sorda e cieca,
questa classe politica, infine, quando ha inteso scommettere
la propria sopravvivenza con il futuro dell’Europa.
Ecco fatto, la Francia esiste, o crede di esistere,
perché ha ribaltato il tavolo europeo. I francesi
esistono, nonostante la cecità dei loro responsabili
politici, che da oggi forse saranno costretti a vederli,
a prendere le misure del loro malcontento e delle
proprie responsabilità. A questo punto anche
di fronte ai cittadini europei.
Perché a perdere è stata la costruzione
di un’entità politica che ha bisogno
degli strumenti per esistere e operare, di un’entità
che senza quei mezzi rischia di essere veramente quello
contro cui hanno votato i francesi: uno spazio di
libero scambio economico.
I cinici hanno avuto facile gioco a scaricare la
responsabilità del degrado sociale ed economico
del Paese sulla Costituzione, facendo passare, allo
stesso tempo, l’utopica prospettiva di una rinegoziazione
palingenetica che avrebbe permesso di improntare una
nuova Carta a non si sa quale socialismo. Forse a
quello in un solo paese dato che l’Ue è
composta da 25 stati.
Sono riusciti ad agire, quei cinici, un conservatorismo
sociale e un corporativismo nazionale attraverso lo
strumento del populismo. Hanno fatto manbassa di ogni
genere di semplificazione, da quella della Francia
dell’alto contro quella del basso a quella dei
capitalisti contro quella degli anticapitalisti. Hanno
evocato il pericolo dell’ormai proverbiale idraulico
polacco che in virtù della Costituzione sarebbe
arrivato nella campagna francese per fregare il lavoro
a quei pochi che ancora ce l’hanno.
Hanno, insomma, prima scientemente suscitato e poi
cimentato il senso del Nostro contro quello dell’Altro.
La difesa delle nostre imprese contro quelle orientali,
la difesa del nostro sistema pubblico contro quello
degli anglosassoni, la difesa dei nostri lavoratori
contro quelli dell’Europa dell’Est, la
difesa, in sintesi, del nostro modello contro quello
del mondo rappresentato dalle élites tecnocratiche
e ultraliberaliste che operano minacciose da Bruxelles.
La sinistra del no ha saputo cavalcare il malcontento
contingente e agire su uno strato profondo della francesità
gollista: quello universalista, ma poco cosmopolita,
quello che vuole l’Europa ma a propria immagine
e somiglianza, quella, cioè, che diffida di
ogni cessione di sovranità. Lo si è
visto nella storia della Francia e nel suo rapporto
difficile con la costruzione europea.
Ora nessun allarmismo, certo. Ma l’impasse
è grande e durerà. L’integrazione
economica e monetaria è forte, i cittadini
vivono una realtà europea esistente e l’Ue
continuerà a funzionare come ha fatto sin qui,
cioè a dire con i trattati in vigore. Ma se
prima si era in 15, ora si è in 25 e prendere
una decisione qualsiasi cercando l’unanimità
di tutti richiederà tempo, tanto tempo. Il
tempo necessario ad una diplomazia defatigante di
trovare una mediazione tra 25, per conseguire un compromesso
finale che, ad essere ottimisti, avrà ogni
volta una fisionomia alquanto fiacca e instabile.
I dirigenti europei, dopo la costernazione a caldo,
ora si sforzano d’essere ottimisti e dichiarano
che comunque il processo di ratifica andrà
avanti; ma molto realisticamente riceverà altri
colpi sull’esempio francese e di fondazioni
costituzionali se ne riparlerà più avanti
e molto a fatica.
Quello che resta, oltre a un’Europa spuntata
e senza voce per parlare in un mondo dove gli equilibri
mutano a gran velocità, è invece il
movimento di ricomposizione del quadro politico nazionale
francese terremotato dallo choc del referendum.
La sinistra del no, vincitrice, ha subito battuto
cassa chiedendo le dimissioni di Chirac, il quale
ha fatto sapere che rimarrà al suo posto fino
alla scadenza naturale del mandato e che rimpiazzerà
il fido Raffarin con l’altrettanto fido Dominique
de Villepin.
Nicolas Sarkozy, pretendente al titolo presidenziale
contro l’attuale titolare e leader liberista
dell’Ump, partito di maggioranza, si frega le
mani e si accredita sempre più come unico candidato
della destra per il 2007. Ci lavora da tempo con buoni
risultati e con il discorso che domenica sera ha tenuto
dopo i risultati del referendum, ha ribadito le sue
intenzioni e dettato il programma.
Il Ps è completamente spaccato e bisognerà
attendere un congresso anticipato per la resa dei
conti e i lunghi coltelli. Non si erano ancora ripresi
dalla batosta del 21 aprile 2002 i socialisti, da
quando Lionel Jospin era stato battuto al primo turno
delle presidenziali dal neo fascista Jean-Marie Le
Pen, che si ritrovano in una condizione peggiore di
quella d’allora.
Dalla parte dei vincitori di sinistra? Intanto si
festeggia e si fanno proclami. Ma maggioranza aritmetica
– oltretutto quando un afflusso importante di
no è venuto dall’estrema destra e dai
sovranisti conservatori – dicevamo, maggioranza
aritmetica non rima affatto con maggioranza politica.
Si fa veramente fatica a capire e scorgere le misteriose
vie che potranno portare ad un progetto politico comune
il Partito comunista con i gruppi trotzkisti, con
gli altermondialisti, con una parte dei socialisti
e una dei verdi. Certo sono loro i vincitori del referendum
poiché sono stati gli elettori di sinistra
che hanno segnato l’affermazione del no guidati
dai loro stregoni utopisti. Ma dove li guideranno
ora?
Chirac ha perso e l’Ue ha perso. Ma i francesi
hanno vinto? Il loro futuro, insieme a quello degli
europei, sembra ancora più incerto a questo
punto. Anche se hanno un nuovo primo ministro.
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