Questo
areticolo è stato pubblicato sull'Unità
il 19 maggio 2005.
Raramente un’imposta ha scosso gli animi come
l’Irap. Si è arrivati perfino a sostenere
che l’Irap è un’imposta di sinistra,
quando non ha nessuna caratteristica che favorisca i
ceti più poveri (né i più ricchi).
Nessuno ama un’imposta come tale, ma la sua validità
è misurata in relazione ad un’imposta alternativa
che generi lo stesso gettito effettivo. Il governo Berlusconi
ha inserito nel suo programma di governo l’abolizione
di questa imposta, ma non ha mai spiegato con che cosa
avrebbe sostituito la perdita di gettito. Infine oggi,
dopo otto anni dalla sua introduzione, un gruppo di
banche, appartenenti cioè al genere di impresa
che maggiormente hanno tratto beneficio dell’introduzione
dell’Irap (ma la riconoscenza non è moto
dell’anima che governa l’azione economica,
né giuridica), hanno fatto ricorso per la soppressione
dell’imposta alla Corte di Giustizia della Unione
Europea.
Conviene quindi soffermarsi sull’argomento e
chiarire aspetti tecnici e politici.
Come nasce?
Essa nasce con il governo Prodi nel 1997 (chi scrive
fu il relatore alla Commissione dei trenta del provvedimento)
come pilastro della riforma tributaria in sostituzione
di sette imposte, alcune delle quali (Irpeg, Ilor, Patrimoniale
ecc.) avevano portato i redditi societari ad essere
tassati con aliquote elevatissime, tra il 58 e il 63%;
inoltre va ricordato che tra le imposte soppresse erano
presenti anche i contributi sanitari che le imprese
pagavano sul salario con aliquote dall’8 all’11%.
L’introduzione dell’Irap non solo comportò
una semplificazione e razionalizzazione del sistema
tributario, ma anche una riduzione del carico fiscale
sulle imprese: infatti le sette imposte soppresse procuravano
all’erario un gettito di più di 60.000
miliardi di lire, mentre la nuova imposta ne procurava
poco più di 50.000: con l’introduzione
dell’Irap nessuna categoria di impresa subì
un aggravio, anche se i vantaggi del minore onere si
ripartirono in modo non eguale su tutte e in maggior
misura si indirizzarono a favore delle imprese più
capitalizzate, come le banche.
Che cosa finanzia il gettito dell’Irap?
L’Irap nasce in un momento in cui il dibattito
politico aveva fatto emergere la necessità che
gli enti decentrati, e le regioni in particolare, fossero
dotati di una imposta di loro esclusiva competenza e
fossero in condizioni, entro certi limiti, di modificarne
le aliquote: in questo consiste il tanto auspicato federalismo
fiscale. Siccome la principale spesa regionale è
la sanità, l’Irap fu destinata al finanziamento
di questo importante capitolo di spesa pubblica per
welfare. Oggi il 70% circa della spesa sanitaria è
finanziata dall’Irap. Usare l’Irap come
importante pezzo costitutivo del federalismo fiscale
non fu un errore, anche se non era una scelta obbligata,
né l’unica che si potesse fare: non privo
di logica sarebbe stato anche attribuire l’Irap
allo Stato e destinare alle regioni, e quindi alla sanità,
un sistema di addizionali Irpef o Iva, imposte che gravano
sul reddito delle famiglie, le maggiori destinatarie
della spesa sanitaria.
Quale la base di questa imposta?
Questo è un punto che richiede un minimo di logica
economica, necessaria peraltro per comprendere le questioni
sollevate di fronte alla corte di giustizia europea
dall’avvocato della Commissione europea. Ogni
produzione economica è compiuta da un’impresa
con lavoro (autonomo o dipendente) e con capitale (proprio
o a prestito). I fattori, lavoro e capitale, aggiungono
valore alla produzione, questo valore aggiunto si ripartisce
interamente ai fattori della produzione sotto forma
di salari, redditi di lavoratori autonomi, profitti
e interessi. Quindi valore aggiunto e redditi dei fattori
sono due grandezze uguali. Il valore aggiunto a sua
volta riguarda beni e servizi il cui utilizzo finale
è in consumi, investimenti ed esportazioni (al
netto delle importazioni). Parlare di valore aggiunto
oppure di sommatoria dei redditi dei fattori o della
somma di consumi, investimenti ed esportazioni nette
è parlare di tre aspetti della stessa identica
realtà. L’Irap è un’imposta
che grava sul valore aggiunto e quindi sui redditi dei
fattori e quindi su consumi, investimenti ed esportazioni
nette. Alla determinazione dell’imponibile (la
base su cui si calcola l’imposta) ci si può
arrivare indifferentemente lungo le tre vie e in particolare
o come somma dei redditi dei fattori di produzione o
come sottrazione del valore dei beni intermedi (e degli
ammortamenti) dal valore della produzione (e delle scorte):
il modo di calcolo è diverso, ma il risultato
economico e quantitativo è il medesimo. Su questa
base l’aliquota uniforme è al 4,25%.
Un’imposta di questa natura ce la abbiamo
solo noi italiani?
No. Un’imposta sul valore aggiunto è presente
in Francia, in certi Stati degli USA, è stata
recentemente introdotta in Canada e sta per esserlo
in Giappone.
Quali le obiezioni?
La più importante è che l’Irap grava
in particolare sul lavoro. La critica è infondata
perché l’imposta è neutrale, nel
senso che le scelte di un’impresa se produrre
con tanto lavoro e poco capitale o viceversa (così
come se produrre con tanto capitale a prestito e poco
capitale proprio o viceversa) non sono modificate dall’introduzione
dell’Irap, la quale applica la stessa aliquota
(4,25%) al reddito di tutti i fattori. Questo non significa
che se si vuole forzare le imprese ad assumere più
lavoro o se si vuole ridurre il cuneo fiscale sul lavoro
si può togliere dalla base imponibile dell’Irap,
in tutto o in parte i redditi da lavoro dipendente,
autonomo o entrambi, si può differenziare le
aliquote sui redditi da lavoro rispetto agli altri redditi,
si possono introdurre altre modifiche, ma deve essere
chiaro che sono tutte modifiche che tolgono all’imposta
la sua apprezzabile caratteristica di neutralità.
La seconda critica è che un’impresa potrebbe
essere costretta a pagare l’Irap anche se è
in perdita. Ma è un’obiezione senza senso
perché è una circostanza che si può
presentare ogni qual volta un’impresa deve pagare
delle imposte che gravano su basi imponibili diverse
dal reddito: si pensi ai contributi sociali, all’IVA,
all’ICI, che sono tutti pagamenti che l’impresa
deve compiere anche se non fa utili. L’obiezione
più fondata, ma inconfessabile, è che
l’Irap è detestata perché non è
facilmente eludibile.
Quali le obiezioni che hanno portato l’Irap
davanti alla Corte di giustizia dell’Unione Europea?
La divisione economica della Commissione Europea nel
1997, sollecitata dal Ministero delle Finanze italiano,
diede un parere assolutamente favorevole all’imposta
entrando nel dettaglio sulla sua natura e sugli effetti
che comportava. Dopo otto anni invece, la divisione
giuridica, attraverso la memoria dell’avvocato
Jacobson, ha dato un parere diametralmente opposto.
Ora si attende la sentenza della Corte. Le argomentazioni
si basano sulla presunta violazione dell’Irap
di una Direttiva Comunitaria in base alla quale nessuna
imposta può avere la stessa base imponibile dell’IVA,
che, si ricorda, è l’imposta dalla quale
l’Unione trae le sue risorse finanziarie. Il punto
è che mentre l’Irap è realmente
un’imposta sul valore aggiunto, l’IVA, malgrado
che si chiami così, non è un’imposta
sul valore aggiunto, ma un’imposta sui consumi.
L’Iva grava sui consumi e sulle importazioni che
direttamente e indirettamente entrano nei consumi, mentre
come abbiamo spiegato più sopra, l’Irap
grava su consumi, investimenti, esportazioni a cui vanno
sottratte le importazioni. Sono due basi imponibili
molto diverse sia in valore (la base Irap è molto
maggiore), sia in composizione, infatti nel caso dell’IVA
le importazioni vengono aggiunte alla base imponibile
e tassate, nel caso dell’Irap vengono sottratte
dalla base imponibile. Si può quindi sperare
che le conoscenze economiche della Corte siano maggiori
di quelle della sezione giuridica della Commissione
e che essa dia torto all’avvocato Jacobson. Si
può sperare inoltre che la Commissione si renda
conto che se una sua mano disfa oggi quello che l’altra
mano aveva consentito di costruire otto anni fa, provoca,
senza motivo, un danno enorme ad un paese e, come ha
recentemente affermato il Ministro Visco ad un convegno
sull’Irap alla Bocconi, l’Italia dovrebbe
potersi rivalere, nel caso di giudizio negativo della
Corte, sulla Commissione per questo suo comportamento
schizofrenico.
Qual è la posizione del nostro governo?
Riprovevole. Infatti il centrodestra introdusse legittimamente
nel suo programma di governo l’eliminazione dell’Irap,
solo che, come per tante altre proposte del centrodestra,
anche questa è servita per far propaganda, ma
è rimasta solo sulla carta per quattro anni.
Quando si è aperta la questione con la UE, in
un primo momento il Ministro dell’economia manifestò
soddisfazione che fossero altri a risolvere la questione,
solo che il gettito dell’Irap è di 33 miliardi
di euro che non sono facilmente reperibili altrove,
soprattutto nel nostro stato dei conti pubblici. Il
Presidente del Consiglio è tornato nei giorni
scorsi alla carica proponendo un alleggerimento dell’Irap
sul costo del lavoro. Il mancato gettito ammonterebbe
a 12 miliardi (su tutto il costo del lavoro sarebbero
circa 20) e anche qui non si sa come sarebbero coperti.
Quale dovrebbe essere una posizione politica
equilibrata su tutta la questione?
Innanzitutto difendere l’imposta in sede europea.
In subordine, qualora alla Corte prevalesse una logica
giuridica e non economica, si potrebbe ricalcolare l’Irap
come somma dei redditi dei fattori anziché come
differenza tra valore della produzione e valore dei
beni intermedi: si giungerebbe alla stessa base imponibile,
ma verrebbero ad essere sottratti gli argomenti di contestazione
a coloro che, come i giuristi italiani e quelli di Bruxelles,
pensano che redditi e valore aggiunto siano cose diverse.
In generale e ancora di più nel caso dell’ipotesi
di segmentazione dell’Irap in tre pezzi (sul reddito
da lavoro, sugli utili di impresa e sugli interessi)
per ridurre il cuneo fiscale sul “lavoro”
la base imponibile potrebbe consistere nel solo salario
ed escludere gli oneri sociali. La riduzione di gettito
potrebbe essere compensata con l’aumento della
aliquota sui redditi da capitale, che se fosse portata
dall’attuale 12,5%, uno dei livelli tra i più
bassi d’Europa, al 23%, che è l’aliquota
minima dell’Ire, darebbe un gettito di circa 6
miliardi di euro. La politica italiana farà un
passo avanti quando le misure proposte, se costose,
siano accompagnate da precise indicazioni quantitative
su come farvi fronte.
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