Tra i migliori specialisti e conoscitori
italiani della realtà britannica, Roberto Bertinetti
è docente di Letteratura inglese all’università
di Trieste, editorialista e commentatore per Il
Messaggero, Il Piccolo, il Gr3 della Rai, oltre
che membro della redazione della rivista “il
Mulino”. Il suo ultimo libro, uscito per
i tipi di Carocci, è Dai Beatles a Blair.
La cultura inglese contemporanea. Con lui
analizziamo i risultati delle recenti elezioni nel
Regno Unito.
Professor Bertinetti, commentando gli esiti
del voto Tony Blair ha ammesso il ridimensionamento
del suo schieramento. La formula del New Labour è
dunque entrata in crisi?
Il dato che emerge con maggiore evidenza dal voto
del 5 maggio è la vistosa diminuzione del consenso
a favore del New Labour, che supera di poco il trentacinque
per cento, solo tre punti in più dei conservatori.
Rispetto al trionfo del 1997 si registra un saldo
negativo di quasi quattro milioni di voti e di otto
punti percentuali. La perdita è invece più
contenuta rispetto al 2001, ma il significato politico
del voto non cambia: il New Labour esce senza dubbio
indebolito dalle urne e deve registrare un vero e
proprio crollo nei collegi di Londra. Anche se non
si può dimenticare il risultato storico raggiunto:
per la prima volta nella loro storia i laburisti ottengono
un terzo mandato consecutivo. Sulla flessione - che
deriva da un incremento dell’astensione nel
tradizionale elettorato del partito, da un consistente
passaggio di voti verso i liberaldemocratici e, in
misura minore, verso i tories – ha pesato soprattutto
un’ostilità crescente verso Tony Blair,
in particolare a causa della guerra in Iraq e di alcune
controverse decisioni su delicati temi di politica
interna. La mattina del 6 maggio, insomma, la Gran
Bretagna si è svegliata ancora laburista ma
certamente meno blairiana.
Blair è, dunque, ormai un’anatra
zoppa, un peso per il New Labour?
Credo che, sia pure indebolito, il primo ministro
possa comunque tirare un sospiro di sollievo per un
risultato che all’inizio della campagna elettorale
non appariva certo scontato e iniziare un terzo mandato
durante il quale dovrà gestire il delicato
passaggio dell’inevitabile successione alla
guida del governo dopo aver chiarito che non si ricandiderà
al termine di questa legislatura. Sarebbe comunque
un errore cercare solo nella scelta di intervenire
in Iraq o nello stretto legame con un’America
a guida repubblicana i motivi della caduta del consenso
per il leader laburista. Senza dubbio questi elementi
hanno avuto un peso non trascurabile sulla crescita
dei liberaldemocratici, contrari all’invio di
soldati nel Golfo. In realtà, tuttavia, il
progressivo indebolirsi dell’immagine del premier
meglio si spiega facendo ricorso alla legge dei cicli
della politica, al logoramento che, in epoca di trionfante
postmodernità, di mutamenti continui di mode
o stili di vita, trasforma rapidamente in vecchio
e obsoleto ciò che in precedenza appariva nuovo
e accattivante.
Come mai i conservatori non sono riusciti
a trarre vantaggio dalle difficoltà laburiste?
Penso non sia piaciuta alla middle England,
che da sempre determina la vittoria o la sconfitta
dei candidati a Downing Street, una campagna elettorale
aggressiva e populista, dagli evidenti toni razzisti,
tradottasi in una serie di martellanti spot in cui
i tories garantivano di avere le ricette migliori
per proteggere chi si sente minacciato dagli immigrati,
dalla criminalità, è ostile all’Europa
o si considera vessato dal fisco. La decisione di
Michael Howard di farsi da parte aggrava poi la crisi
di un partito che non sembra essersi ancora messo
al passo, in termini di cultura politica, con la modernità
postindustriale della Gran Bretagna contemporanea.
La crisi in cui versano i conservatori viene da lontano
e può essere spiegata con l’incapacità
di gestire l’eredità del thatcherismo.
Dopo l’uscita di scena nel 1990 di Margaret
Thatcher c’è stato il deserto sotto il
profilo politico all’interno di un partito incapace
di proporre un coerente progetto di futuro a quella
classe media che aveva costituito il suo naturale
bacino di consensi per gran parte del Novecento. E’
difficile che l’ennesimo cambio al vertice si
dimostri una medicina adeguata per curare una malattia
tanto grave. Servirebbero, invece, una nuova classe
dirigente e un programma di governo davvero alternativo
a quello laburista. Di cui però, almeno per
ora, non c’è traccia nel dibattito politico
conservatore.
Il risultato elettorale peserà sulle
scelte del New Labour durante il terzo mandato di
Blair?
Blair nel corso della sua prima uscita pubblica dopo
il voto ha detto di aver ben compreso il messaggio
inviatogli dagli elettori il 5 maggio. Tuttavia il
programma appena presentato ai Comuni pare soprattutto
all’insegna della continuità e, dunque,
non mi aspetto passi indietro rispetto ad alcune scelte
molto nette (e assai controverse) fatte nel corso
degli ultimi anni. Il Blair più recente sembra
mostrare in pubblico un atteggiamento decisamente
diverso rispetto a quello degli anni Novanta. Se in
passato andava in maniera aperta alla ricerca del
consenso, ora invece - come sottolinea anche Andrea
Romano nel suo The Boy. Blair e i destini
della sinistra, appena uscito da Mondadori -
il primo ministro ama ostentare una tempra inflessibile,
si presenta come un decisore. Si tratta di un cambiamento
in termini politici e di immagine che può danneggiare
il New Labour, come dimostra ampiamente il voto del
5 maggio”.
In cosa potrebbe essere diverso un esecutivo
con Gordon Brown al posto dell’attuale primo
ministro?
Sulla miglior strategia per centrare gli obiettivi
ritenuti prioritari dal governo in materia di politica
interna non ci sono visibili punti di frizione tra
Blair e Brown. “Occorre favorire la competitività,
sostenere l’imprenditoria e proteggere la libertà
di scelta dei cittadini. Noi siamo il partito moderno
della flessibilità e del business”, ha
infatti detto di recente il cancelliere dello Scacchiere.
Per i due uomini che poco più di dieci anni
fa hanno dato vita al New Labour il segreto del riformismo
vincente della sinistra britannica continua a risiedere,
insomma, in una brillante creatività politica
che ha permesso all’esecutivo di assecondare
i cambiamenti prodotti dalla globalizzazione, mantenendo
competitiva l’economia e garantendo l’intervento
dello Stato a sostegno delle fasce più deboli
e più esposte al rischio. Credo abbia ragione
chi sostiene che le politiche del New Labour rappresentino
il tentativo più ambizioso messo in atto in
Europa da parte di una forza di sinistra per tenere
insieme due obiettivi da molti ritenuti difficilmente
conciliabili: una maggiore produzione di ricchezza
e una maggiore giustizia sociale. Brown, in compenso,
è assai meno europeista di Blair, in particolare
sul tema dell’ingresso nell’area della
moneta unica. La loro rivalità, comunque, è
personale e non politica. Perché entrambi hanno
contribuito a definire le scelte fondamentali del
New Labour in materia economica e sociale”.
Come hanno cambiato il Regno Unito otto anni
di laburismo?
Sono cresciuti in misura molto sensibile gli investimenti
nei servizi pubblici, è stato avviato un ambizioso
programma di rilancio della sanità e dell’istruzione
per adeguare questi settori agli standard europei
dopo i tagli dei conservatori, è diminuita
la disoccupazione e soprattutto si è avviata
una profonda riforma del welfare che sta
dando buoni frutti, come hanno sottolineato di recente
Polly Toynbee e David Walker nel loro Better or
Worse? Has Labour Delivered?, un saggio
che propone un’ottima sintesi di quanto è
stato fatto e di ciò che ancora resta da fare
in Gran Bretagna in tema di politiche sociali. Impossibile
però dimenticare che rimane troppo ampio il
divario tra il reddito del segmento più ricco
della popolazione e quello medio, cui si aggiunge
un numero di poveri di gran lunga superiore a quello
di gran parte dell’Europa più sviluppata.
Secondo le ultime rilevazioni sono oltre il doppio
rispetto a venti anni fa. Colpisce, in particolare,
il dato relativo alla povertà infantile: circa
quattro milioni di bambine e bambini, in gran parte
con genitori appartenenti a minoranze etniche, concentrati
per il settanta per cento nelle aree urbane di Londra,
Glasgow, Liverpool e Manchester. E’ del tutto
evidente, almeno in questo ambito, la distanza che
separa i programmi dai risultati concreti ottenuti
dal governo. Su questo punto c’è stata
e continuerà ad esserci battaglia tra l’anima
più tradizionale del partito e quella riformista
guidata da Blair e da Brown. Anche se, per riprendere
il titolo del saggio di Toynbee e Walker, nel Regno
Unito a guida laburista si sta meglio rispetto agli
anni in cui a Downing Street c’erano i conservatori”.
In quale direzione, secondo lei, si muoverà
la politica estera del governo di Londra nel corso
del terzo mandato di Blair?
Le inevitabili ripercussioni internazionali del conflitto
iracheno si stanno rivelando particolarmente negative
proprio per il Regno Unito, soprattutto sul versante
europeo. Se, infatti, da un lato durante la fase iniziale
della crisi Blair era riuscito a trascinare con sé
la Spagna di Aznar, l’Italia, il Portogallo,
la Danimarca e la Polonia e aveva strappato ai tedeschi
la tradizionale egemonia sulle nazioni centro-orientali
del continente, negli ultimi mesi è apparso
evidente che Washington non ha più bisogno
di Londra per ricucire i rapporti transatlantici ma
preferisce il dialogo diretto con i paesi europei
che non hanno inviato truppe nel Golfo o le hanno
ritirate. L’antico progetto inglese di riuscire
ancora ad esercitare il ruolo di perno dell’alleanza
occidentale, garantendosi nel contempo consistenti
vantaggi geostrategici in un ambito più vasto,
sembra dunque uscire assai indebolito dalle controverse
scelte compiute dal primo ministro britannico durante
il suo secondo mandato. Che, non va dimenticato, stanno
producendo conseguenze anche sul piano interno per
quanto riguarda il ruolo del Regno Unito nella Ue.
Al tradizionale euroscetticismo si è infatti
venuta sommando nel corso degli ultimi tre anni una
crescente ostilità nei confronti dei partner
continentali, alimentata in maniera strumentale in
funzione antieuropea da parte della stampa all’epoca
degli scontri con Parigi e Berlino sull’intervento
in Iraq, che mette seriamente a rischio l’approvazione
per via referendaria del trattato costituzionale.
In materia di politica internazionale il bilancio
del blairismo non appare certo positivo, anzi sembra
quasi fallimentare: è modesta l’influenza
che il primo ministro è realmente in grado
di esercitare sulla Casa Bianca, in Medio Oriente,
nonostante l’impegno di Londra, non sono stati
fatti per il momento passi avanti decisivi, i rapporti
con i partner europei non sono migliorati e la Gran
Bretagna continua a guardare con diffidenza alla Ue.
Nell’immediato futuro cambierà ben poco.
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